Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
I cambiamenti avvenuti nelle pratiche musicali del Novecento hanno provocato numerosi mutamenti anche nel modo di ascoltare la musica. Tra le principali modalità di ascolto musicale meritano un’adeguata considerazione: l’ascolto “acusmatico”, disinteressato all’atto di produzione; quello vissuto in solitudine, spesso comunque connesso a processi di ricerca di identità e appartenenza a comunità, le condotte legate alla “perdita dell’aura” descritte da Adorno e Benjamin e i diversi atteggiamenti assunti nel confronto tra la musica dal vivo e quella riprodotta.
Theodor Adorno
Musica e cultura di massa
Con la strapotenza dei meccanismi di distribuzione, di cui dispongono il Kitsch ed i beni culturali ormai liquidati, e con la predisposizione degli ascoltatori che si era determinata grazie ad un processo sociale, la musica radicale era caduta, nel tardo industrialismo, nell’isolamento completo. Ciò diventa, per gli autori che vogliono vivere, il pretesto morale-sociale per una pace fittizia: si delinea un tipo di stile musicale che, pur continuando a tendere al serio e al moderno, si assimila alla cultura di massa in virtù di una calcolata puerilità.
T. Adorno, Filosofia della musica moderna, Torino, Einaudi, 1963
L’inserimento nella vita quotidiana delle registrazioni musicali e della radio ha fatto sì che nel Novecento si sviluppi molto più che in precedenza la condotta, chiamata dall’ideatore della musica concreta Pierre Schaeffer, “ascolto acusmatico”, cioè l’udire senza trovarsi in compresenza con l’emittente. Distogliendo l’attenzione dai suoni musicali, che funzionano da sottofondo riempitivo in ambiti altrimenti silenziosi e/o come copertura dei rumori ambientali, ci si può allora concentrare su altre attività. È l’ascolto distratto, sfruttato (a partire dalla azienda statunitense Muzak) negli ambienti lavorativi e in altri spazi della vita quotidiana.
C’è comunque un ascolto “cieco” assai diverso, valorizzato soprattutto dalla poetica della musica elettroacustica chiamata “acusmatica” (ma anche da un’ampia gamma di fruitori sia di musica colta sia di popular music ignari di tale poetica), secondo la quale il potenziale estetico dei suoni musicali viene aumentato se il loro ascolto viene svincolato dalla produzione.
Nell’ascolto discografico e in quello radiofonico, oltre all’assenza della visione dell’esecutore, manca spesso anche la percezione di una collettività di altri spettatori: così, l’ascoltatore “si trova in una particolare condizione di intimità e di isolamento”, come afferma Umberto Eco in Apocalittici e integrati (1964), aspetto poi accentuato dalle cuffie e da mezzi di riproduzione funzionali all’uso individuale, come la radio a transistor, il walkman e il discman, che hanno permesso di scegliere cosa ascoltare in qualsiasi circostanza ci si trovi.
Un altro effetto della diffusione della registrazione e della radio, in un primo tempo, e poi dell’ampia presenza della musica nei principali mass-media novecenteschi (cinema, televisione, internet) è stato che repertori ed esecuzioni, in precedenza frequentati solitamente da un pubblico piuttosto ristretto, sono divenuti accessibili a una platea molto più ampia.
Ci si distingue allora non più sulla base dei tipi di musica che ci si può permettere di ascoltare, ma attraverso il modo di ascoltarla e nelle diverse manifestazioni del gusto, corrispondenti a differenze non tanto economiche quanto di “capitale culturale”, come ha notato Pierre Bourdieu ne La distinzione (1983).
La tassonomia più nota e discussa dei tipi di ascoltatori presenti in tale scenario è stata proposta da Adorno nell’Introduzione alla sociologia della musica, tratteggiando in particolare sei diverse figure: l’esperto capace di praticare un ascolto strutturale, “cui di norma non sfugge nulla e che in pari tempo sa rendersi conto in ogni istante di quello che ha ascoltato” ; il “buon ascoltatore”, che “ascolta andando oltre il singolo dettaglio, coglie, in modo spontaneo i nessi, giudica a ragion veduta e non secondo categorie di prestigio o l’arbitrio del gusto”, ma “non è del tutto conscio delle implicazioni tecniche e strutturali, e capisce la musica all’incirca come si capisce la propria lingua anche sapendo poco o niente della grammatica e della sintassi”; il “consumatore di cultura”, che ama e considera valida soprattutto la musica colta, ma pratica nei suoi confronti un ascolto “feticistico”, vivendo non un’autentica esperienza estetica, ma un godimento del valore di scambio dell’oggetto fruito, dovuto al fatto che esso viene da lui sentito come prestigioso ed élitario; l’ascoltatore “emotivo”, per il quale di fronte a qualsiasi testo l’esperienza fruitiva serve per liberare stimoli istintuali altrimenti rimossi o tenuti a bada da norme civili; l’ascoltatore “risentito”, che simpatizza solo con repertori alternativi a quelli considerati comunemente più prestigiosi, preoccupandosi soprattutto di salvaguardarne l’autenticità. Adorno ne vede esempi tra gli appassionati di “musica antica” e tra i sostenitori del jazz, ma vi sono casi analoghi tra i paladini delle musiche etniche “incontaminate” e i seguaci della popular music “indipendente”; l’ascoltatore “per passatempo”, che usa la musica come genere di comfort che lo aiuta a distrarsi.
Quest’ultimo comportamento è quello più strettamente legato a uno degli effetti provocati dall’avvento della riproducibilità della musica nel Novecento, chiamato da Walter Benjamin “perdita dell’aura”. La possibilità, fornita da diversi supporti, di ripetere più volte l’incontro con una singola esecuzione di un singolo brano fa sì, cioè, che l’ascolto di certi repertori (la “grande musica”) e di certe esecuzioni (quelle realizzate dai grandi virtuosi) non sia più vissuto come un’esperienza unica, irripetibile, sacra, dotata di un’irriducibile lontananza rispetto alla vita quotidiana, come invece spesso avveniva nell’Ottocento. Da una parte si sono potuti allora sviluppare ascolti disincantati, demistificanti, deideologizzanti, ma dall’altra, e in proporzioni assai superiori, la fruizione musicale si è quasi totalmente anestetizzata, con un notevole appiattimento di sensibilità dell’ascoltatore.
Secondo la scuola di Francoforte è a questo tipo di fruitore che maggiormente si rivolge l’industria culturale, da una parte sostenendo di essere al suo servizio, fornendogli così ciò che questi desidera, e dall’altra mettendolo in forte evidenza nei suoi messaggi pubblicitari, come modello da seguire. L’ascoltatore anestetizzato viene invitato ad assumere un atteggiamento consumistico concentrato di volta in volta sempre su nuove merci musicali “alla moda”, da abbandonare, poi, alla volta di nuovi prodotti musicali lanciati sul mercato.
Le riflessioni di Adorno sui tipi di ascolto definitisi nel corso del Novecento, pur individuando con efficacia alcuni aspetti, pongono però etnocentricamente come unico approccio adeguato, rispetto a qualsiasi tipo di evento musicale, quello del musicologo – esperto della tradizione della musica colta occidentale. Adottando la prospettiva linguistica, adombrata nella definizione di Adorno del buon ascoltatore, si tratterebbe piuttosto di distinguere, rispetto a ogni testo musicale, tra ascolti realizzati da soggetti che corrispondono sostanzialmente al “fruitore modello”, al quale ciascun testo si rivolge, e quelli realizzati da soggetti che non vi corrispondono. Sempre il filosofo tedesco tende poi a sottovalutare il fatto che i comportamenti di ascolto dipendono, oltre che dall’ideologia dell’industria culturale, da altri fattori spesso divergenti da quest’ultima, quali il desiderio di appartenere a comunità che elaborano percorsi in parte alternativi a quelli dell’industria culturale, e quello di costruire una propria identità.
La musica registrata è stata a lungo presentata come una documentazione (spesso assai lacunosa) di un’esecuzione altrimenti destinata all’oblio: la sua fruizione così concepita, che potremmo chiamare “ascolto documentativo”, ha allora richiesto una “fedeltà” sempre maggiore all’esecuzione documentata, sicché la musica riprodotta veniva giudicata sulla base della sua capacità di simulare quella “dal vivo”.
L’insorgere di questi fenomeni all’inizio del Novecento ha determinato una serie di mutamenti assai rilevanti, primo fra tutti lo sviluppo, accanto all’oralità e alla scrittura, di una terza modalità di trasmissione di competenze musicali.
Ben presto, inoltre, com’era già accaduto con la fotografia, e come parallelamente è avvenuto per il cinema, i supporti di musica riprodotta hanno cominciato a funzionare non solo come documenti, ma anche come nuovi tipi di testo autonomi. Se Pierre Schaeffer è stato indubbiamente il primo promotore di tale tendenza, già nelle incisioni tra il 1925 e il 1930 degli Hot Five e degli Hot Seven di Louis Armstrong se ne possono individuare le avvisaglie. Costoro non ripropongono esecuzioni già realizzate nello stesso periodo dal vivo, bensì materiale concepito appositamente per tali incisioni discografiche, implicando dunque un ascolto nei loro confronti non documentativo, che potremmo chiamare “testuale”. La condotta d’ascolto dei supporti musicali si è sviluppata parallelamente all’elaborazione delle tecnologie di trattamento dei suoni in essi contenuti, i quali sono risultati sempre più diversi da quelli udibili dal vivo, con un ampio numero di caratteristiche non più trascrivibili sulla base della notazione musicale tradizionale (e dunque problematiche per la musicologia fondata sullo studio delle partiture).
Lo sviluppo dei juke-box, l’inserimento della musica discografica nei programmi radiofonici e la tendenza del pubblico a frequentare maggiormente la musica riprodotta, rispetto a quella dal vivo, hanno incrementato sempre di più, nel corso del Novecento, la tendenza a far coincidere l’ascolto di un certo testo musicale con l’ascolto di una determinata sua versione registrata. Ne è derivata la pratica, soprattutto nella musica popular ma anche in quella colta, dell’ascolto “regressivo”: si desidera riascoltare sempre la stessa versione (quella registrata, che ha determinato l’imprinting) dello stesso brano, anche quando ci si trova ad assistere a un’esecuzione dal vivo.
D’altra parte, la frequentazione ripetuta di uno stesso brano, realizzabile grazie alle tecnologie riproduttive, consente di vivere nei suoi confronti intense esperienze estetiche: ad esempio, a partire dal rilevamento di sfumature sonore difficilmente individuabili se si ascolta dal vivo o se ci si limita a leggere la partitura.
Un altro dei fenomeni che ha profondamente modificato l’ascolto musicale novecentesco è stato lo sviluppo di mass-media sincretici (dapprima il cinema, poi la televisione e via via a seguire) con un’ampia presenza musicale. Ciò ha comportato una diminuzione d’importanza dell’ascolto musicale praticato assistendo a spettacoli dal vivo di arti performative (teatro musicale, balletto, pantomima, melologo), con ricadute analoghe a quelle rilevate nella relazione tra l’ascolto di musica concertistica e quella riprodotta (perdita dell’aura, tendenza al consumismo, alla regressione e all’ascolto per passatempo, marginalizzazione dell’esperienza estetica).
Tale mutamento ha inciso anche sull’ascolto musicale “non sincretico”: la forte incidenza che possedevano nei suoi confronti i più diffusi topoi del teatro musicale e del balletto è stata soppiantata nel Novecento da quella dei topoi cinematografici e televisivi.