L'ascesa della Macedonia: Filippo II
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Poco prima della metà del IV secolo, sulle poleis incapaci di regolare efficacemente le loro controversie irrompe la Macedonia, una regione posta all’estremo nord della Grecia e fino a quel momento assolutamente marginale. Tale ascesa è legata alla figura del re Filippo II, una personalità eccezionale, che solo suo figlio Alessandro, il conquistatore del mondo, riuscirà ad oscurare. Filippo, attraverso una continua attività militare e diplomatica, riesce infatti, in circa 20 anni, ad assumere il controllo dell’intero mondo greco.
Con il nome di Macedoni (makednos = “abitante dei luoghi alti, montanaro; più improbabile il riferimento all’altezza delle persone”), i Greci indicavano gli abitanti delle zone montuose del nord della Grecia e delle pianure formate dai fiumi Axios e Aliacmon. Si trattava di popolazioni che parlavano un dialetto greco nord-occidentale e che, nel corso dei secoli, avevano conosciuto, quanto meno nelle élite dominanti, un processo di acculturazione che aveva favorito una sostanziale assimilazione dei modi di vita greci.
Assenti nella saga omerica (un dato che influirà negativamente sul riconoscimento della loro grecità in età classica), i Macedoni erano guidati, a partire forse dal VII secolo a.C., da una dinastia regnante, gli Argeadi, che vantava come antenato l’eroe Eracle e una provenienza dalla città di Argo, nel Peloponneso. In virtù di tale discendenza, i re macedoni erano stati ammessi nel V secolo a.C. a partecipare ai giochi olimpici. Chi, già nell’antichità, intendeva enfatizzare la distanza tra i Macedoni e il mondo greco, sostenendo in poche parole che si trattava di barbari, sottolineava l’onnipotenza del sovrano nelle dinamiche di potere della società macedone: Demostene, per esempio, afferma che Filippo è “padrone incontrastato di tutto, della diplomazia palese e di quella segreta, insieme stratego, padrone e tesoriere”. In effetti, tutte le fonti a nostra disposizione tendono a identificare i Macedoni con il loro re: a partire dall’età classica, nella loro storia si succedono alcune figure di rilievo, a partire da Alessandro I Filelleno (“amico dei Greci”: un epiteto che non si attaglia molto a un dinasta greco...), re tra il 495 e il 454 a.C. circa, per proseguire con Perdicca II, che regna tra il 450 circa e il 413 a.C., districandosi con abilità tra Spartani e Ateniesi durante la guerra del Peloponneso, e con Archelao, re tra il 413 e il 399 a.C. Recenti indagini archeologiche, che hanno di molto migliorato il quadro desolante della nostra documentazione sul regno macedone prima di Filippo, hanno invece evidenziato una “dialettica politico-istituzionale molto più articolata fra potere centrale, organismi consultivi e realtà locali” (Manuela Mari).
Sulla società macedone le informazioni non sono molte. La si dipinge solitamente come una società di tipo feudale, a forte impronta guerriera, dove i grandi proprietari terrieri, i “compagni” (hetairoi) del re – poche centinaia ancora al tempo di Filippo – vivevano a stretto contatto con il sovrano, dedicandosi alla caccia e, ovviamente, alla guerra. Dei contadini che lavoravano la terra e si dedicavano all’allevamento del bestiame, poco si può dire: erano legati ai grandi “feudatari” in un rapporto di dipendenza. “... Mio padre Filippo vi trovò vagabondi e privi di risorse: vestiti di pelli, la maggior parte di voi pascolava poco bestiame sui monti e, per difenderlo, combattevate senza successo con gli Illiri, i Triballi e i Traci confinanti”; così si esprime Alessandro parlando alle truppe in un celebre discorso riportato Arriano (95 ca. - 180): un’arringa retorica e piena di luoghi comuni, che nondimeno può cogliere nel segno in alcuni punti.
Al momento dell’ascesa al trono di Filippo II non c’è dubbio che i Macedoni, al di là dello spregevole epiteto di “barbari” con il quale venivano apostrofati dai loro avversari, fossero visti con sufficienza dagli Ateniesi e dal resto del mondo greco.
Importanti solo per le risorse presenti nelle loro terre (legname per le navi e miniere d’argento soprattutto), utili come pedine dei complessi giochi a cui Sparta o Atene si dedicavano nell’intento di controllare una zona tradizionalmente difficile come la Grecia del nord, i re macedoni avevano fama di essere inaffidabili, di cambiare spesso schieramento e di governare in modo assai poco stabile: dalla morte di Archelao, uno dei re di maggiore personalità della storia macedone, intelligente organizzatore e mecenate, ben due lunghe crisi dinastiche avevano infatti indebolito il regno, che, alla morte di Perdicca III, nel 359 a.C., si trova probabilmente a uno dei livelli più bassi della sua storia, stretto com’è tra l’aggressiva lega delle città della penisola calcidica, guidata da Olinto, e le continue incursioni degli ethne illirici a nord.
Perdicca III aveva un figlio, Aminta, troppo piccolo per poter salire al trono. L’assemblea in armi dell’esercito, da sempre decisiva nelle successioni dinastiche, affida il potere, in qualità di reggente, al giovane fratello di Perdicca, Filippo, che ha passato alcuni anni come ostaggio a Tebe. Filippo ha solo 23 anni e la sua funzione dovrebbe esaurirsi con il raggiungimento della maggiore età di Aminta. Quest’ultimo non regnerà mai, ma Filippo lo lascerà vivere tranquillamente a corte per tutti gli anni del suo regno; sarà Alessandro a farlo uccidere.
“L’Europa non produsse mai un uomo quale Filippo, figlio di Aminta”: il celebre giudizio dello storico Teopompo coglie l’irrompere della personalità nella storia greca e appare sostanzialmente condivisibile: Filippo, fin dai primissimi atti della sua reggenza, si dimostra infatti un uomo dalla eccezionale vitalità e intelligenza, in grado di alternare le più sottili arti della diplomazia e l’impiego sui campi di battaglia di un esercito profondamente rinnovato ed efficiente.
Quella che ora dobbiamo seguire è la straordinaria vicenda di quest’uomo nei 23 anni del suo regno, che furono sufficienti a farne il padrone assoluto di tutto il mondo greco e a preparare la grande impresa che renderà immortale la figura di suo figlio Alessandro.
Tra i primi atti del regno di Filippo (tempi e modi non sono chiari) c’è sicuramente una riforma militare dell’esercito macedone che, fino ad allora, aveva mostrato l’eccellenza della cavalleria dei compagni del re, ma era assai manchevole e inefficiente nella fanteria.
Molti particolari di tale riforma non sono sicuri, né è certo che, come vuole la tradizione, per la sua realizzazione Filippo sia debitore dei suggerimenti di Epaminonda, recepiti durante il suo soggiorno come ostaggio a Tebe. Comunque Filippo va considerato il creatore della falange macedone, che, attraverso alcuni decisivi cambiamenti (l’alleggerimento dell’armamento difensivo, l’allungamento della lancia – la sarissa – fino a circa sei metri, il tutto unito a un livello elevatissimo di addestramento e di organizzazione), rese la fanteria del suo Paese praticamente imbattibile sui campi di battaglia dell’età ellenistica per circa un secolo e mezzo.
In conseguenza della riforma militare e della personalità del nuovo re, la Macedonia assume da subito un atteggiamento aggressivo: Filippo sconfigge le popolazioni illiriche del nord e nel 357 a.C. conquista con un colpo di mano Anfipoli, una delle poleis fondamentali per il controllo della Grecia settentrionale, fondata dagli Ateniesi (437 a.C.) in splendida posizione alla foce del fiume Strimone, presto perduta dai suoi fondatori e mai recuperata. Subito dopo Filippo conclude un trattato con la Lega delle città calcidiche ed è acclamato re a pieno titolo dall’assemblea dell’esercito (356 a.C.).
In poco più di due anni, Filippo ha consolidato la sua posizione personale e ha avviato profonde riforme del regno, oltre a renderne più sicuri i confini con le iniziative intraprese contro le popolazioni del nord e contro la Lega calcidica. Muove quindi verso sud, per occuparsi delle vicende di Grecia.
Il primo obiettivo è la Tessaglia, di cui Filippo assume rapidamente il controllo, sfruttandone le divisioni interne: ciò gli fornisce anche la possibilità di entrare nel consiglio anfizionico che controllava il santuario di Delfi. Proprio in quegli anni, all’interno del consiglio scoppia un conflitto tra i Focidesi, che reclamano il controllo del santuario e osano addirittura servirsi delle immense ricchezze ivi accumulate per ingaggiare mercenari, e i Tebani, che denunciano il comportamento sacrilego dei vicini. Atene e Sparta prendono le difese dei Focidesi; Filippo, come rappresentante dei Tessali, si erge a difensore del santuario e, dopo alcuni rovesci iniziali (gli unici di cui si abbia notizia), sconfigge i Focidesi in una memorabile battaglia presso i Campi di Croco (352 a.C.).
La guerra finirà solo nel 346 a.C. con la cosiddetta pace di Filocrate (un uomo politico ateniese), e segnerà la completa sconfitta dei Focidesi, costretti a rifondere a rate annuali un’enorme somma, mentre Filippo diventerà di gran lunga l’esponente più influente del consiglio anfizionico; in questo quadro, assume un valore altamente simbolico la presidenza dei giochi pitici che gli viene affidata nello stesso anno 346.
Fra il 352 e il 348 a.C., con una provvisoria sosta nelle vicende relative al santuario di Delfi, Filippo regola invece i conti con la Lega calcidica guidata da Olinto. Nell’autunno del 348 la città cade dopo un lungo assedio, viene rasa al suolo e i suoi abitanti venduti in gran parte come schiavi: è la fine, drammatica, di una grande polis, animatrice di una Lega che rappresentava una reale alternativa alla Macedonia per quanto riguarda l’assetto politico della Grecia settentrionale.
Fino al 346 a.C. non c’è stato alcuno scontro diretto tra la Macedonia e le grandi poleis della Grecia, né in realtà ce ne saranno fino al 338. Ciò non vuol dire che l’ascesa di Filippo avvenga nell’indifferenza: ma se Tebe rimane a lungo alleata del re macedone e Sparta sembra ormai emarginata e quasi esclusa dal grande giro della politica greca, noi abbiamo la fortuna di poter seguire molto da vicino l’atteggiamento dei politici ateniesi nei confronti di questa nuova realtà. Si sono infatti conservate una serie di orazioni pronunciate di fronte all’assemblea ateniese in quegli anni (ovviamente non abbiamo le trascrizioni dei discorsi, ma testi rielaborati successivamente per la pubblicazione: il che crea dei problemi, ma non ne inficia il valore come documento storico), in particolar modo da quello che la storia ha ormai ipostatizzato in eterno come il grande avversario di Filippo: Demostene.
La netta impressione che si ricava dallo studio delle Filippiche e di altre orazioni demosteniche è che il grande oratore faccia molta fatica a rendere consapevoli gli Ateniesi del pericolo costituito da Filippo. Molti, in primo luogo il suo principale avversario, Eschine, ritenevano più conveniente una politica di appeasement, altri tendevano a sottovalutarne la forza e non ritenevano opportuno impegnarsi in costose e difficili spedizioni per contrastarlo: clamoroso il caso di Olinto, per cui Demostene si spende in varie orazioni (le Olintiache) perorando l’invio di soccorsi e riuscendo a convincere l’assemblea solo quando ormai era troppo tardi.
Non è facile giudicare una realtà così complessa come la politica ateniese attraverso le nostre fonti, lacunose, ambigue, chiaramente di parte. Possiamo ormai accantonare giudizi estremi, quali quelli che identificano Demostene con il campione eroico e sfortunato della libertà greca, o, all’opposto, quelli che lo dipingono come un “avvocaticchio” corrotto e bilioso che non aveva capito nulla di come il mondo si stava evolvendo e si ostinava a difendere una realtà superata come la polis democratica.
Demostene era un politico di grande intelligenza e va a suo merito aver capito i meccanismi attraverso i quali Filippo stava ottenendo tanti successi: rapidità di azione, comprensione delle dinamiche politiche, intelligenza diplomatica, effetti “mediatici” di immagine di grande presa. Aveva sicuramente ragione nel vedere in Filippo un avversario estremamente pericoloso; aveva sicuramente torto nel vedere chiunque cercasse di venire a patti con il re macedone come un traditore, della sua città e dei Greci in generale: esistevano sicuramente posizioni accettabili e in buona fede anche tra gli avversari. Dove andasse il mondo, non lo sapeva, ma difficilmente l’avranno saputo i suoi avversari; non dobbiamo dimenticare che noi abbiamo il piccolo vantaggio di sapere come le cose sono andate a finire. Un po’ a sorpresa, molti anni dopo la sconfitta di Atene, il popolo ateniese dichiarò vincente Demostene in un processo contro il suo vecchio avversario Eschine, in una causa nata per una questione di nessuna importanza, ma che si tradusse in un giudizio complessivo sull’operato dei due uomini. Demostene ebbe oltre l’80 percento dei voti: segno che non aveva poi interpretato così male i segni del suo tempo e i desideri dei suoi concittadini.
Molti si rendevano conto che la pace di Filocrate era tutt’altro che destinata a dare una tranquillità durevole al mondo greco. Le ostilità, infatti, riprendono presto, nell’anno 341 a.C., anticipate, già negli anni precedenti, da forti tensioni. Ancora una volta è il santuario di Delfi a offrire l’occasione di un chiarimento, questa volta definitivo. I Locresi di Anfissa sono accusati di coltivare abusivamente terreni di proprietà del santuario: Atene li difende, mentre Filippo si incarica di punirli. Fra il 339 e il 338 a.C. febbrili trattative portano clamorosamente Tebe, fino ad allora schierata con la Macedonia, a schierarsi con Atene.
Il successo diplomatico, in gran parte ascrivibile a Demostene, non è sufficiente: lo scontro decisivo avviene agli inizi di settembre del 338 presso Cheronea, in Beozia, dove i Macedoni, la cui ala sinistra è guidata dall’appena diciottenne Alessandro, figlio di Filippo, riescono, sia pure non senza difficoltà, ad avere la meglio sull’esercito alleato.
Il terrore si diffonde ad Atene, c’è addirittura chi pensa di liberare gli schiavi per approntare una qualche difesa: ma Filippo non mostra alcun desiderio di vendetta. La sua azione si svolge tutta in ambito diplomatico: organizzata una pace generale, riunisce i rappresentanti di buona parte delle poleis a Corinto e fonda una lega (la cosiddetta Lega di Corinto, 337 a.C.), di cui egli stesso è hegemon; scopo dichiarato dell’alleanza è una spedizione comune di tutti i Greci contro la Persia.
Ad Atene, sorprendentemente, viene concesso di mantenere il suo assetto democratico; la città conoscerà anzi, sotto la guida di Licurgo, ottimo amministratore delle finanze della città, uno dei periodi più positivi della sua storia recente.
Dopo aver realizzato l’eccezionale risultato di unificare l’intera Grecia sotto il suo potere (non certo quello di unificarla politicamente: il concetto di nazione è estraneo al pensiero del tempo), scopo esplicito di Filippo, allora all’incirca quarantacinquenne, diventa una grande spedizione contro l’impero persiano, un tema che circolava già da tempo tra quanti perseguivano un ideale di pacificazione della Grecia. Filippo aveva concepito il progetto fin dal 341 a.C., se non prima.
Nella primavera del 336 a.C. il fidato generale Parmenione parte come avanguardia dell’esercito che avrebbe dovuto sostenere l’invasione dell’Asia. Ma nel giorno delle nozze di sua figlia Cleopatra con Alessandro il Molosso, a Ege – siamo nell’autunno dello stesso anno 336 a.C. – Filippo viene assassinato da una guardia del corpo, tale Pausania.
Se dietro l’omicidio ci sia la mano della moglie Olimpiade, madre di Alessandro, o addirittura lo stesso figlio, è uno di quei dubbi che attraversarono le fonti già nell’antichità e che non è facile dirimere oggi.