Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le osservazioni astronomiche condotte da Galilei con il telescopio svelano nuovi fenomeni celesti, confermando la concezione copernicana del mondo. Keplero afferma il carattere fisico del sistema di Copernico e abolisce i principi del moto circolare e della velocità uniforme dei moti planetari. Con Keplero si pongono le basi per la costruzione della dinamica celeste. Questa è portata a compimento da Newton nei Principia (1687), in cui i moti dei pianeti, delle comete, della Luna, il fenomeno delle maree e la caduta dei gravi sono considerati l’effetto di una sola forza che è direttamente proporzionale al prodotto delle masse e inversamente proporzionale al quadrato delle distanze.
Nel 1609 Galilei punta verso il cielo il cannocchiale da lui costruito e dà inizio ad una nuova fase della storia dell’astronomia. Con il suo telescopio osserva la superficie lunare, i satelliti di Giove, le fasi di Venere, le macchie solari e la Via Lattea. Osserva anche Saturno, che descrive come un globo centrale e due lune, una su ciascuno dei due lati. Galileo non è l’unico a osservare i cieli con uno strumento ottico. Nel 1609, in Inghilterra, Thomas Harriot osserva la Luna con un telescopio a sei ingrandimenti e ne traccia uno schizzo.
La pubblicazione nel 1610 del Sidereus nuncius (“Messaggero celeste”) di Galilei, con i risultati delle sue osservazioni astronomiche e le sue illustrazioni, contribuisce a creare grande interesse intorno al telescopio e ai suoi usi in astronomia. Ma non mancano reazioni ostili all’opera di Galileo, come quella dell’astronomo bolognese Giovanni Antonio Magini, che reputa le scoperte galileiane un inganno, o quella di Giovan Battista della Porta che definisce lo strumento di Galileo “una coglionaria”. Nel 1610 Giovanni Keplero, che è in corrispondenza con Galileo e di cui condivide l’adesione al copernicanesimo, pubblica una lunga lettera allo scienziato italiano col titolo Dissertatio cum Nuncio Sidereo. Keplero, allora matematico imperiale, afferma la validità delle osservazioni celesti galileiane, ma sostiene che alcune delle tesi galileiane sulla costituzione dei cieli erano già state formulate nell’antichità. Keplero osserva i satelliti di Giove e conferma le scoperte galileiane. Inoltre, afferma che Giove ruota intorno al proprio asse, producendo così il moto orbitale dei pianetini. Come Galileo, vari astronomi sono convinti che i moti dei satelliti di Giove si possano utilizzare per determinare la longitudine – di qui l’interesse a calcolarne con precisione i periodi. Accurate osservazioni dei pianeti medicei sono condotte dal siciliano Giovan Battista Hodierna (1587-1660), che li osserva dal 1652 al 1655 e ne determina i valori dei periodi e delle distanze relative dal centro del pianeta, e dal bolognese di Giovan Domenico Cassini, che pubblica Le effemeridi di Giove nel 1668.
Alle osservazioni di Saturno, cui Galileo ha dato inizio, sono dediti numerosi astronomi della prima metà del secolo. Varie ipotesi sono avanzate sulla sua forma: Gassendi osserva il pianeta dal 1633 al 1649 e suppone che abbia forma ovale, ma successivamente ipotizza che si tratti di un corpo sferico centrale con due ‘maniglie’, ovvero due satelliti. Ma anche Gassendi, come Galilei, sospende il giudizio, non essendo del tutto convinto di nessuna delle ipotesi formulate. L’ipotesi dei due corpi laterali è formulata anche da Johannes Hevelius della città di Danzica, uno dei maggiori astronomi europei della seconda metà del secolo e autore di un’opera sui moti e le fasi della Luna (Selenographia, 1647). Nel 1654, Christopher Wren (1632-1723), professore di astronomia al Gresham College di Londra, sostiene che il pianeta sia circondato da un corpo centrale e da una “corona” di forma ellittica, che tocca il globo centrale in due punti. Dopo due anni di osservazioni astronomiche, nel 1657 Huygens interpreta la struttura del pianeta come un corpo centrale e un anello e determina l’inclinazione dell’anello rispetto all’eclittica, nonché il rapporto tra la dimensione dell’anello e del globo centrale. Rende pubblica la propria soluzione nel Systema Saturnium (1659), opera di astronomia copernicana che Huygens dedica Leopoldo de’ Medici. Cassini, utilizzando un telescopio con ottime lenti costruite da Giuseppe Campani scopre quattro satelliti di Saturno che si aggiungono a Titano, già osservato da Huygens.
Accanto alle ricerche teoriche e matematiche relative alla meccanica celeste, nella seconda metà del secolo le osservazioni astronomiche permettono una conoscenza sempre più dettagliata del sistema solare e dei moti planetari. Le tavole astronomiche, in particolare quelle di Keplero e di Cassini, nonché le osservazioni sistematiche condotte negli osservatori mettono a disposizione dati sempre più precisi sui moti celesti. Il principale osservatorio europeo del secondo Seicento è quello parigino, creato dall’Accademia delle Scienze e diretto dal Cassini, che nel 1669 era divenuto membro dell’Académie. Cassini conduce sistematiche osservazioni e organizza spedizioni scientifiche. Nel 1672-1673 una spedizione, guidata dall’astronomo Jean Richer raggiunge prima la colonia francese della Guiana, a 5° Nord dell’equatore, e poi le isole di Capo Verde nel 1682. La spedizione consente di determinare la declinazione solare, ovvero l’angolo tra la posizione del Sole al Mezzogiorno solare e il piano che passa per l’equatore, e raccoglie dati grazie ai quali è possibile stabilire che il periodo del pendolo varia con la latitudine. Sulla base di questi dati Huygens e Newton affermano che l’accelerazione gravitazionale è minore all’equatore e maggiore ai poli, il che indica che la Terra è uno sferoide ed è schiacciata ai poli.
Gli Inglesi costruiscono un osservatorio a Greenwich nel 1675, grazie all’iniziativa di alcuni membri della Royal Society. L’osservatorio è diretto dall’astronomo John Flamsteed, che Carlo II nomina Astronomo Reale. Tra i compiti di Flamsteed c’è la messa a punto delle tavole dei moti celesti, la risoluzione del problema del calcolo della longitudine – finalità di carattere pratico, mirate a fornire un supporto alla navigazione.
Inizialmente assistente di Flamsteed, Edmond Halley è soprattutto noto per aver studiato la cometa del 1682 che porta il suo nome; ne descrive l’orbita ellittica e ne prevede il ritorno nel 1758. Halley (come anche Newton) attribuisce un ruolo importantissimo alle comete. A suo avviso, il passaggio di comete in prossimità della Terra o l’impatto con essa fu all’origine dei principali mutamenti avvenuti nel globo terracqueo: diluvio, orogenesi e variazioni dell’inclinazione magnetica. Il newtoniano William Whiston (1667-1752) attribuisce alle comete sia il diluvio universale che la conflagrazione finale.
Keplero è tra i primi ad affermare il carattere fisico, non puramente matematico, del sistema copernicano. Nella sua opera astronomia e fisica sono congiunte e le osservazioni dei moti planetari si coniugano alla ricerca delle cause fisiche dei loro moti. A lui si deve l’introduzione della dinamica nello studio dei moti celesti, così come il superamento di due principi che erano stati a fondamento dell’astronomia occidentale: la circolarità dei moti celesti e l’uniformità delle loro velocità. L’universo – secondo Keplero – non è un prodotto del caso, esso è stato creato da Dio secondo leggi matematiche. Nel Mysterum cosmographicum (1596) tenta di esprimere l’ordine razionale del cosmo in termini matematici: le distanze dei pianeti dal Sole stanno tra loro come i poliedri regolari inscritti e circoscritti a una sfera. Poiché i poliedri regolari sono cinque e sei i pianeti, egli immagina un sistema solare a incastro, in cui le sfere che rappresentano le orbite dei pianeti sono alternate a solidi regolari. Ciò rende conto sia del numero dei pianeti che delle dimensioni delle loro orbite. I dati osservativi gli dicono che le proporzioni sono rispettate con una buona approssimazione. Ciò però non lo soddisfa e quindi cerca di perfezionare i calcoli. Successivamente abbandona questo modello e intraprende lo studio di un tema ancora più spinoso: la spiegazione delle variazioni di velocità dei pianeti. Comprende che essi si muovono più velocemente nell’avvicinarsi al Sole e più lentamente nell’allontarsi e cerca di determinare in termini matematici questa variazione, nonché di individuarne la causa fisica. Stabilisce che malgrado le variazioni di velocità vi sia una grandezza che rimane costante nel tempo: nella cosiddetta seconda legge asserisce che il raggio vettore che congiunge il pianeta al Sole descrive aree uguali in tempi uguali. Quanto alle cause dei moti planetari, parte dalla considerazione che il Sole, che è più grande di ogni pianeta e occupa una posizione centrale nel cosmo, ha una funzione fisica, ovvero spinge i pianeti nel loro moto orbitale. Ruotando intorno al proprio asse, l’astro diffonde una virtù, analoga alla forza magnetica, che diminuisce con la distanza. Quindi stabilisce che la velocità dei pianeti è inversamente proporzionale alla loro distanza dal Sole. Dopo lunghi studi del moto di Marte, giunge alla conclusione che i pianeti non hanno un moto circolare, ma descrivono un’orbita ellittica e che il Sole occupa uno dei due fuochi (prima legge). I moti planetari sono la risultante di due fattori: la distanza dal Sole e una resistenza al moto che è proporzionale alla loro “mole”. Keplero stabilisce quindi una relazione matematica tra i periodi e le grandezze delle orbite. Giunge alla formulazione della cosiddetta terza legge: il quadrato del periodo di un pianeta è in un rapporto fisso con il cubo del raggio della sua orbita (il semiasse maggiore dell’ellisse). Keplero dà significato fisico al sistema copernicano e introduce per la prima volta una dinamica celeste fondata su precise leggi matematiche e accurati dati osservativi. Tuttavia, le sue ardite concezioni cosmologiche, l’ideale di armonia e le virtù motrici del Sole (e dei pianeti) suscitano obiezioni tra i contemporanei e tra gli scienziati della generazione successiva. Galileo non accetta né le orbite ellittiche, né la dinamica celeste kepleriana; i meccanicisti, come Descartes, rifiutano le forze e l’azione a distanza e cercano di individuare modelli meccanici per rendere conto dei moti planetari.
Galileo Galilei
Sul moto terrestre e le sue conseguenze
Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, Giornata seconda
SALVIATI: Sia dunque il principio della nostra contemplazione il considerare che qualunque moto venga attribuito alla Terra, è necessario che a noi, come abitatori di quella ed in conseguenza partecipi del medesimo, ei resti del tutto impercettibile e come s’e’ non fusse, mentre che noi riguardiamo solamente alle cose terrestri; ma è bene, all’incontro, altrettanto necessario che il medesimo movimento ci si rappresenti comunissimo di tutti gli altri corpi ed oggetti visibili che, essendo separati dalla Terra, mancano di quello. A tal che il vero metodo per investigare se moto alcuno si può attribuire alla Terra, e, potendosi, quale e’ sia, è il considerare ed osservare se ne i corpi separati dalla Terra si scorge apparenza alcuna di movimento, il quale egualmente competa a tutti; perché un moto che solamente si scorgesse, v.g., nella Luna, e che non avesse che far niente con Venere o con Giove né con altre stelle, non potrebbe in veruna maniera esser della Terra, né di altri che della Luna. Ora, ci è un moto generalissimo e massimo sopra tutti, ed è quello per il quale il Sole, la Luna, gli altri pianeti e le stelle fisse, ed in somma l’universo tutto, trattane la sola Terra, ci appariscono muoversi da oriente verso occidente dentro allo spazio di venti quattr’ore, e questo, in quanto a questa prima apparenza, non ha repugnanza di potere esser tanto della Terra sola, quanto di tutto il resto del mondo, trattone la Terra; imperocché le medesime apparenze si vedrebbero tanto nell’una posizione quanto nell’altra. Quindi è che Aristotile e Tolomeo, come quelli che avevano penetrata questa considerazione, nel voler provare la Terra esser immobile, non argumentano contro ad altro movimento che a questo diurno; salvo però che Aristotile tocca un non so che contro ad un altro moto attribuitogli da un antico, del quale parleremo a suo luogo.
Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, Pordenone, Studio Tesi, 1992
L’universo cartesiano è pieno di materia, ogni moto di un corpo comporta necessariamente una ridisposizione degli altri corpi, con la conseguenza che ogni movimento iniziale dà luogo a un moto circolare continuo. Per Descartes, il cosmo consiste di un illimitato sistema di vortici, ognuno dei quali ha una stella (come il Sole) al suo centro, circondata da un sistema di pianeti, che si muovono nei loro rispettivi vortici.
Descartes spiega la formazione e struttura dell’universo sulla base di materia e movimento e delle leggi di natura. L’intervento divino si limita alla creazione della materia e all’attribuzione a essa di una certa quantità di moto. All’inizio, Dio (che è anche all’origine delle leggi di natura) ha diviso tutta la materia in parti di eguali dimensioni e ha attribuito a esse moti circolari. Per effetto del moto, si sono formati tre tipi di materia, che si differenziano solo per la forma geometrica, le dimensioni e i moti. Come conseguenza dello sfregamento delle parti di materia le une contro le altre, si sono via via formate particelle sferiche. Il primo elemento è costituito di particelle minutissime, formate dalle altre parti di materia man mano che andavano assumendo la forma sferica. Le particelle del primo elemento hanno moti velocissimi e, poiché non hanno forma e grandezza determinata, occupano gli interstizi presenti tra le altre parti di materia. Da queste particelle più piccole si sono formati il Sole e le stelle. Le particelle del secondo elemento, che hanno forma sferica e moto circolare, formano i cieli e rendono conto di numerosi fenomeni nell’universo cartesiano: i moti planetari, la gravità e la trasmissione della luce. La materia celeste forma vortici di densità e velocità variabile intorno al Sole e alle stelle, nei quali sono trascinati i pianeti. Descartes, che accetta il sistema copernicano, risolve il contrasto tra la teoria eliocentrica e la condanna della Chiesa facendo appello al carattere relativo del moto: la Terra, come gli altri pianeti, è trascinata dal proprio vortice di materia celeste, ma rispetto alle parti circostanti, essa è in quiete. Le particelle del secondo elemento hanno ovunque la stessa forza centrifuga che si manifesta come pressione su quelle situate in basso. La gravità è spiegata da Descartes non come proprietà dei corpi, ma come effetto dell’urto di particelle del secondo elemento, che ruotano turbinosamente intorno alla Terra. La loro tendenza centrifuga fa sì che esse spingano verso il centro della Terra i corpi formati dalle particelle più grosse. Le particelle che formano il terzo elemento sono tali che, per la loro grossezza e forma non sono facilmente mosse. Si sono formate a seguito dell’espulsione di alcune particelle del primo elemento nel corso del moto vorticoso del Sole e delle stelle, si sono aggregate tra loro e hanno formato corpi opachi e duri, come i pianeti, e quindi anche la Terra. Le particelle del terzo elemento, in base alle loro differenti grandezze e forme, hanno dato luogo all’aria e ai vari corpi che compongono la Terra.
Isaac Newton
Prefazione
Principia mathematica
La natura delle cose o sarà giustamente spiegata mediante la gravità dei corpi o non sarà affatto spiegata nemmeno con l’estensione, la mobilità e l’impenetrabilità dei corpi. Alcuni disapprovano questa conclusione, e borbottano non so che circa le qualità occulte. Sono soliti ciarlare continuamente del fatto che la gravità è nientemeno che un quid occulto e che le cause occulte debbono essere bandite dalla filosofia. Ma a costoro si risponde che cause occulte non sono quelle la cui esistenza si dimostra chiarissimamente per mezzo di osservazioni, ma soltanto quelle la cui esistenza è occulta e inventata e ancora non è stata provata. La gravità, dunque, non sarà la causa occulta dei moti celesti; se qualcosa è appalesato dai fenomeni, è che questa qualità esiste di fatto. Piuttosto, nelle cause occulte si rifugiano coloro che propongono alla guida di questi movimenti non so che vortici di materia interamente immaginata e affatto sconosciuta ai sensi. Sarà definita la gravità una causa occulta, e per questa ragione verrà respinta dalla filosofia, poiché la causa della stessa gravità è occulta e non ancora scoperta? Coloro che affermano queste cose stiano attenti a non affermare niente di assurdo, al fine di non rovesciare, in ultima analisi, i fondamenti di tutta la filosofia. Le cause, infatti, sogliono procedere con un nesso continuo dalle cose più complesse verso quelle più semplici; e quando si sia giunti alla causa semplicissima non è lecito andare oltre. Non è quindi possibile fornire una spiegazione meccanica della causa semplicissima: se infatti lo si concedesse, non sarebbe più una causa semplicissima. Si definiranno, dunque, occulte queste cause semplicissime e si ordinerà di respingerle? Allora, contemporaneamente, dovranno essere respinte anche quelle che ne dipendono strettamente e quelle che in avvenire ne dipenderanno, fino a che la filosofia sarà stata vuotata e interamente ripulita da tutte le cause. Sono quelli che affermano la gravità essere preternaturale, e la dicono un miracolo continuo. Vogliono, perciò, che sia respinta, in quanto le cause preternaturali non hanno posto in fisica. Non vale quasi la pena di fermarsi a confutare questa obiezione assolutamente sciocca, la quale distrugge tutta la filosofia. Infatti, o dicono che la gravità non è inerente a tutti i corpi, ciò che però non può essere affermato, oppure con ciò stesso, affermeranno che è preternaturale, in quanto non ha origine dalle altre proprietà dei corpi e, perciò, da cause meccaniche. Certamente le proprietà primarie dei corpi sono date, e, in quanto sono primarie, non dipendono da altre. Considerino, dunque, se per caso anche queste non siano egualmente preternaturali, e, perciò stesso, ugualmente da respingere; considerino, infine, quale allora debba essere la futura filosofia. Sono alcuni altri ai quali questa fisica celeste piace ancor meno in quanto è in contrasto con i dogmi di Descartes, e perché sembra che difficilmente possa essere conciliata con essi. A questi è lecito fruire della propria opinione, ma è opportuno che agiscano equamente: dunque non negheranno agli altri quella libertà che, insistemente, chiedono sia loro accordata. Perciò ci sarà permesso mantenere ed abbracciare la filosofia newtoniana che a noi sembra più vera; e seguire le cause provate dai fenomeni piuttosto che quelle immaginate e non ancora provate. Alla vera filosofia spetta di derivare la natura delle cose da cause veramente esistenti; ricercare quelle leggi con le quali il sommo artefice volle stabilire questo bellissimo ordine del mondo, non quelle con le quali avrebbe potuto, se così gli fosse sembrato. Infatti, è conforme alla ragione che da numerose cause, alquanto diverse fra loro, possa conseguire un identico effetto, ma vera sarà la causa dalla quale esso veramente e attualmente consegue; le altre non trovano posto nella vera filosofia. Negli orologi automatici, il medesimo moto dell’indice orario può essere dovuto o ad un peso che vi sia stato appeso oppure ad un impulso chiuso all’interno. Se un dato orologio è in realtà munito di peso, sarebbe ridicolo colui che vi immaginasse un impulso, e su un’ipotesi così precipitosamente inventata presumesse di spiegare il moto dell’indice; sarebbe opportuno, infatti, esaminare a fondo la struttura interna della macchina, così che il vero principio del moto assunto possa venire esplorato. Un giudizio identico o per lo meno non dissimile si deve portare su quei filosofi i quali pretesero che i cieli fossero pieni di una certa sottilissima materia, e questa mossa indefinitamente secondo vortici. Infatti, se anche a partire dalle proprie ipotesi potessero dimostrare rigorosamente i fenomeni, non è ancora detto che abbiano seguito la vera filosofia, e che abbiano scoperto le vere cause dei moti celesti; salvo che abbiano dimostrato che queste esistono realmente o quanto meno che le altre non esistono. Quindi, se venisse dimostrato che l’attrazione di tutti i corpi ha veramente luogo nella natura delle cose, e se inoltre venisse mostrato in quale modo tutti i moti celesti ne ricevono una soluzione, sarebbe inutile e, a buon diritto, da deridere l’obiezione di colui che dicesse che i moti devono venire spiegati mediante i vortici, anche se avessimo accordato che ciò possa essere. Ma non lo abbiamo concesso: infatti, a nessun patto è possibile spiegare i fenomeni mediante i vortici; cosa che dal nostro autore è stata ampiamente dimostrata e con chiarissime ragioni. Per cui è opportuno che indulgano ai sogni in modo più equilibrato coloro che sprecano il proprio lavoro in modo sterile, ricucendoli con inutilissime finzioni e contornandoli con nuovi commenti.
Isaac Newton, Principi matematici di filosofia naturale, a cura di A. Pala, Torino, UTET, 1989
Nello stesso anno della pubblicazione dei Principia di Descartes (1644) – in cui le leggi di Keplero non compaiono affatto – vede la luce un’opera dal titolo Il sistema del mondo di Aristarco di Samo, che l’autore, il francese Gilles Person de Roberval, temendo le reazioni della Chiesa, presenta come una semplice riproposizione delle dottrine dell’astronomo greco Aristarco. La cosmologia di Roberval unisce la teoria kepleriana dell’attrazione con la materia celeste cartesiana. Roberval elabora un sistema del mondo fondato sull’attrazione: ipotizza che tutte le parti della materia fluida che riempie l’universo siano dotate di una forza attrattiva per la quale si attraggono reciprocamente. La materia fluida ha densità variabile, che aumenta con la distanza dal Sole, il quale, collocato al centro dell’universo, ne produce il riscaldamento e la rarefazione. Il moto di rarefazione ed espansione delle particelle di materia fluida, in cui galleggiano i pianeti, controbilancia la forza di attrazione, impedendo che i pianeti si congiungano al Sole. Nel 1645 è pubblicata la prima opera di astronomia basata sulle leggi di Keplero, l’ Astronomia philolaica del francese Ismael Boulliau (1605-1694), il quale adotta la teoria kepleriana delle orbite ellittiche, ma ne rifiuta la dinamica, limitandosi a proporre una teoria dei moti planetari di carattere puramente cinematico. Anche l’inglese Jeremiah Horrocks accetta e usa le leggi di Keplero. È sì convinto che il Sole sia la causa dei moti planetari, ma non aderisce all’idea che la forza che li produce abbia carattere quasi magnetico, ricerca invece analogie di carattere meccanico, e adotta come modello il moto di un pendolo conico.
Giovanni Alfonso Borelli cerca di determinare le cause dei moti planetari in termini meccanici, adottando modelli tratti dalle macchine semplici (leva e bilancia) e dalle oscillazioni del pendolo. Così come Keplero, Borelli ritiene che nel Sole – o meglio, nei raggi di luce – sia presente una forza dalla quale hanno origine, per impulso e non per attrazione, i moti planetari. A differenza di Keplero, che sosteneva che tale forza diminuisce con la distanza, Borelli ritiene che si tratti di una forza costante. Non solo il Sole, ma anche i pianeti possiedono una forza motrice, che è causa dei moti dei loro satelliti. Borelli cerca di definire i meccanismi per i quali i pianeti si muovono con velocità differenti, elaborando una dinamica celeste fondata su interazioni di carattere meccanico. La velocità dei pianeti è inversamente proporzionale alla loro distanza dal Sole – lo stesso vale per i satelliti di Giove, che è anch’esso all’origine di una forza motrice. La spiegazione di Borelli si basa sul modello della bilancia: i pianeti oppongono una resistenza all’impulso dei raggi solari tanto maggiore quanto maggiore è la loro distanza dal centro dei loro moti: i moti dei pianeti sono equiparati ai pesi che scorrono lungo i bracci di una bilancia. Non è quindi, secondo Borelli, la forza motrice che diminuisce, ma la resistenza dei pianeti che aumenta. Borelli opera una scomposizione dinamica dei moti celesti: le orbite planetarie risultano dalla combinazione di una forza centripeta (verso il corpo centrale) e una centrifuga. Avendo eliminato dalla fisica il ricorso a simpatie e antipatie e a forze di carattere animistico, Borelli presenta il proprio sistema dell’universo come un perfetto meccanismo che rivela l’infinita sapienza del divino architetto. L’universo borelliano è una macchina che, in virtù della semplice disposizione e moti delle sue parti (che ha ricevuto dall’artefice divino), è in grado di muoversi senza la necessità di intelligenze celesti o di anime.
In Inghilterra lo studio fisico-matematico dei moti planetari ha come protagonisti (prima della pubblicazione dei Principia di Newton) Christopher Wren e Robert Hooke. Il primo sostiene che i moti orbitali dei pianeti sono la risultante di due componenti: una diretta verso il centro (il Sole) e un’altra rettilinea, ma non sviluppa questa teoria. Il secondo è convinto che il moto orbitale sia la risultante di un moto inerziale in linea retta e uno diretto verso il centro, prodotto, nel caso dei pianeti, da una forza che li spinge verso il Sole. La più importante innovazione che Hooke introduce nello studio del moto circolare è il ruolo che egli attribuisce alla forza centripeta: mentre Descartes e Huygens avevano considerato che in esso vi è una tendenza ad allontanarsi dal centro, Hooke ritiene che, perché un corpo descriva una traiettoria curvilinea, occorre che esso sia deviato da una qualche forza. Hooke afferma che il moto circolare, anche se uniforme, richiede l’azione di una forza, in altri termini, comprende che la variazione di velocità può anche consistere esclusivamente nel mutamento di direzione. Nello studio dei moti planetari, Hooke perviene a tre importanti conclusioni, che propone alla Royal Society nel 1666 e poi, sei anni dopo, in una lezione al Gresham College dedicata al moto della Terra, pubblicata nel 1674: 1) i corpi celesti hanno il potere di attrarre altri corpi verso i loro centri, e quindi il Sole ha il potere di attrarre la Terra e i pianeti; 2) tutti i corpi che si muovono di moto rettilineo continuano a muoversi in linea retta finché non sono deviati da una potenza e costretti a seguire una linea curva; 3) le potenze attrattive sono tanto maggiori quanto minore è la distanza che li separa dai loro centri dal corpo su cui agiscono. Hooke raggiunge la conclusione che questa forza opera in tutti i corpi dell’universo e non soltanto nel Sole, ma non sa in che ragione diminuisce. Il successivo passo è documentato da una lettera del 6 gennaio 1680 in cui Hooke informa Newton di aver determinato che il potere attrattivo che lega i corpi celesti diminuisce con il quadrato della distanza.
Nello studio dei moti planetari il giovane Newton è meccanicista e adotta la nozione cartesiana di forza centrifuga, ossia, spiega i moti dei pianeti come la risultante della tendenza a recedere dal centro (forza centrifuga) e di una forza che, controbilanciando la prima, li trattiene nelle loro orbite. Newton ipotizza che questa forza, diretta verso il centro, diminuisca con il quadrato della distanza, ma non ritiene che agisca a distanza e suppone che sia prodotta da cause meccaniche, ossia da urti di particelle.
Nei Principia Newton approfondisce l’esame della forza centripeta: nel primo teorema dimostra che, se un corpo che è sospinto continuamente verso lo stesso punto, il suo moto, altrimenti inerziale, sarà una linea curva; inoltre, asserisce che una linea condotta dal corpo in moto al punto verso cui è sospinto spazza aree uguali in tempi uguali. In questo modo Newton ha ricavato la seconda legge di Keplero, la legge delle aree, dalla combinazione del moto inerziale con la forza centripeta diretta verso il Sole. Successivamente Newton dimostra che, se la traiettoria è ellittica e se il Sole occupa uno dei due fuochi, allora la forza che produce tale moto è inversamente proporzionale al quadrato della distanza; e lo stesso vale anche per l’iperbole e la parabola. Quindi dimostra anche il reciproco, ossia che, supponendo che vi sia una forza centrale inversamente proporzionale al quadrato della distanza, la traiettoria è una sezione conica: un’ellisse, un’iperbole o una parabola. Mentre nei primi due libri dei Principia la trattazione dei moti dei corpi avviene in termini matematici, nel terzo, di carattere soprattutto astronomico, presenta il sistema del mondo, che si basa sulle leggi del moto e sulla gravitazione universale.
Newton esamina i moti dei satelliti di Giove, di Saturno, dei pianeti intorno al Sole e della Luna intorno alla Terra e osserva che in tutti questi casi sono valide le leggi di Keplero. Secondo la terza legge della dinamica di Newton, ogni pianeta deve attrarre il Sole con una forza uguale ma contraria a quella con cui è attratto dal Sole. Newton estende questo principio a tutti i corpi dell’universo, formulando la legge di gravitazione universale per la quale tutte le masse dell’universo si attraggono reciprocamente con forze uguali, la cui grandezza è direttamente proporzionale alla quantità di materia e inversamente proporzionale al quadrato delle distanze. È così in grado di dimostrare che una sola forza mantiene i pianeti nelle loro orbite intorno al Sole, mantiene i satelliti in orbita, inclusa la Luna intorno alla Terra, è la causa dei moti delle comete lungo traiettorie che sono sezioni coniche, produce la caduta dei gravi sulla Terra in tempi uguali, trattiene i corpi sulla Terra e causa le maree. Determina quindi le caratteristiche di questa forza centrale: innanzitutto stabilisce che è differente dalla forza magnetica, poiché quest’ultima non è proporzionale alle masse e decresce non con il quadrato della distanza, ma con il cubo. La forza di gravità è invece proporzionale alle masse e inversamente proporzionale al quadrato della distanza; in una sfera omogenea, si manifesta come se tutta la sua massa fosse concentrata nel suo centro. Poiché la Terra è schiacciata ai poli, la gravità, e quindi l’accelerazione del pendolo, variano a seconda della latitudine. La meccanica newtoniana spiega questa variazione con la variazione del raggio terrestre o distanza dal centro ed è anche in grado di ottenere una misura approssimativa dello schiacciamento ai poli. Newton è in grado di rendere conto di un fenomeno già noto nell’antichità, la precessione degli equinozi: l’asse di rotazione della Terra non è fisso rispetto alle stelle, ma subisce una precessione (una rotazione dell’asse attorno alla verticale, simile a quella di una trottola), il cui periodo è di circa 26.000 anni. Newton spiega questo fenomeno come effetto combinato dell’attrazione gravitazionale del Sole e della Luna sulla Terra, che è non è perfettamente sferica, ma è uno sferoide; la forza di gravità agisce sulla sporgenza equatoriale cercando di riportare la Terra sul piano dell’eclittica.
Newton non vuole presentare la gravità come una proprietà essenziale della materia, non vuole cioè attribuire alla materia l’origine della gravità, che tuttavia egli considera una forza cosmica reale, da cui dipendono i fenomeni del cielo, le maree, la caduta dei gravi. Che la consideri tale è confermato dalla proposizione VII, teorema VII del terzo libro dei Principia in cui si legge che la gravità appartiene a tutti i corpi ed è proporzionale alla quantità di materia di ognuno.
Il teologo e filologo Richard Bentley, che, come molti dei lettori dei Principia, interpreta l’attrazione gravitazionale come una forza inerente alla materia, chiede a Newton delucidazioni sulla gravità e la sua origine. Newton precisa che la gravità non è inerente alla materia e afferma: “è inconcepibile che l’inanimata, bruta materia, senza la mediazione di qualcos’altro che non sia materiale, possa influire su un’altra materia senza reciproco contatto. […] La gravità deve essere causata da un agente che opera costantemente in accordo a determinate leggi”. In altri termini, Newton afferma che Dio ne è la causa. Bentley pone a Newton una seconda questione: perché mai a causa della mutua attrazione dei corpi celesti le stelle non collassano nel proprio centro di massa. Lo scienziato inglese riafferma che la gravità non è in grado di spiegare la struttura dell’universo e che Dio, dopo aver creato il mondo, interviene di tanto in tanto regolando i moti dei corpi celesti per evitare che le masse collassino. L’universo di Newton è un universo costituito da un numero indefinito di corpi, immersi in uno spazio infinito creato da Dio onnipotente e onnipresente, che lo governa con il suo costante intervento. Dopo la pubblicazione dei Principia, si levano più voci critiche, in particolare tra i cartesiani, sulla forza di gravità.
Nello Scolio Generale, inserito nella seconda edizione dei Principia (1713), Newton dà ai suoi critici una risposta improntata alla cautela: le proprietà della gravità sono state dedotte dai fenomeni e a loro volta spiegano i moti dei corpi celesti; altra cosa è invece determinare la sua causa. Newton ammette di non esser stato in grado di farlo e di conseguenza preferisce astenersi dal formulare ipotesi sulla causa della gravità. Egli considera la possibilità che un etere immateriale possa essere il tramite dell’azione divina. Una soluzione gli è suggerita dagli esperimenti sull’elettricità di Francis Hauksbee. Newton ipotizza che uno spirito elettrico immateriale, contenuto in tutti i corpi, sia il mezzo attraverso il quale essi agiscono gli uni sugli altri. Questo spirito elettrico, che non offre alcuna resistenza, potrebbe essere l’intermediario dell’azione di Dio sui corpi, inclusa la gravità.
Secondo Newton, Dio deve intervenire perché il sistema del mondo continui a funzionare. La concezione newtoniana trova in Leibniz un critico severo, che lo accusa di non aver un’idea adeguata della potenza di Dio, essendo il Dio newtoniano un artefice così inesperto da aver costruito una macchina imperfetta, la quale richiede il suo continuo intervento per poter continuare a funzionare. Secondo Leibniz, nel mondo persiste sempre la stessa forza e la stessa energia, che passa di materia in materia, conformemente alle leggi di natura stabilite dal Creatore. La risposta di Newton è che Dio manifesta la propria presenza nel mondo con un’azione costante, mentre il Dio cartesiano e leibniziano, che si limita a costruire la macchina del mondo, è un Dio assente. Quella di Descartes e Leibniz è – secondo Newton – una dottrina che inevitabilmente bandisce Dio dall’universo.