L'ascesa della Chiesa di Roma
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il consolidarsi progressivo degli apparati ecclesiastici e la capillare diffusione del cristianesimo si configurano come fenomeni di “risemantizzazione” della storia di Roma e costituiscono l’incipit di una nuova dialettica istituzionale.
Santo Mazzarino
Lo stato romano e il cristianesimo paolino
L’Impero romano
Per l’evangelio dell’akrobystia [cooptazione senza circoncisione], Roma era meglio disposta che Gerusalemme. Non è escluso che, con la sua abituale larghezza di concezioni, l’apostolo Paolo, liberato di prigionia, abbia tentato di predicare il suo evangelio anche nell’estremo occidente, nella provincia di Spagna […]; certo, nel 57-58, scrivendo alla comunità cristiana di Roma, egli aveva espresso la sua speranza che la comunità romana gli procurasse i mezzi per un viaggio in Spagna. Questa lettera che Paolo aveva scritto nel 57-58 alla comunità di Roma è il più insigne documento, che a noi sia pervenuto, per la storia dei rapporti fra cristianesimo e immpero romano; forse […] il più insigne documento della storia imperiale stessa. […]
L’Impero romano è sempre rimasto – una cosa evidente, ma che noi moderni troppo spesso si dimentica – il signorile impero della città di Roma (cioè, in un certo senso, fino a tutto il basso impero, in cui ancora il popolino di Roma è “mantenuto” gratuitamente con prestazioni provinciali); in conseguenza, la comunità cristiana di Roma assumeva una fisionomia peculiare, in quanto comunità residente nella città patrona del mondo. Verso il 48 […] questi giudeocristiani di Roma sono stati espulsi dall’imperatore Claudio: anzi, più precisamente, Claudio aveva cacciato i Iudaei (comprendendo, in questo concetto, i proseliti), in quanto ritenuti responsabili della propaganda cristiana. Dobbiamo tener presente questa circostanza, se vogliamo intendere la lettera di Paolo alla ricostituita comunità romana. Era veramente minacciosa, per la struttura politico-sociale dell’impero, questa comunità di credenti? Il civis Romanus Paolo lo escludeva nettamente.
Anche noi possiamo porci la stessa domanda. Il concetto della “restituzione a Cesare”, formulato nel famoso logion di Gesù, non implica […] nessun riconoscimento dei diritti dell’Impero sui popoli dominanti [La moneta mostrata dagli Erodiani e Farisei a Gesù recava il ritratto di Tiberio, per cui la risposta di Gesù: “Rendete a Cesare quel che è di Cesare” non sarebbe stata, per il Mazzarino, un invito alla lealtà nei confronti del potere costituito, ma il semplice riconoscimento che la moneta “apparteneva” al Cesare, in quanto emessa a suo nome e recante la sua effigie]; non è, insomma, un “sì” all’impero. Ma non è neanche un “no”. Esso è un concetto bivalente, che può anche svolgersi nel senso di un’assoluta lealtà all’impero.
Il rispetto dell’exousìa [autorità] romana è fondamentale […] nel pensiero del giudeo Filone; ed è anche fondamentale […] nel pensiero dell’apostolo cristiano Paolo.
Scrivendo la lettera ai Romani verso gli ultimi del 57 o i primi del 58, Paolo riassume in essa tutta la sua esperienza di missionario cristiano (il quale continua a considerarsi fariseo) e di civis Romanus, che ha vissuto l’epoca di Caligola e di Claudio e i primi anni di Nerone quasi nell’oscuro presentimento dell’arresto.
Dice ai cristiani di Roma: “ogni psyché (anima) sia sottoposta alle exousiai (autorità) superiori; infatti, non c’è autorità se non da Dio, e quelle che ci sono sono ordinate da Dio ([…] non est enim potestas nisi a Deo; quae autem sunt a Deo ordinatae sunt). Sicché chi si oppone all’autorità si oppone all’ordinamento del Dio; e quelli che si oppongono saranno puniti. Infatti, coloro che comandano non sono terrore per le opere buone, ma per le cattive. Vuoi non temere l’autorità? Fa’ il bene, e avrai lode da essa: essa infatti ti è ministra di Dio all’opera buona. Ché se fai il male, allora sì, abbine timore: non a caso l’autorità porta la spada, e nell’ira punisce chi fa il male. Perciò è necessario sottomettersi all’autorità: non solo per l’ira […], ma anche per la coscienza. Anche per questo infatti pagate i tributi: persino quando fanno questo (le autorità) sono al servizio di Dio. Rendete a tutti cò che dovete: a chi dovete il tributo, date il tributo; a chi dovete le tasse […] date le tasse; a chi il timoroso rispetto […], date timoroso rispetto; a chi l’onore, date l’onore”. Scrivendo dunque alla comunità cristiana di Roma – l’unica comunità cristiana che era stata oggetto, sotto Claudio, di una persecuzione ufficiale da parte dell’imperatore – Paolo insiste sulla necessità che i Cristiani siano soggetti alle autorità romane; e formula il concetto, fondamentale nella storia del’impero, che omnis potestas a Deo.
Degli studiosi moderni, nessuno meglio di Martin Dibelius ha posto il grande problema del rapporto tra il cristianesimo paolino e lo stato romano (cioè, in fondo, il problema di questa Lettera ai Romani): “perché questi Cristiani, che pure hanno avuto esperienze come la prigionia di Paolo a Filippi […] non divengono antiromani?”. E Dibelius stesso ha risolto, sul piano dell’esegesi teologica, questo problema: nel pensiero paolino, il cristiano non può imporre a Dio una cessazione degli organi statali, giacché una tale cessazione può esser decisa solo ed esclusivamente da Dio stesso. Ma sul piano storico-giuridico si può aggiungere, a questa soluzione di Dibelius, un’altra più concreta: lo stato romano è, per il civis Romanus Paolo, la via di conservazione delle forme giuridiche, nelle quali consistono le buone opere […]; e Paolo sente il bisogno di rilevare questo punto in una lettera a quella comunità romana, che […] era entrata in conflitto con le autorità romane sotto Claudio. Egli voleva evitare che la predicazione cristiana desse luogo a quei tumulti […] che avevano indotto Claudio ad espellere da Roma la nascente comunità giudeocristiana, e con essa (anzi, per essa), i Giudei.
[…]
Le speranze di Paolo andarono deluse. […] È molto probabile che Nerone lo abbia assolto nel 61 e che l’apostolo abbia addirittura compiuto quel viaggio missionario in Ispagna, che nel 57-58 aveva già concepito, con l’aiuto finanziario della comunità cristiana di Roma; ma di lì a poco, nel 64, tornarono per questa comunità i giorni tristi. Nerone non ripeté il provvedimento di Claudio: ormai era impossibile coinvolgere tutti i Giudei di Roma nella persecuzione alla loro airesis [sétta] cristiana. Ormai era anche chiaro che i Giudei sconfessavano definitivamente, e aspramente contrastavano, questa nuova airesis giudaica: il processo di Paolo ne era la prova più clamorosa e più recente.
Nel 64 scoppiò a Roma un incendio, cosa non infrequentissima nella storia della città; Nerone riversò la colpa sulla comunità cristiana della città; i componenti di essa vennero sottoposti ad atroci supplizii. La tradizione cristiana, della quale non v’è ragione di dubitare (essa rimonta alla prima Lettera di Clemente, scritta, come sembra, negli ultimi tempi di Domiziano; dunque, a un trentennio di distanza dalla persecuzione) pone tra i martiri gli apostoli Pietro e Paolo. Già con Claudio e Nerone comincia, dunque, il conflitto tra cristianesimo e impero romano: con due persecuzioni di cui la prima (che coinvolgeva i Giudei di Roma) fu incruenta, mentre fu atroce la seconda. Nell’un caso e nell’altro, si tratta di persecuzione contro la comunità cristiana di Roma. Nell’un caso e nell’altro, nonostante l’oscurità della tradizione, possiamo formulare l’ipotesi che gli imperatori si sentissero minacciati dall’attesa cristiana del Regno di Dio, attesa che diventava spasmodica e insofferente in certi casi (come quello della comunità di Tessalonica, a cui si rivolgeva, preoccupato, l’apostolo Paolo nella II Lettera ai Tessalonicesi […]); Nerone, per esempio, avrà connesso l’attesa cristiana del Regno con quella funzione di “Anticristo”, che alcuni astrologi […] consideravano destinata a lui quando avesse perduto il trono. Claudio e Nerone non volevano cattivi profeti. Ma soprattutto: essi intuivano – più chiaramente, l’intellettuale Claudio, più confusamente il torbido Nerone – che la predicazione cristiana distruggeva la sostanza della città antica, cioè della città pagana. Essi non erano che i protagonisti di un dramma grande, infinitamente più grande di loro. Una silenziosa rivoluzione sociale […] rientrava anche nel grande dramma della loro epoca.
S. Mazzarino, L’Impero romano, Bari - Roma, Laterza, 1956
Giorgio Jossa
Il Cristianesimo come superstizione
Il Cristianesimo antico. Dalle origini al Concilio di Nicea
[…] Governatore del Ponto e della Bitinia, Plinio scrive a Traiano nel 112 per chiedergli come deve comportarsi di fronte al numero crescente di denunzie che gli vengono presentate nei confronti dei cristiani. Non avendo mai preso parte a un processo contro di loro, egli non sa per quale reato e con quale pena debbano essere puniti. È convinto che la diffusione del cristianesimo sia ormai imponente e che il governo debba intervenire con energia. Ma si dice sicuro che con un’accorta politica il contagio possa essere fermato (Ep. X, 96). Esponendo le vicende dell’impero di Nerone, Tacito ricorda invece l’oscuro episodio dell’incendio di Roma del 64. E racconta che, essendosi diffusa nell’opinione pubblica la convinzione che ad appiccare l’incendio fosse stato lo stesso imperatore, Nerone gettò la colpa sui cristiani, ben sapendo che era gente assai malvista dal popolo.
Sicché, pur trattandosi di persone certamente colpevoli e meritevoli di una punizione esemplare, i Romani finirono per provarne compassione, capendo che erano vittime soltanto della crudeltà di Nerone (Annales, XV, 44). Il riferimento di Svetonio [ai cristiani] è invece molto più scarno. L’unico accenno esplicito che egli fa ai cristiani ricorre infatti nella Vita di Nerone. Qui egli enumera i provvedimenti (positivi) presi dall’imperatore e ricorda semplicemente che durante il suo governo furono inviati al supplizio i cristiani (Nero, XVI, 3). Ma quali sono i giudizi di Plinio, Tacito e Svetonio? Tutt’e tre gli autori definiscono anzitutto il cristianesimo superstitio. Riferendo all’imperatore Traiano delle indagini da lui svolte sul conto dei cristiani, scrive infatti Plinio nella sua Lettera: “nihil aliud inveni quam superstitionem pravam, immodicam: Non ho trovato altro che un fanatismo depravato e smodato” (Ep. X, 96,8).
Spiegando l’occasione della persecuzione di Nerone contro i cristiani e ricordando le origini (giudaiche) della nuova religione, afferma Tacito negli Annali: “repressaque in praesens exitiabilis superstitio rursum erumpebat: Nonostante fosse stata repressa immantinente la odiosa superstizione, di nuovo tuttavia riemergeva” (Ann. XV, 44,3). E riferendosi quasi certamente allo stesso episodio, dice ancora Svetonio nella vita di Nerone: “afflicti suppliciis Christiani, genus hominum superstitionis novae ac maleficae: vennero sottoposti a supplizio i Cristiani, genia d’uomini professante una forma di religione nuova e depravata”. (Nero, XVI, 3).
La definizione è già di per sé interessante. In quest’epoca, infatti, superstitio non è più nel linguaggio dei Romani equivalente a religio, ma costituisce invece il suo contrario. Poiché la religione è per i Romani parte integrante del patrimonio nazionale, del mos maiorum, essi considerano superstitiones tutte le forme religiose e tutte le pratiche culturali che non corrispondano a quelle trasmesse dagli antenati e non siano fornite di pubblico riconoscimento. Anzittutto, dunque, tutte le pratiche religiose a carattere privato, individuale, e poi tutte le religioni, tutti i culti stranieri, fin quando almeno non siano stati riconosciuti dalla pubblica autorità. Come diceva la prescrizione attribuita a Numa e ricordata da Cicerone (De legibus II, 8,19): “Separatim nemo habessit deos neve novos sive advenas, nisi publice adscitos: Nessuno abbia dèi particolari, né nuovi né stranieri se non pubblicamente riconosciuti”).
E poiché carattere fondamentale della religio sono la sua ragionevolezza e la sua moderazione, i Romani considerano anche superstitiones tutte le forme esagerate, fanatiche, di religiosità, che indulgono a pratiche aberranti di culto. […] Plinio […] deve riconoscere di non aver trovato nella sua indagine sui Cristiani nessun elemento particolarmente criminoso. Per quello che ne ha saputo, i Cristiani sono un gruppo religioso unito da forti vincoli di solidarietà, che si impegna a una vita particolarmente virtuosa e che un giorno alla settimana si riunisce per venerare Cristo come dio. Eppure egli definisce prava la nuova religione e mostra di ritenerla assolutamente inconciliabile con la tradizione romana. I Cristiani rivelano in particolare ai suoi occhi una mancanza di ragionevolezza e di moderazione, una forma di ostinazione, di fanatismo, che appare con tutta chiarezza nel loro comportamento dinanzi ai magistrati, quando si rifiutano di accettare ogni invito a un qualsiasi ripensamento, e che giustifica comunque la loro condanna.
[…]
Né Traiano né Adriano hanno voluto […] fissare una norma generale o definire un crimen particolare. Ma entrambi hanno voluto fornire ai governatori provinciali indicazioni più precise sulla procedura da segure nei processi contro i Cristiani. Qual è dunque il senso e la portata dei [loro] due rescritti? […] Rispondendo […] a Plinio […] Traiano scrive:
“Conquirendi non sunt: si deferantur et arguantur, puniendi sunt, ita tamen ut qui negaverit se christianum esse, idque re ipsa manifestum fecerit, id est supplicando diis nostris, quamvis suspectus in praeteritum, veniam et paenitentia impetret: Non devono essere perseguitati: nel caso in cui siano denunciati e accusati, devono essere puniti; però, nel caso in cui uno neghi di essere cristiano e lo dimostri fattivamente, cioè adorando i nostri dèi, per quanto sospettato in passato, ottengano pure il perdono e il condono della pena”.
E nel 124, sollecitato dall’assemblea delle città dell’Asia che probabilmente richiedeva un irrigidimento della legislazione contro i Cristiani, Adriano risponde a Minucio Fundano:
“[…] Se dunque qualcuno li accusa e dimostra che essi fanno qualcosa contro le leggi, decidi secondo la gravità della colpa. Ma, per Ercole, se qualcuno presenta questa denuncia a scopo di calunnia, esprimiti su questa condotta vergognosa e preoccupati di punirla”.
[…]
I due rescritti non mostrano alcuna particolare durezza nei confronti del cristianesimo. Anzi, ispirati come chiaramente sono dalla preoccupazione di mantenere l’ostilità popolare verso la nuova religione nell’ambito stretto della legalità e di fissare quindi regole precise ai processi contro i cristiani, essi, per quanto possano apparire contraddittori sul piano giuridico, finiscono col mettere al riparo i cristiani da forma più gravi di persecuzione. I cristiani, afferma infatti Traiano, […] non devono essere ricercati […] e, qualora vengano denunciati, devono essere condannati solo se la denuncia è firmata ed essi persistano nel loro atteggiamento. Di più, aggiunge Adriano nella sua risposta alla petizione delle città dell’Asia, l’accusatore deve stare in giudizio di persona e, se la sua accusa si rivela infondata, deve essere egli stesso condannato. Tutto questo non poteva non scoraggiare le accuse contro i cristiani e alimentare in essi la speranza che l’impero stesse realmente muovendosi nella direzione di un progressivo riconoscimento della nuova religione.
G. Jossa, Il Cristianesimo antico. Dalle origini al Concilio di Nicea, Roma, Carocci, 2002
Celso
Aspra critica al cristianesimo
Il discorso vero
I cristiani stringono fra loro in segreto dei patti che violano le istituzioni tradizionali. I patti possono essere palesi quando si fanno in conformità alle leggi, oppure occulti, quando vengono stipulati contro le istituzioni tradizionali. La cosiddetta agape dei cristiani nasce dal pericolo comune, e vale assai più dei giuramenti. I patti fra cristiani contravvengono alla legge comune.
(Libro I, frammento 1)
La dottrina è, alla sua origine, barbara. I barbari sono capaci di scoprire dottrine; i Greci sono superiori nel vagliare, nel consolidare e nel praticare in vista della virtù le dottrine scoperte dai Barbari.
(Libro I, frammento 2)
La loro morale è banale, e in confronto a quella degli altri filosofi non insegna alcunché di straordinario o di nuovo.
(Libro I, frammento 4)
Una dottrina va accettata seguendo la ragione e una guida razionale, perché resta in ogni caso ingannato chi dà il proprio assenso a qualcuno in modo diverso. Il suo caso è simile a quello di coloro che nutrono una fede irrazionale nei sacerdoti questuanti di Cibele o negli indovini, nei seguaci di Mithra e di Sabazio, o nella prima cosa che càpita, si tratti di un’apparizione di Ecate o di un’altra o di altre figure demoniche. Infatti spesso in casi del genere taluni imbroglioni, puntando sullo scarso discernimento di chi si lascia ingannare con facilità, lo menano per il naso a loro piacimento; e lo stesso avviene nel caso dei Cristiani. Taluni, non volendo dare o ricevere conto dell’oggetto della loro fede, ricorrono a frasi come: “Non indagare, ma abbi fede”, oppure: “la tua fede ti salverà”, o ancora: “la sapienza in questa vita è un male, la follia è un bene”.
(Libro I, frammento 9)
Se davvero vorranno rispondermi non come a persona in cerca di documentazione, perché io so tutto, ma come a persona che si interessa di tutto del pari, va bene. Ma se rifiuteranno, e ripeteranno il loro solito ritornello: “non indagare”, con quel che segue, sarà necessario insegnare loro che razza di cose vanno dicendo, e da che fonti le hanno tratte.
(Libro I, frammento 12)
Alcuni Cristiani più accorti aggiungono: “Non osi accostarsi nessuna persona colta, o sapiente, o accorta, perché tutto questo noi lo consideriamo un male; ma se uno è ignorante, se è stolto, se è incolto, se è puerile, venga avanti arditamente”. Ma se ammettono spontaneamente che queste persone sono degne del loro Dio, è chiaro che vogliono e possono convincere solo chi è sciocco, volgare e sprovveduto, come pure gli schiavi, le donne e i bambini.
(Libro III, frammento 44)
Celso, Il discorso vero, a cura di G. Lanata, Milano, Adelphi, 1987
Giovanni Filoramo e Daniele Menozzi
Le nuove virtù dell’imperatore cristiano, il modello di Teodosio
Storia del Cristianesimo
Teodosio chiudeva un’epoca, o così sentì la cultura cristiana, che ne fece l’instauratore di un’età nuova, il modello dell’imperatore ideale, che governa non più al di fuori e al di sopra della Chiesa, ma come parte di essa e con essa esecutore dei disegni provvidenziali. […] “Vince colui che spera nella grazia divina, non colui che presume del proprio valore”: così dichiarava Ambrogio nell’orazione funebre pronunciata davanti al popolo, all’esercito, alla corte quaranta giorni dopo la morte dell’imperatore (De obitu Theodosii, 25).
[…] Si perfezionava, e si esauriva così, la lunga riflessione dei cristiani sull’optimus princeps. Non più l’ideale lattanziano del sovrano che legittima e protegge la religione del vero Dio, né l’idea di Eusebio, per il quale Costantino è christianus imperator perché possiede la théion sophía […].
All’imperatore non si attribuisce più una “anima regale” che ne faccia l’imitatore del grande re, del basiléus divino e lo guidi nel reggere l’impero come mimesis del cielo. Sono la pietas, l’humilitas e la fides le virtù del principe, detentore di un potere che è servitium, sostegno della chiesa e dei suoi pastori.
Fu soprattutto Ambrogio ad avviare il processo di idealizzazione che avrebbe consegnato ai secoli futuri la nuova immagine dell’imperatore cristiano. Ma proprio questa “teologia del potere” poteva generare contrapposizioni e scontri con l’imperatore.
Ambrogio si impose a Graziano e a Valentiniano II nella questione dell’Ara della Vittoria; a Valentiniano si oppose nella vicenda delle basiliche ariane di Milano. In Ambrogio Teodosio trovò un grande interprete e sostenitore della sua azione religiosa, ma trovò anche un oppositore al quale era difficile imporre, come gli riuscì sempre con l’episcopato orientale, l’obbedienza e il silenzio. Il vescovo di Milano rivendicò sempre l’autonomia della Chiesa di fronte allo Stato e in più di un’occasione pretese e ottenne che l’imperatore riconoscesse le ragioni della religione e della Chiesa superiori a quelle dello stato.
Se nella sua concezione della dignità episcopale e dell’autonoma funzione ecclesiastica c’era l’orgogliosa consapevolezza del nuovo ruolo cristiano, nella fierezza e intransigenza della sua azione e del suo contegno c’era l’eredità dell’antica libertas senatoria e di una prestigiosa tradizione familiare.
Né un Atanasio o un Agostino, né altri vescovi pur di grande autorità avrebbero osato – e in effetti non osarono – quello che fece il senatorio Ambrogio, figlio di un prefetto di Costantino II e membro della potente famiglia degli Anicii.
[…] Nell’estate 390 la plebe, inferocita per l’arresto di un auriga amatissimo, era insorta contro il comandante militare, il barbaro Buterico, e lo aveva ucciso. Teodosio aveva ordinato una repressione spietata e fatto massacrare nel circo migliaia di cittadini inermi. Ambrogio insorse a condannare l’inumano massacro e scomunicò l’imperatore. Abbandonò Milano e annunziò che non vi avrebbe fatto ritorno fino a che l’imperatore non avesse fatto pubblica penitenza. Anche questa volta Teodosio cedette e, sconfessando il proprio operato, fece pubblico atto di riparazione. Aveva inizio una storia nuova, un nuovo concetto politico. Nell’elogio funebre di Teodosio Ambrogio ricorderà, senza trionfalismi, ma anche senza attenuazioni o velature, l’episodio del sovrano piegato alla disciplina della Chiesa […] e indicherà così nella sottomissione dell’imperatore al suo vescovo il fondamento della nuova teologia del principe cristiano.
G. Filoramo e D. Menozzi, Storia del Cristianesimo, Roma-Bari, Laterza, 1997
Simmaco
Nel rispetto delle tradizioni, l’apologia
Relatio III
Si aggiungano i vantaggi, che sono per l’uomo la maggior prova dell’esistenza degli dèi. Giacché ogni argomento razionale è inaccessibile, da dove deriva una conoscenza della divinità più sicura che dal documentato ricordo dei suoi favori? Se poi una lunga durata può dare autorevolezza alle religioni, dovremo rimanere fedeli a una tradizione secolare e seguire i nostri antenati, che seguirono con successo i loro.
Immaginiamo ora che Roma in persona vi rivolga questo discorso: “Ottimi principi, padri della patria, abbiate rispetto per la mia età, raggiunta grazie alla mia osservanza della religione! Che io possa celebrare le cerimonie avite – e non ho da pentirmene –, che io possa vivere a mio modo, perché sono libera. Fu questo culto [scil. il culto pagano] a sottomettere il mondo alle mie leggi, questi riti a respingere Annibale dalle mie mura, i Sènoni dal Campidoglio. A questo dunque ero riservata, a sentirmi rimproverare da vecchia?
Vedrò poi quale sia la natura delle istituzioni che si ritiene di dovere introdurre; tardivo tuttavia e offensivo è correggere la vecchiezza. Pertanto chiediamo pace per gli dèi patrii, per gli dèi Indigeti. È giusto, tutto ciò che tutti adorano, reputarlo una cosa sola. Contempliamo le stesse stelle, abbiamo il cielo in comune, siamo parte di uno stesso universo: che importa con quale ideologia ciascuno cerchi il vero? Non si può giungere per una sola via ad un mistero così grande” (Uno itinere non potest perveniri ad tam grande secretum).
Ambrogio e Simmaco
Il definitivo bando dei culti pagani
La maschera della tolleranza
Nel 384, alle soglie del decennio fatale per le sorti del paganesimo, Simmaco e Ambrogio, i massimi auctores delle rispettive culture, quella pagana e quella cristiana, si misurano in una controversia che ha per oggetto la presenza dell’altare della Vittoria nella curia romana. Siamo ormai in quella che potremmo definire la terza fase del rapporto fra cristianesimo e paganesimo. Dopo la fase iniziale – quella del non licet esse Christianos, che va da Tiberio agli editti di Diocleziano e Galerio del 303-304 e che è caratterizzata dalla persecuzione dei Cristiani, giudicati “nemici dello Stato” […] e dopo la fase segnata tradizionalmente dal cosiddetto Editto di Milano di Costantino e Licinio del 13 febbraio 313 – che vede il riconoscimento della libertà religiosa per tutti i cittadini dell’Impero e della parità tra religione cristiana e religione pagana, […] – in questa terza fase, inaugurata da Teodosio con l’Editto di Tessalonica del 27 febbraio 380 […] i rapporti si sono invertiti: il cristianesimo, ormai religio licita, da minoritario e perdente è diventato maggioritario e vincitore. L’epilogo di tale evoluzione, o meglio capovolgimento, si avrà con l’emanazione del pù persecutorio degli editti, quello di Costantinopoli dell’8 novembre 392, con il quale Teodosio, Arcadio e Onorio estendevano a tutto l’Impero, e quindi anche all’Occidente, l’interdizione del culto pagano in tutte le sue forme, bollando come “colpevole contro la religione” (reus violatae religionis) e “colpevole contro lo Stato” (reus maiestatis) chiunque avesse praticato i culti pagani tradizionali e avesse infranto le leggi di natura tentando le vie dell’ignoto. “Uno dei fenomemi più notevoli del secolo IV – annota Herbert Bloch – è la rapidità con cui la Chiesa […] passò dalla difesa all’attacco”.
[…]
Siamo ormai a una fase decisiva dei primi secoli dell’èra cristiana, quando una religione, vecchia e morente, subisce l’inesorabile sorpasso di una religione giovane e aggressiva. Nessuna attualizzazione ingenua o isomorfismo anacronistico, ma una domanda ineludibile: una religione tramonta per propria consunzione o per l’avvento di una forma religiosa nuova? Una risposta paradigmatica ci viene dalla sfida fra Simmaco e Ambrogio: perché quella disputa ci consegna uno dei momenti non solo storicamente più drammatici ma anche ideologicamente più rappresentativi del confronto tra paganesimo e cristianesimo investendo una pluralità di piani: da quello teologico e filosofico a quello giuridico e retorico, sino a quello personale.
[…]
Quello tra Simmaco e Ambrogio era destinato a rimanere un “dialogo fra sordi”, non solo per le modalità comunicative […] ma soprattutto per il merito della disputa. Si può ben dire che al “verosimile di Simmaco si sostituisce il vero di Ambrogio, alla doxa il dogma”. (cit. da F. Parodi Scotti, Simmaco e Ambrogio: dalla doxa al dogma, in A. Pennacini (a cura di), Retorica della comunicazione nelle letterature classiche, Bologna 1990, p. 92).
Ambrogio, Simmaco, La maschera della tolleranza: Ambrogio, epistole 17 e 18. Simmaco: Terza Relazione, a cura di I. Dionigi e A. Traina, Milano, BUR, 2006
Ambrogio
Nel rispetto delle tradizioni, l’apologetica
Epistula XVIII di Ambrogio a Valentiniano II
Giacché l’illustre prefetto del pretorio Simmaco ha presentato alla tua clemenza una relazione perché l’altare [della Vittoria] che era stato rimosso dalla curia della città di Roma, fosse rimesso al suo posto, e tu, imperatore, benché nel tirocinio della minore età e nell’inesperienza della gioventù, ma veterano nella virtù della fede, disapprovavi la supplica dei pagani, nello stesso momento in cui l’ho appreso ti ho presentato un memoriale […].
[…]
Non ho dubbi sulla tua fede, ma per previdente cautela e sicuro di un tuo scrupoloso esame, con questo scritto rispondo alle affermazioni della relazione, chiedendo solo che tu faccia attenzione non all’eleganza della forma, ma alla sostanza degli argomenti.
Tre punti ha proposto l’illustre prefetto della città […]: che Roma richieda quelli che lui chiama i suoi vecchi culti; che si debbano assegnare retribuzioni ai suoi sacerdoti e alle vergini vestali; e che al rifiuto di tali retribuzioni sia seguita una carestia.
Nella prima argomentazione Roma con voce di pianto reclama quelli che lui chiama i suoi vecchi culti e le loro cerimonie. Furono questi riti, afferma, a respingere Annibale dalle mura, i Sènoni dal Campidoglio. E così mentre si esalta la potenza dei riti se ne rivela l’inefficacia. Annibale a lungo si fece gioco dei culti romani e benché lo combattessero gli dèi di Roma poté a forza di vittorie giungere fino alle mura dell’Urbe. Perché dovettero subire l’assedio quelli per i quali combattevano le armi dei loro dèi?
[…]
Ma che bisogno ho di negare che i riti sacri combattessero per i Romani? Ma anche Annibale adorava i medesimi dèi. Quale delle due alternative vogliono? Scelgano. Se i riti sacri diedero la vittoria ai Romani, diedero la sconfitta ai Cartaginesi; se concessero il trionfo sui Cartaginesi, non si può dire che giovassero neppure ai Romani.
[…]
Perché mi citate esempi così antichi? [Ambrogio adotta la stessa strategia retorica simmachiana della prosopopèa di Roma] […] Che dire di imperatori durati due mesi, e di re i cui inizi coincisero con la loro fine? O per caso è una novità che i barbari hanno varcato i loro confini? E ancora erano forse cristiani quegli imperatori, di cui uno fu fatto prigionero – cosa miserevole e inaudita – e sotto l’altro lo fu il mondo, rivelando così l’inganno delle loro cerimonie, che promettevano la vittoria?
Anche allora non c’era l’altare della Vittoria? Ho rimorso del mio peccato. La mia canizie di vecchio è arrossita per il sangue vergognosamente versato. Non arrossisco a questa età nel convertirmi con tutto il mondo. È proprio vero che non è mai troppo tardi per imparare. Arrossisca quella vecchiaia che non sa correggersi. Non la longevità degli anni va apprezzata, ma quella dei costumi. Non c’è nessuna vergogna a migliorarsi. Questo solo avevo in comune coi barbari, che prima d’ora non conoscevo Dio. Il vostro sacrificio è un rituale cospargervi di sangue. Perché cercate la voce di Dio negli animali morti? Venite, e imparate ad essere in terra soldati del cielo: viviamo qui e militiamo lassù. Il mistero del cielo me lo insegni Dio stesso, che vi ha creato, non l’uomo, che è ignoto a se stesso. A chi devo credere su Dio, se non a Dio? Come posso credere a voi, che confessate di non conoscere ciò che adorate?
Ambrogio, Epistula XVIII di Ambrogio a Valentiniano II
La querelle sorta di recente attorno alle “radici cristiane” d’Europa è il contrassegno dell’esistenza, interessatamente rimarcata, di un ineludibile retaggio politico-culturale, che rimanda alla mitografia di Roma, sinonimo e garanzia di universalità del potere e dell’impianto ideologico ad esso sotteso. Il papato infatti, a partire dal IV secolo in poi, proietta Roma verso un nuovo ecumenismo, prodromo di eterogenei e numerosi recuperi funzionali del mito dell’Urbs.
È Costantino (306-337), il più “grande rivoluzionario” della storia antica, (vedi Ammiano, Res Gestae Libri XXXI, 21,10,8: Novator turbatorque priscarum legum et moris antiquitus recepti), a trasformare l’impero in impero cristiano. Nel 313, il vincitore di Massenzio (306-312) si accorda con Licinio (308-325) per uniformare il trattamento riservato ai sudditi delle diverse zone dell’impero tetrarchico, assicurando libertà di culto (cosiddetto “editto di Milano”); in séguito, esonera i clerici dai munera publica, cioè dall’obbligo di svolgere le funzioni decurionali. La missione religiosa è considerata dunque più proficua, per lo “Stato”, di un’attività amministrativa o “produttiva”. Non solo. Già nel 313, in un’epistola al proconsole d’Africa, Costantino distingue l’ecclesia catholica, cioè ufficialmente riconosciuta, dagli haeretici e schismatici, esclusi dai benefíci. Si pongono quindi le premesse per la definitio orthodoxae fidei, per la stabilizzazione dogmatica e la formulazione di canoni disciplinari. Imperatore unico dal 324, Costantino conferma la giurisdizione civile dei vescovi (episcopalis audientia) – concorrente rispetto alla farraginosa giurisdizione ordinaria – e accresce il patrimonio ecclesiastico, consentendo ai clerici di ricevere bona testamentari.
L’avvento dell’impero cristiano determina la nascita di una storiografia ecclesiastica che ripercorre le tappe dell’affermazione della Chiesa.
Uno dei suoi primi esponenti è Eusebio di Cesarea, che teorizza l’investitura divina del monarca, analogon terreno della monarchia celeste, ed interpreta provvidenzialisticamente la storia umana, culminante nel trionfo della Chiesa. Nel 325 Costantino, epískopos ton ektòs, cioè sovrintendente alle necessitates dei laici (una posizione equidistante tanto dal cesaropapismo quanto dall’uso della religione come instrumentum regni), presiede, a Nicea, il primo concilio ecumenico, in cui viene proscritta l’eresia di Ario, che, negando anima umana al Cristo, faceva del Figlio-Logos una creatura del Padre, ad esso subordinata. Esiti del sinodo sono la formulazione canonica del dogma trinitario (il Figlio è proclamato homooúsios to patrí, consustanziale al Padre) e l’assegnazione ai metropoliti di Roma, Alessandria e Antiochia della giurisdizione sugli ecclesiastici d’Occidente, Egitto e Oriente. Altro portato rilevante dell’èra costantiniana è la fondazione, nel 330, della Nuova Roma, Bisanzio. I “costantínidi” si spartiscono l’eredità paterna, nel 337. Dopo convulse vicende prevale Costanzo, di tendenze ariane, che accresce il prestigio della Nuova Roma e costringe il vescovo ultraortodosso Atanasio di Alessandria all’esilio.
Un velleitario e suggestivo sussulto di rivalsa pagana si registra con Giuliano l’Apostata, che coltiva l’utopia della creazione, su basi neoplatoniche e misteriche, di una Chiesa pagana che riproducesse le articolazioni interne degli enti cristiani per l’assistenza caritativa. I suoi successori non riescono a contenere i barbari entro i confini loro assegnati da una consolidata prassi diplomatica (foedera).
I Goti, convertiti all’arianesimo da Wulfila, infliggono una drammatica sconfitta ai Romani. Valente (364-378) muore sul campo, ad Adrianopoli (378) e san Girolamo piange sulle rovine dell’impero (Ep. 60,16,1: Romanus orbis ruit).
Il visibile declino del potere militare e politico di Roma e dell’Occidente è controbilanciato dall’energica azione di vescovi del calibro di Ambrogio, strenuo difensore della ortodossia contro le pretese ariane, giudaiche e pagane, polemista ed esegeta raffinato ma, soprattutto, assertore infaticabile dell’autonomia della Chiesa, del diritto del vescovo alla parrhesía e della necessaria sottomissione dell’imperatore ai dettami ecclesiastici. Ambrogio condiziona pesantemente la politica di Teodosio I usando persino l’arma della scomunica (390) per un eccidio compiuto dall’imperatore, cui viene imposta una pubblica penitenza.
Teodosio promulga, nel 380, quell’editto di Tessalonica che fa dell’impero uno stato confessionale, vietando il culto pagano. L’editto sarà poi accolto (438) nel Codex Theodosianus (vedi CTh., 16,1,2) del suo omonimo successore (Teodosio II), come constitutio d’apertura di quel libro del codice in cui vengono raccolte, appunto, le leggi relative ai rapporti imperium-ecclesia, segno dell’ormai pacifico riconoscimento di una compagine ecclesiastica ecumenica. L’eresia è condannata come “crimine pubblico”. Se infatti lo Stato deve la sua stabilità più alle pratiche religiose che ai munera, è chiaro che l’eretico costituisce una minaccia per l’utilitas publica. Si profila quell’osmosi fra fattori politici e religiosi che connoterà precipuamente età tardoantica e Medioevo.
Le sottigliezze dottrinali che oppongono Occidente a Oriente tra IV e V secolo adombrano posizioni ideologiche antitetiche ed evidenti aspirazioni al primato. Paradigmatico il caso del concilio di Calcedonia (451), convocato da Marciano, in cui viene condannata la dottrina nestoriana delle due distinte e asimmetriche nature di Cristo secondo le intenzioni di papa Leone I, lo stesso che, secondo la tradizione, avrebbe fermato Attila alle porte di Roma. Il concilio, non a caso, proclama anche il primato papale sulla Chiesa universale. La Roma abbandonata dagli dèi e saccheggiata dai Visigoti (410) risorge come aeterna civitas Dei.
A partire dalla data tradizionalmente indicata per fissare la “caduta dell’impero romano”, cioè il 476, la Chiesa svolge un ruolo attivo di mediazione tra impero bizantino, senato romano e popolazioni barbariche. Odoacre arriva in Italia “benedetto” da san Severino e Teodorico, suo successore, visita Roma nel 500 mostrandosi “devotus ac si catholicus”. Nel corso del VI secolo la Chiesa attraversa momenti di grande tensione. Il cosiddetto scisma “acaciano”, originato dall’assenso fornito dal prete Acacio all’Henótikon (482) dell’imperatore Zenone (474-491) – un documento che, nel ribadire il dogma della doppia natura del Cristo ometteva di menzionare il concilio di Calcedonia –, protrattosi fino al 519, fa sì che l’aristocrazia cattolica romana più intransigente preferisca collaborare con il goto ariano Teoderico, stabilizzandone, quindi, il regno, piuttosto che dialogare con gli “eretici” bizantini. La fine del regno gotico, infatti, consegue alla riconciliazione di Roma e Bisanzio sul piano dottrinale.
Anche lo scisma laurenziano, iniziato nel 498 con la doppia elezione dei papi Lorenzo e Simmaco, compromette il dialogo tra poteri e costringe l’abile e tollerante Teoderico ad un delicato intervento diplomatico (dopo sei sinodi, e diversi attentati, nel 506 la primazia è riconosciuta a Simmaco, candidato dell’aristocrazia romana antibizantina). Mentre la conversione del Franco Clodoveo (466-511) dal paganesimo al cristianesimo (489) in Francia e la collaborazione con l’episcopato cattolico dei Visigoti in Spagna assicurano a tali regni concordia interna e prosperità, in Italia l’invasione longobarda (568) distrugge i residui apparati economico-giuridici e culturali della Romanitas e prostra l’Italia con devastazioni appena arginate dalla Chiesa – specie sotto il papato di Gregorio Magno (594-604) –, che esercita poteri statali in surroga, supplendo al lassismo operativo dell’esarca bizantino, e si configura come Stato territorialmente autonomo, con un vasto patrimonio fondiario ed immobile. Gregorio intraprende una capillare opera di evangelizzazione presso popolazioni ancora pagane; diffonde la liturgia romana; ribadisce il primato del vescovo di Roma come guida della Chiesa universale e tesse una fitta rete di rapporti diplomatici.
Nel 603 vengono battezzati l’erede al trono longobardo Adaloaldo, figlio di Teodolinda e Autari, ma ciò non comporta la conversione di massa dei Longobardi, sul cui trono si susseguiranno ancora molti ariani. Col re Liutprando la conversione si compie. Il re tenta di unificare il territorio e di creare un regno coeso conquistando pentapoli ed esarcato, ma il papa lo dissuade e lo convince a restituire i territori invasi a Bisanzio. Il castello di Sutri, però, viene restituito “ai beatissimi Pietro e Paolo”, cioè alla Chiesa (728), una donazione, questa, che tradizionalmente è registrata come atto di nascita del “potere temporale” dei papi, dato che ad essa si ricollega il riconoscimento ufficiale regio della giurisdizione ecclesiastica su un territorio definito. L’aspirazione della Chiesa romana a esercitare il suo potere in una dimensione universalistica è il più rilevante dei motivi per cui in Italia non si perviene alla completa fusione etnica che assicurava solidità, ad esempio, alla Spagna dei Visigoti. Roma non poteva ridursi a capitale di un regno a carattere nazionale. Quando, dunque, il re Desiderio riprende il disegno dei predecessori Liutprando e Astolfo (749-755) con l’intento di compattare il regno, i papi non esitano a conferire ai Franchi il titolo di protettori della Chiesa. Papa Stefano II impartisce a Pipino e ai figli la sacra unzione e chiede il loro intervento contro l’espansionismo longobardo. In questi anni, non a caso, viene redatto il falso documento detto Constitutum Constantinii, con il quale si faceva risalire a Costantino la donazione di Sutri e di altri territori alla Chiesa. Re Desiderio garantisce un quindicennio di pace al regno, ma alla morte di Carlomanno (771), l’equilibrio è compromesso e papa Adriano I investe il futuro Carlo Magno dell’onere di difendere le terre della Chiesa. Nel 774 i Longobardi sono sconfitti; numerosi conti e vassalli franchi si insediano in Italia.
La Chiesa aiuta Carlo ad elaborare un’ideologia del potere e lo immette nel solco della tradizione degli imperatori cristiani. La curia pontificia gli attribuisce prerogative proprie dell’imperatore bizantino, dal quale la Chiesa ambiva a emanciparsi. Dal 797, peraltro, il trono bizantino era retto da Irene, una donna, per cui era considerato vacante. Carlo cerca inutilmente di ottenerne la mano, ma il rifiuto lo induce a ricorrere alla Chiesa come alla sola fonte legittimante di un potere universale e “sacro”. Nell’800, Leone III incorona Carlo imperatore del Sacro Romano Impero, dando inizio ad una nuova e controversa stagione di rapporti tra potere civile e potere religioso.