L'associazionismo e la sua distribuzione territoriale
Confrontando l’Italia con altri Paesi economicamente avanzati, è possibile constatare che la nostra è stata una nazione povera di risorse associative. Questa povertà, evidente soprattutto nelle regioni meridionali, è legata a diversi fattori. Secondo alcuni studiosi, prevalenti sarebbero quelli di natura culturale, le cui radici storiche risalgono molto indietro nel tempo. Edward C. Banfield (1958) ha spiegato l’arretratezza della partecipazione sociale nel Mezzogiorno con quello che ha definito, con una formula divenuta celebre, il «familismo amorale». Robert D. Putnam (1993) l’ha collegata alla mancanza di «cultura civica», una sindrome composta di sfiducia negli altri, egoismo e isolamento sociale, le cui origini risalirebbero al 1300.
Hanno però operato in questo senso anche altri fattori, meno arretrati nel tempo. Intanto il fatto che il nostro Paese sia arrivato tardi alla realizzazione di una società industriale compiuta. Tra Ottocento e Novecento, infatti, l’Italia tardava ancora a costruire anche quegli assetti di democrazia pluralista che costituiscono il terreno necessario allo sviluppo di una solida società civile. Quando poi finalmente fu avviato un percorso di modernizzazione, questo processo, appena iniziato, venne precocemente interrotto dall’avvento del regime fascista che, oltre a ostacolarne la crescita, contribuì alla politicizzazione del tessuto associativo.
In questo saggio, nella parte iniziale sarà valutato in primo luogo il divario tra l’Italia e gli altri Paesi, utilizzando le ricerche che – a partire dalla fine degli anni Cinquanta – lo hanno messo in evidenza; saranno quindi delineati anche i caratteri e le peculiarità del caso italiano in questo campo, per poi analizzare la distribuzione della partecipazione associativa nelle regioni del nostro Paese (un’analisi, questa, che è stato possibile realizzare in modo approfondito solo a partire dal 1993, cioè da quando l’ISTAT ha avviato il suo articolato sistema di indagini Multiscopo). Infine, verranno presi in considerazione i fattori che spiegano le differenze tra le varie regioni italiane.
È stato scelto come punto di partenza della presente indagine il lavoro di Gabriel A. Almond e Sidney Verba (1963), frutto di una ricerca condotta alla fine degli anni Cinquanta. La ricerca segnala come in Italia nel 1959 si dichiarasse membro di un’associazione solo il 29% degli intervistati, contro il 57% degli Stati Uniti, il 47% della Gran Bretagna e il 44% della Germania occidentale (p. 302). Particolarmente ridotta in Italia risulta la partecipazione ad associazioni di tipo sociale (3%, contro il 13% degli Stati Uniti, il 14% della Gran Bretagna, il 10% della Germania), mentre comparativamente alto risulta l’impegno in organizzazioni di tipo politico (8% in Italia contro rispettivamente 11%, 3%, 3%). Non che nel nostro Paese fosse particolarmente diffuso l’interesse per la politica; in Italia, però, diversamente da quanto accadeva nelle nazioni economicamente avanzate, la militanza nelle organizzazioni politiche era più frequente dell’impegno nelle associazioni che operano semplicemente nel sociale. Ridotto, rispetto a Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania, era poi il numero di coloro che appartenevano a più di un’associazione (6% in Italia contro il 32% degli Stati Uniti, il 16% della Gran Bretagna, il 12% della Germania).
La ricerca di Almond e Verba, in sintesi, mostra come i pochi legami associativi di cui disponeva il nostro Paese avessero spesso il carattere della militanza politica concentrata in un’unica organizzazione. Emerge così il ritratto di una società civile debole ed egemonizzata dai partiti, che sarebbe stato confermato dalle ricerche successive. Queste ultime avrebbero messo in luce l’esistenza di una società organizzata – soprattutto nelle aree ‘bianche’, legate alla cultura cattolica, e in quelle ‘rosse’, legate alla cultura comunista – attorno a costellazioni di associazioni (operanti in campo sindacale, ricreativo, culturale, cooperativistico) di cui il partito rappresentava la stella centrale.
L’indagine di Almond e Verba è stata condotta alla vigilia di alcuni mutamenti che cambieranno il volto dell’Italia: in primo luogo il boom economico e, assieme a questo, l’avvio di processi di scolarizzazione e urbanizzazione. Tali mutamenti si realizzarono parallelamente a una fase di turbolenza sociale che, apertasi nei primi anni Sessanta con le rivendicazioni operaie nelle fabbriche del Nord, si accentuò alla fine di quel decennio con la contestazione studentesca e l’autunno caldo. Il clima di effervescenza sociale di quel periodo non ha toccato solo l’Italia, ma nel nostro Paese ha sicuramente assunto caratteri e durata particolari, estendendosi per gran parte degli anni Settanta. È a questa fase che in genere gli studiosi (per es. Sani 1980) hanno ricondotto l’avvio di una società civile non più dominata dai partiti tradizionali.
I dati disponibili mettono in evidenza una crescita progressiva, tra il 1965 e il 1975, per quanto riguarda la partecipazione ai partiti politici. In particolare, gli iscritti alla Democrazia cristiana, al Partito comunista e al Partito socialista se nel 1965 sono 3.666.068 (ed erano 3.667.884 nel 1950), nel 1975 arrivano a 4.002.293 (Politica in Italia: i fatti dell’anno e le interpretazioni, a cura di P. Ignazi, R.S. Katz, 1995). La crescita ha tuttavia dimensioni contenute e, soprattutto, vita breve: nella fase immediatamente successiva il numero degli iscritti ai partiti si andrà progressivamente riducendo (3.556.114 nel 1985) per scendere ancora negli anni Novanta.
Se guardiamo ai partiti, non si può parlare di un aumento stabile della partecipazione. Sono cresciuti allora altri ambiti della società civile?
Questa è un’ipotesi plausibile. Anche perché diversi studi (a partire dai lavori di Alessandro Pizzorno sulla formazione di «nuove identità collettive») hanno sottolineato come in quegli anni l’impegno sociale si sia manifestato soprattutto in aree esterne alle appartenenze tradizionali. Il decennio ha visto la diffusione dei piccoli partiti extraparlamentari e dei «nuovi movimenti sociali»: attraverso il movimento degli studenti, quello femminista e quello ecologista, i partiti tradizionali perdono il monopolio della capacità di azione collettiva che in grande misura avevano avuto negli anni Cinquanta.
Di certo nel corso degli anni Settanta cresce la partecipazione sindacale, e il numero degli iscritti alle principali confederazioni sindacali mostra un aumento più consistente di quello dei partiti, passando, per quanto riguarda CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro) e CISL (Confederazione Italiana Sindacato Lavoratori), da 4.010.923 nel 1965 a 6.674.944 nel 1975 (La sindacalizzazione tra ideologia e pratica. Il caso italiano 1950/1977, a cura di G. Romagnoli, 1980).
È vero che nel nostro Paese i legami tra le maggiori confederazioni sindacali e i partiti sono sempre stati piuttosto stretti; in questo caso, l’ipotesi di una crescita della partecipazione sociale esterna ai partiti, va quindi adottata con cautela. Non si può negare, comunque, che lo sviluppo della sindacalizzazione negli anni Settanta si sia tradotto nell’affermazione di sindacati più autonomi. Se negli anni Cinquanta il sindacalista era in primo luogo un comunista, un socialista o un democristiano – e solo in seconda istanza un militante sindacale – nella nuova fase la partecipazione sindacale acquista una rilevanza autonoma ed è assai meno di prima semplicemente una conseguenza dell’appartenenza a un partito.
Come per i partiti, anche per i sindacati l’andamento successivo agli anni Settanta è però meno positivo. Più precisamente, si arresta la crescita della sindacalizzazione tra i lavoratori dipendenti, anche se si assiste a un aumento del numero dei pensionati iscritti ai sindacati. Dal 1999 (1998 per la CGIL) per alcuni anni sono poi in leggera crescita gli iscritti anche tra i lavoratori dipendenti (ma continua a diminuire il tasso di sindacalizzazione); complessivamente, nel 2006 CGIL e CISL dichiaravano 9.997.894 iscritti, di cui 5.167.015 pensionati, e la UIL 1.766.541, con 552.713 pensionati (A. Bianco, E. Giacinto, Sindacato oh sindacato!, 2007).
Poche, invece, le informazioni disponibili sulla partecipazione al di fuori dei partiti e dei sindacati. Dopo i risultati della ricerca di Almond e Verba, non si hanno infatti serie statistiche affidabili su questo aspetto dell’associazionismo. Si tratta di una mancanza rilevante poiché la ricerca del 1959 mostra come gli elementi di maggior debolezza dell’Italia fossero appunto non sul terreno della militanza politica e sindacale, ma su quello dell’associazionismo più strettamente civile.
La lacuna inizia a essere colmata a partire dal 1981 dalla European values study (EVS) e poi dalla World values survey (WVS), con un insieme di indagini statistiche comparate – condotte a partire dal 1981: qui verranno considerate quelle del 1981-83, 1990-93, 1995-99 – il cui questionario comprende una serie di domande sulla partecipazione a diversi tipi di associazioni. I risultati di queste ricerche offrono però un’immagine dell’Italia che, nei primi anni Ottanta, contrasta con l’ipotesi di una crescita della vitalità associativa. Da questi dati emerge invece, almeno sino al 1981, la prosecuzione della povertà associativa rilevata da Almond e Verba.
James E. Curtis, Douglas E. Grabb ed Edward G. Baer (1992), lavorando sui dati WVS raccolti nella prima ondata e riferiti a 15 Paesi, collocano infatti l’Italia all’ultimo posto nella graduatoria della membership all’insieme delle associazioni. La percentuale di intervistati (persone dai 21 anni in su) che nel 1981 in Italia dichiarano di partecipare ad associazioni volontarie risulta inferiore persino a quella registrata vent’anni prima da Almond e Verba. È vero che i dati non sono strettamente comparabili, perché derivano da questionari non identici (va notato in particolare come la lista di associazioni presenti nel questionario del 1959-60 fosse più ampia rispetto a quella proposta nella ricerca WVS; comprendeva, tra l’altro, anche associazioni di tipo sportivo che mancano invece nelle indagini 1981-83). Se confrontiamo però il risultato dell’Italia nei primi anni Ottanta con quello degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e della Germania nello stesso periodo, troviamo che la differenza a sfavore del nostro Paese è superiore a quella misurata due decenni prima. Gli individui che aderiscono alle associazioni volontarie considerate nella ricerca WVS sono il 26% in Italia contro il 73% degli Stati Uniti, il 53% della Gran Bretagna, il 49% della Germania (e il 68% della Svezia, il 67% dell’Irlanda del Nord, il 63% dell’Olanda, il 62% della Norvegia e il 61% dell’Australia; Paesi a bassa partecipazione risultano invece, assieme al nostro, la Francia con il 27%, il Giappone con il 30%, la Spagna con il 31%). Se prestiamo fiducia a questi dati, nel 1981 la condizione del nostro Paese risulterebbe peggiorata nel confronto con altre nazioni.
Attraverso le ricerche WVS disponiamo anche di dati che valutano l’impegno attivo dei soggetti all’interno delle associazioni, più precisamente: lo svolgimento di «attività di lavoro volontario non retribuito». In questa seconda classifica l’Italia è poco più in alto nella graduatoria: tipico dell’Italia è in effetti l’elevato rapporto tra il numero di membri militanti e il numero complessivo dei membri delle associazioni (Scidà 1995, p. 117).
Nel campo della partecipazione la società italiana segue cioè un modello che si può definire europeo-mediterraneo, dato che è anche della Francia e della Spagna, caratterizzato da bassa membership complessiva accompagnata da un’alta percentuale di membri che si impegnano attivamente. Un modello cui si contrappongono: a) quello scandinavo, caratterizzato da elevata membership e quota (relativamente) modesta di membri attivi; b) quello nordamericano, che mostra un’elevata misura sia delle adesioni che della partecipazione attiva.
Evan Schofer e Marion Fourcade-Gourinchas (2001) hanno ripreso i dati della WVS 1981-83, aumentando a 19 il numero dei Paesi considerati. Anche in questa classifica ampliata, la percentuale di persone che rispondono di essere membri di almeno un’associazione colloca l’Italia all’ultimo posto.
Nel periodo successivo è possibile riscontrare un certo miglioramento e infatti le indagini WVS realizzate nel 1990-93 (Schofer, Fourcade-Gourinchas 2001; cfr. anche Curtis, Grabb, Baer 2001) ed estese a 32 nazioni segnalano una crescita degli italiani che fanno parte di associazioni: dal 26,0% del 1981 al 34,9% del 1990 (si tratta, però, di dati non del tutto comparabili con quelli della ricerca precedente perché nel questionario 1990-93 sono state aggiunte sei categorie di associazioni – tra cui in particolare quella delle organizzazioni sportive che in diversi Paesi hanno fatto salire la percentuale delle risposte positive). Il nostro Paese perde comunque l’ultimo posto in classifica, lasciato ad Argentina e Spagna.
La ricerca, i cui risultati sono stati approfonditi da Giuseppe Scidà (1995), conferma come l’Italia continui a essere caratterizzata dalla debolezza dell’associazionismo più strettamente civile. Tipico del caso italiano continua poi a essere l’elevato rapporto tra il numero di membri militanti e il numero complessivo dei membri delle associazioni. Se si costruisce la classifica di questo quoziente troviamo una graduatoria pressoché rovesciata rispetto a quella della membership: «al primo posto l’Italia, ove oltre i due terzi dei membri di associazioni dichiara di prestare un’attività non-profit nelle proprie associazioni, seguita dalla Francia, contro una media europea secondo la quale svolge lavoro non-profit solo la metà dei membri» (p. 117); in ultima posizione l’Olanda, che è invece ai primi posti nella scala della membership.
Che cosa accade negli anni Novanta del Novecento? Secondo le indagini WVS, si tratterebbe di un periodo di sviluppo dell’associazionismo nel nostro Paese. I risultati della ricerca condotta nel 1999 segnalano per l’Italia una crescita di quasi dieci punti percentuali nell’insieme della membership rispetto al 1990 (Scidà 2000, p. 117). Questa crescita riguarda pressoché tutti i tipi di associazioni, con l’eccezione di sindacati e partiti. Contemporaneamente, si riduce il rapporto tra il numero di coloro che prestano attività gratuita e l’insieme dei membri: perché i militanti crescono in misura inferiore ai semplici membri. Nel corso degli anni Novanta si attenua cioè la specificità italiana e l’Italia si avvicina al modello di altri Paesi (p. 118).
Le indagini WVS non costituiscono l’unica fonte di dati di cui disponiamo per valutare l’andamento della partecipazione associativa in Italia negli ultimi decenni del Novecento. Un’altra fonte è costituita dai Rapporti IREF (Istituto di Ricerche Formative ed Educative), che disegnano un quadro non identico a quello riscontrato dalle WVS. Su alcune tendenze c’è concordanza: sia sulla crescita dell’associazionismo negli anni Ottanta sia sulla crisi della partecipazione a sindacati e partiti. Non risulta però dalle indagini IREF quel consistente sviluppo del tessuto associativo che le ricerche WVS segnalano nel corso degli anni Novanta. Secondo l’IREF la crisi di partiti, sindacati e associazioni professionali in quest’ultimo periodo non è stata accompagnata da un’espansione dell’associazionismo sociale, che nell’insieme mostra stabilità, se non un leggero ridimensionamento. La percentuale di persone che, oltre alla generica adesione, mostra un impegno concreto (dichiarando di svolgere attività volontaria non retribuita), secondo questa fonte è diminuita.
Un’altra ricerca, la European social survey (ESS), aggiunge informazioni e aggiorna al 2001-2002 la comparazione tra Italia e l’Europa. Il risultato italiano riguardo alla membership è più vicino ai risultati IREF che a quelli WVS. L’Italia continua a essere nella parte bassa della classifica – precede solo Portogallo, Ungheria, Grecia e Polonia – con percentuali che sono la metà di quelle della Germania e del Regno Unito (ma inferiori anche a quelle della Francia).
L’Italia non è distante dalla media delle altre nazioni per quanto riguarda i partiti politici (l’adesione in Italia è al 3,2% contro il 3,4% degli altri Paesi; la partecipazione all’1,7% contro il 2,0%), le organizzazioni di aiuto umanitario e le organizzazioni professionali. Lo è un poco di più per quanto riguarda i sindacati mentre il distacco aumenta in misura consistente negli altri casi (organizzazioni sportive, culturali, di consumatori, ambientaliste, amicali, scolastiche, religiose).
I dati che abbiamo considerato permettono di situare il caso italiano rispetto ad altri Paesi. Non consentono, però, di conoscere la distribuzione della partecipazione nelle nostre regioni.
Per avere solide informazioni al riguardo, si deve aspettare il 1993, quando l’ISTAT avvia il sistema Multiscopo. All’interno del sistema Multiscopo viene realizzata un’indagine annuale su Aspetti della vita quotidiana il cui questionario comprende un’insieme di domande sulla partecipazione alle associazioni. Quest’indagine è oggi la fonte più solida per valutare il fenomeno associativo in Italia, essendo condotta con l’uso di un campione molto vasto (oltre 50.000 soggetti), costruito per assicurare rappresentatività statistica anche a livello regionale. Avendo poi una regolare cadenza annuale (manca solo il 2004), permette di seguire l’andamento del fenomeno nel tempo.
Anche l’indagine Multiscopo Aspetti della vita quotidiana presenta comunque alcuni limiti. Infatti, attraverso gli indicatori presenti nel questionario, siamo in grado di valutare alcune forme di impegno attivo all’interno delle associazioni ma non la semplice adesione. L’ISTAT misura:
a) la partecipazione a riunioni di: 1. partiti politici, 2. organizzazioni sindacali, 3. associazioni o gruppi di volontariato, 4. associazioni ecologiche, per i diritti civili e la pace, 5. associazioni culturali, ricreative o di altro tipo (solo a partire dal 1997 l’ISTAT inserisce nel questionario una domanda sulla partecipazione anche a riunioni di associazioni professionali o di categoria; per permettere la comparazione dei dati a partire dal 1993, è stato escluso questo item dall’analisi);
b) lo svolgimento di attività gratuita: 1. di volontariato, 2. non di volontariato, 3. per un partito, 4. per un sindacato.
Va notata la mancanza di un riferimento esplicito a organizzazioni religiose e sportive, che costituiscono una parte rilevante dell’universo associativo (la partecipazione a queste associazioni può essere catturata solo in parte dal riferimento ad associazioni «culturali, ricreative o di altro tipo»).
I dati ISTAT, per quanto riguarda il Paese nel suo complesso, non vedono una crescita della partecipazione attiva negli anni Novanta. Il periodo mostra una stabilità dell’impegno degli italiani nelle associazioni (è importante ricordare che ci si sta occupando di surveys e dunque di stime campionarie; a rigore ciò che si conosce sono intervalli di confidenza con un certo livello di probabilità; poiché l’esposizione in termini di intervalli di confidenza renderebbe complicata la lettura, nelle tabelle è stata riportata la stima e non gli intervalli; sono questi ultimi, però, che sono stati considerati nell’interpretazione dei dati).
Dietro questo dato complessivo stanno comunque due processi che hanno operato in direzioni opposte: il primo è la diminuzione – soprattutto nelle regioni settentrionali – della partecipazione a partiti e sindacati, il secondo è l’aumento della partecipazione ad associazioni di volontariato. È in effetti l’attività di volontariato quella che negli ultimi anni arriva a coinvolgere il maggior numero di italiani; seguono la partecipazione a riunioni di associazioni culturali, ricreative e di altro tipo, poi la partecipazione sindacale e quella a partiti politici.
L’ampiezza del campione Multiscopo permette di analizzare la distribuzione della partecipazione per regione, sintetizzata nella tabella 4. Come si può vedere, le differenze tra le regioni italiane sono rilevanti: i due valori estremi dell’ultima colonna, che riporta la media 1993-2001 dell’indice di partecipazione complessiva, sono il 41,5% del Trentino-Alto Adige, la regione italiana dove la partecipazione è più frequente, e il 16,3% della Sicilia, dove invece la partecipazione raggiunge il livello minimo. Il Trentino-Alto Adige mostra un livello di impegno nelle associazioni analogo a quello proprio delle nazioni più avanzate: quasi una persona su due svolge un’attività gratuita nelle associazioni. Nella regione siciliana, invece, partecipa solo una persona su sei.
Dopo il Trentino-Alto Adige, nella graduatoria troviamo al secondo posto il Veneto (29,8%) e al quarto il Friuli Venezia Giulia (27,9%). Dunque non è solo il Trentino-Alto Adige ma più in generale il Triveneto la zona dell’Italia dove l’impegno nelle associazioni è più vivo: più vivo rispetto al Sud, ma anche rispetto al Nord-Ovest e al Centro. Valori elevati hanno pure l’Emilia-Romagna, poi la Toscana, la Lombardia, la Sardegna e il Piemonte e la Valle d’Aosta, tutte sopra la media italiana. Nell’insieme, le regioni del Nord-Ovest mostrano buoni livelli di partecipazione (con un’eccezione, la Liguria, che è caratterizzata da una misura sotto la media nazionale; di contro, va segnalata l’elevata frequenza di partecipazione in Sardegna, unica regione non settentrionale con un risultato che supera la media italiana).
Vengono poi le altre regioni del Centro e del Sud: in ordine Umbria, Marche, Basilicata, Puglia, Molise, Abruzzo e Lazio, tutte sotto la media nazionale; infine le rimanenti meridionali e la Sicilia, come detto l’area meno dotata in assoluto.
In sintesi: ai primi posti della classifica troviamo le regioni dove marcato è stato il ruolo delle subculture che hanno disegnato il panorama politico italiano. In primo luogo le regioni a tradizione bianca e poi le due regioni – Emilia-Romagna e Toscana – più caratterizzate dalla tradizione rossa. In fondo alla classifica troviamo, assieme al Lazio, le regioni meridionali e, ultima, la Sicilia.
È la partecipazione ai partiti a produrre questo risultato? Le regioni a più forte tradizione politica sono ai vertici della scala per il maggiore impegno dei cittadini nella vita dei partiti?
Non è così. Se scindiamo l’indice generale di partecipazione nelle sue componenti e guardiamo all’impegno degli italiani nei partiti politici, troviamo in questo periodo una graduatoria molto diversa, anzi, quasi opposta: per lo più, sono infatti le regioni meridionali a rappresentare i casi al di sopra della media nazionale.
Nella prima posizione per frequenza di impegno nei partiti politici (tab. 5) è la Basilicata e al terzo posto la Calabria; ma anche tutte le altre regioni meridionali e insulari (Sicilia compresa) sono sopra la media nazionale. È vero che anche il Trentino-Alto Adige e l’Emilia-Romagna sono nella parte alta: in una posizione, però, inferiore a quella in cui sono collocate nella classifica che misura la partecipazione nel suo complesso. La Toscana e l’Umbria, poi, non sono sopra il dato nazionale; mentre sono sotto la media Veneto e Friuli Venezia Giulia, assieme a Marche, Lombardia, Lazio, Liguria, Piemonte e Valle d’Aosta.
Ad assicurare la posizione elevata dell’Emilia-Romagna e della Toscana nella graduatoria complessiva della partecipazione, non è dunque l’impegno nei partiti. Lo è invece in primo luogo quello nei sindacati: queste due regioni sono infatti al primo e al secondo posto in Italia per quanto riguarda la presenza a riunioni e/o lo svolgimento di attività gratuita per un sindacato (tab. 6). Mentre a collocare ai vertici della stessa classifica il Trentino-Alto Adige, il Veneto e il Friuli Venezia Giulia sono soprattutto il volontariato e l’associazionismo di tipo culturale (tabb. 7 e 8): in entrambi i tipi di attività queste regioni sono ai primi tre posti; la percentuale del Trentino-Alto Adige, in particolare, è circa quattro volte più elevata di quella delle regioni meridionali.
Gli anni che vanno dal 2002 al 2012 non presentano molte novità. Anche questo decennio, infatti, sia a livello nazionale sia per quanto riguarda l’insieme delle associazioni rilevate dall’ISTAT (tab. 9), mostra una complessiva stabilità dell’impegno degli italiani. I dati segnalano una prima breve fase di crescita – di dimensioni non eclatanti ma comunque significative – che però si interrompe nell’ultimo anno della serie di cui disponiamo, il 2012.
Confrontando i valori medi regionali del periodo 2002-12 con quelli del periodo 1993-2001, si può riscontrare comunque una crescita della vitalità associativa in Basilicata, Abruzzo, Trentino-Alto Adige, Piemonte e Marche. Al contrario la partecipazione è scesa in Puglia, Toscana, Emilia-Romagna e Campania; una contrazione che si accentua negli ultimi anni.
Nel decennio 2002-12 le regioni meridionali non recuperano la distanza da quelle settentrionali. Anzi, la distanza sembra accentuarsi. L’eccezione è la Basilicata, che sperimenta una crescita rilevante. Per le altre regioni del Sud, però, il divario rispetto al Nord si allarga; va notata, in particolare, la riduzione dell’impegno dei cittadini in Puglia e in Campania.
Confermando la tendenza in atto già negli anni Novanta, dietro la stabilità complessiva a livello nazionale stanno però due processi diversi: la diminuzione delle attività nei partiti e nei sindacati di contro all’aumento del volontariato.
Con una novità. Mentre nel periodo precedente di questa discesa avevano risentito più i partiti dei sindacati, in questa seconda fase sono i secondi più dei primi a vedere contratto l’impegno. Proprio queste difficoltà dei sindacati danno conto di quella discesa nella graduatoria complessiva della partecipazione (tab. 9) di regioni come l’Emilia-Romagna e la Toscana: la posizione elevata di queste aree era dovuta in primo luogo proprio all’ampiezza della militanza sindacale.
Nella tabella 4 (1993-2001) si era constatato come ai primi posti stessero le regioni dove marcato era stato il ruolo delle subculture politiche tradizionali. Confrontando quest dati con quelli relativi agli anni 2002-2012 è possibile vedere come il quadro stia, in parte, cambiando. Non cambia per quanto riguarda le aree a tradizione bianca: Trentino e Veneto rimangono le regioni più attive in assoluto; anzi, al terzo posto ora sale il Friuli Venezia Giulia. A causa della contrazione dell’impegno nei sindacati, a ridursi è invece la peculiarità delle due principali regioni a tradizione rossa, l’Emilia-Romagna e la Toscana. La Toscana, in particolare, è sorpassata da Lombardia e Piemonte con la Valle d’Aosta.
Sempre riguardo alla partecipazione sindacale, oltre al calo particolarmente consistente in Emilia-Romagna e Toscana, va segnalato anche quello – sia pure di dimensioni minori – in Veneto, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Puglia e Liguria. Tra i tipi di associazioni che qui, seguendo l’ISTAT, siamo in grado di considerare, quello dei sindacati è l’unico caso in cui si riscontra un bilancio negativo in tutte le regioni, senza eccezioni, nel confronto tra la media del periodo 2002-12 e quella del periodo precedente (tab. 11).
Per i partiti, invece, la discesa è vistosa in Emilia-Romagna (−0,9 nel confronto tra medie), poi in Lombardia, Puglia e Campania (tab. 10). La diminuzione dell’impegno civico nei partiti e nei sindacati, anche nell’ultimo decennio, è compensata dalla crescita del volontariato. Nella tabella 12 troviamo un caso rovesciato rispetto a quello disegnato dalla tabella 11: se in quest’ultimo caso in tutte le regioni il risultato è negativo, adesso per quanto riguarda il volontariato tutte le regioni registrano un risultato positivo. L’aumento è particolarmente consistente in Basilicata (+3,8) e, a seguire, nelle Marche, in Abruzzo, Lazio, Lombardia, Emilia-Romagna, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Piemonte con la Valle d’Aosta. Positivo anche il risultato di Calabria, Molise e Sicilia. Registrano invece una crescita inferiore a quella media italiana in particolare la Campania, la Puglia, la Sardegna e il Trentino-Alto Adige. Sale anche la partecipazione alle associazioni «culturali, ricreative o di altro tipo» (tab. 13). Rispetto al volontariato, tale crescita mostra però dimensioni ridotte e non riguarda tutte le regioni. Il dato risulta particolarmente negativo in Campania. Al contrario, progressi significativi si registrano soprattutto nel Lazio e in Abruzzo.
Anche qui, però, non si modifica in maniera drastica il quadro che si era composto nel periodo precedente: in particolare, rimane ampia la differenza tra le regioni virtuose – con in testa Trentino-Alto Adige, poi Friuli Venezia Giulia e Veneto – e quelle più deboli, tra le quali la Campania e la Sicilia occupano gli ultimi due posti.
Alla base del divario tra l’Italia e gli altri Paesi economicamente avanzati è dunque in primo luogo la condizione delle regioni meridionali, dove troviamo frequenze di impegno nelle associazioni marcatamente inferiori a quelle delle regioni del Nord.
A cosa è dovuta questa distanza tra le regioni del Nord e le regioni del Sud?
Una tesi diffusa – che risale a Banfield ma è stata poi ripresa da molti – addebita il ‘sottosviluppo’ meridionale a fattori culturali con radici storiche di lungo periodo. Come già ricordato, Putnam collega la povertà associativa del Sud a una mancanza di cultura civica le cui origini fa risalire al 14° sec. (per una critica della spiegazione basata sulla nozione di familismo, cfr. Sciolla 1997; per una rassegna, Huysseune 2003).
Sono fattori culturali di questo genere, modificabili con difficoltà e in tempi molto lunghi, a dar conto della distanza fra Nord e Sud? Oppure vanno presi in considerazione anche elementi di altra natura?
Per rispondere, è opportuno valutare l’insieme delle variabili che sappiamo essere all’origine della partecipazione. Nella letteratura internazionale l’ipotesi più usata per spiegare le variazioni della partecipazione associativa è quella della centralità sociale: maggiore la centralità sociale di una persona – in termini di dotazione culturale, ma anche di genere, età, occupazione, reddito, etnia e altro – più è probabile il suo impegno nelle associazioni (l’ipotesi è sostenuta da numerose ricerche empiriche; se ne veda un elenco in La Valle 2006, che riporta anche alcune eccezioni). La centralità sociale, infatti, fornisce da un lato le competenze che rendono ricca per la persona l’esperienza associativa, dall’altro le occasioni e i contatti sociali che la rendono probabile.
Anche nel nostro Paese il titolo di studio è un potente predittore dell’impegno sociale (La Valle 2004). Questa variabile non è però molto utile per spiegare le variazioni regionali della partecipazione: perché è distribuita in modo abbastanza omogeneo sul territorio nazionale. Infatti, anche se le regioni dell’Italia meridionale hanno, rispetto a quelle del Nord, sia una percentuale inferiore di laureati sia una percentuale superiore di persone che non sono andate oltre la licenza elementare, la distanza non è di grande rilievo e non incide in maniera significativa sulla differenza nei tassi di partecipazione.
Lo stesso argomento vale per il genere: gli uomini partecipano più delle donne ma, poiché la percentuale di uomini e donne presenti nelle diverse regioni è simile, questa variabile non ha grandi effetti sulla differenza che ci interessa.
Un terzo fattore da considerare è l’età, la cui relazione con la partecipazione ha un andamento a parabola: sale nelle fasi centrali della vita, quelle che coincidono con la piena attività lavorativa, per ridursi nell’ultima parte. Neppure questa variabile, tuttavia, è responsabile delle differenze tra Nord e Sud: perché la popolazione di età centrale – quella maggiormente disponibile all’impegno – è più numerosa nelle regioni meridionali. La variabile età è comunque in grado di dar conto di un risultato particolare che abbiamo già riscontrato: quello della Liguria, che ha una frequenza di partecipazione marcatamente inferiore a quella delle altre regioni dell’Italia settentrionale e dove troviamo infatti anche la percentuale più elevata di ultrasessantenni.
Ci sono però altri fattori connessi alla centralità sociale che possono essere utili: in primo luogo la condizione occupazionale. Gli occupati, infatti, partecipano molto più frequentemente dei disoccupati, dei pensionati e ancora di più delle casalinghe.
In effetti, un’analisi econometrica condotta sui dati ISTAT (La Valle 2006) ha mostrato che, se si neutralizzano gli effetti di questa variabile (assieme ad alcune altre di minor peso), nel Meridione troviamo una propensione all’impegno attivo nelle associazioni analoga a quella di regioni come la Lombardia e il Piemonte. La differenza che abbiamo riscontrato tra Sud e Nord, cioè, è principalmente dovuta al fatto che disoccupati e casalinghe – vale a dire, categorie che hanno una frequenza di partecipazione molto bassa – sono più numerosi nella prima zona che nella seconda. Se la percentuale di disoccupati e quella di casalinghe fossero uguali, scomparirebbe la differenza nel tasso di partecipazione.
L’analisi econometrica ha mostrato anche che in Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia-Romagna e Toscana la frequenza di impegno nelle associazioni resta però elevata anche quando si neutralizzi l’effetto della condizione occupazionale (oltre a quello del genere, dell’età, della scolarità, del tipo di lavoro). In queste regioni, cioè, troviamo una propensione a partecipare particolarmente alta e che non dipende dalle variabili elencate.
A cosa è dovuta questa propensione? I fattori cui guardare per una spiegazione sono molteplici. Tra essi può avere posto quella che alcuni studiosi definiscono la «tradizione civica», decisamente viva in queste regioni. Ma accanto a questa variabile dovrebbe essere considerato anche il ruolo delle amministrazioni locali. Il sostegno delle amministrazioni locali alle organizzazioni sociali è in effetti più probabile là dove, come nelle regioni a forte tradizione politica, esiste una forte prossimità tra gli amministratori e la realtà associativa locale. Dove, per es., molti amministratori provengono da esperienze compiute nei partiti, nei sindacati, nelle associazioni presenti nel territorio; e dove, una volta eletti, mantengono solidi rapporti con queste organizzazioni, nelle quali, una volta terminato l’incarico nell’ente locale, è molto probabile ritornino. Quando opera questa prossimità, è naturale che gli amministratori siano più disponibili a procurare alle associazioni forme di sostegno pubblico (una ricerca ha rilevato che nel Veneto «il ruolo diretto degli enti locali nella formazione dei bilanci delle associazioni risulta determinante per circa la metà delle associazioni studiate», L’associazionismo nel Veneto, 1994, p. 8; su questo tema anche Ramella 1994, pp. 117-18; Cerruto 2008, p. 61).
All’interno di questo gruppo di regioni, il Trentino-Alto Adige ha comunque i livelli di impegno di gran lunga più elevati. È difficile non collegare questo dato alla presenza di un gruppo etnico particolare come quello di lingua tedesca (assieme ad altre minoranze linguistiche) all’interno della regione. Una possibile spiegazione (Caciagli 1988, p. 432) fa riferimento, infatti, alla «forte matrice identitaria che permea il tessuto associativo» (Catania, in Il sottile filo della responsabilità civica, 2003, p. 301), al fatto cioè che le associazioni rappresentano ambiti di relazioni sociali utili per il sostegno di determinate specificità culturali. Se è così, è naturale che la partecipazione sia più frequente dove questa specificità è più marcata. L’ipotesi può essere particolarmente calzante per il caso di Bolzano. Potrebbe comunque essere un ulteriore fattore che spiega il risultato delle regioni della Terza Italia, storicamente caratterizzate appunto da precise subculture politiche (nella letteratura un’ipotesi di questo genere è stata proposta per spiegare gli elevati livelli di partecipazione della Sardegna; anche qui, infatti, sono presenti istanze autonomistiche centrate sull’importanza della cultura locale; cfr. Catania, in Il sottile filo della responsabilità civica, 2003).
Ma anche altri fattori contribuiscono al risultato del Trentino-Alto Adige. In particolare, l’autonomia amministrativa concessa, attraverso lo statuto speciale, alle due province. Gli enti locali che godono di autonomia amministrativa rappresentano aree dove la politica locale ha maggior peso sulla vita dei cittadini: perché controlla e distribuisce risorse (economiche e non solo) superiori a quelle delle province e regioni a statuto ordinario. La maggiore posta in gioco costituisce un incentivo per l’impegno delle persone nella vita pubblica locale.
L’ipotesi può contribuire a spiegare l’elevata partecipazione anche di altre regioni a statuto speciale: Friuli Venezia Giulia e Sardegna. Il caso della Sicilia, dato che la regione è all’ultimo posto nella graduatoria complessiva della partecipazione, contraddice questa ipotesi; va però ricordato che la Sicilia è nella parte alta della classifica proprio della partecipazione politica, collocandosi – sorprendentemente, visto il basso livello della partecipazione in generale – sopra il dato medio nazionale.
Nel panorama internazionale l’Italia ha tradizionalmente occupato una posizione arretrata nella graduatoria della partecipazione associativa. A caratterizzare la storia del nostro Paese è stata una scarsa disponibilità di legami associativi, spesso legati alla militanza in un partito politico.
Negli ultimi due decenni, se si guarda ai solidi dati raccolti dall’ISTAT, si può constatare come nel complesso non vi sia stata crescita ma una sostanziale stabilità dell’impegno attivo degli italiani nelle associazioni. Ove si considera la posizione di arretratezza da cui l’Italia partiva rispetto ad altri Paesi, questa stabilità appare un risultato negativo. Forse, però, lo è meno di quanto sembri a prima vista. Va considerato, infatti, che in questa fase il nostro Paese ha sperimentato una crisi profonda del rapporto tra cittadini e sistema politico. Gli anni Novanta sono caratterizzati dalle vicende di tangentopoli e ‘mani pulite’; sono cioè anni che segnano un forte distacco dei cittadini proprio da quei partiti che, anche attraverso reti di associazioni collaterali, avevano rappresentato il principale canale dell’impegno civico degli italiani. Il fatto che questo distacco non si sia tradotto in una perdita netta delle risorse associative è positivo. Ciò che i dati ISTAT segnalano è principalmente il travaso delle risorse civili in altre direzioni. In primo luogo, come abbiamo visto, nell’attività di volontariato.
Ci sono anche altri aspetti da valutare. Intanto il fatto che i dati ISTAT si riferiscono non alla semplice partecipazione ma all’impegno attivo dei cittadini nelle associazioni: un indicatore rispetto al quale il nostro Paese risultava un poco meno sfavorito nel confronto internazionale. In secondo luogo, va considerato che gli anni recenti hanno visto affermarsi nuovi strumenti di comunicazione e, grazie a questi, nuove forme e modalità associative. Ci si riferisce in particolare allo sviluppo dei cosiddetti social media, sviluppo che non è senza conseguenze per il campo che si è analizzato. Attraverso questi nuovi strumenti passano infatti processi che sfuggono alle statistiche tradizionali. La stabilità riscontrata nelle dimensioni più usuali dell’associazionismo potrebbe quindi nascondere una vitalità che i nostri dati non colgono.
Di certo, non è positivo il divario che separa molte aree del Nord e del Centro da quelle meridionali. C’è un abisso tra una regione come il Trentino-Alto Adige, leader in questo campo, da un lato, e la Sicilia, la Campania, la Calabria, dall’altro. Un divario che, peraltro, nel periodo 1993-2012 non si è ridotto.
A caratterizzare il Meridione in quest’ultimo periodo è comunque una frequenza di impegno nei partiti superiore a quello che troviamo altrove. In cima a questa graduatoria troviamo la Basilicata, mentre le regioni agli ultimi posti sono – in ordine – Veneto, Marche, Friuli Venezia Giulia, Piemonte con la Valle d’Aosta, Lombardia e Liguria.
L’impegno attivo nelle associazioni è frequente soprattutto nelle regioni dove marcato è stato il ruolo delle subculture che hanno disegnato il panorama politico italiano. Oggi sono le regioni a tradizione bianca – il Trentino-Alto Adige, assieme al Veneto e al Friuli Venezia Giulia – ai primi tre posti in questa classifica. Le difficoltà di partiti e sindacati hanno invece ridotto la preminenza in questo campo dell’Emilia-Romagna e della Toscana.
I fattori che spiegano queste differenze tra le regioni sono molteplici. Non possono essere trascurate, accanto a quelle di natura culturale e istituzionale, alcune variabili economiche; tra queste ultime ha non poco rilievo la condizione del mercato del lavoro.
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Si ringrazia Enzo Loner, del Dipartimento di sociologia e ricerca sociale dell’Università di Trento, per la collaborazione prestata nella stesura delle tabelle.