L'arte medica e l'etica ippocratica
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La medicina ippocratica non ha prodotto testi esplicitamente dedicati all’etica del medico. Quello che spesso viene letto come un esempio di etica medica antica, il Giuramento, è infatti solo un testo a carattere deontologico. Ciononostante, si può trovare traccia di prescrizioni etiche in Ippocrate nei libri clinici e traumatologici, nei quali si raccomanda il dialogo con il paziente, il divieto all’accanimento, il beneficio dell’atto medico.
L’esistenza nel mondo antico di un’etica medica intesa come insieme di principi e norme ben individuati e autonomi da altri settori della riflessione continua a essere oggetto di dibattito. I rapporti che, a partire dal pensiero ippocratico, la medicina intrattiene con il pensiero filosofico e con i principi che regolano la società antica nel suo insieme, suggeriscono la possibilità di considerare le norme etiche che regolano l’agire medico come specializzazioni di più generali precetti morali. Già Ludwig Edelstein metteva in relazione gli scritti ippocratici a carattere deontologico, particolarmente il Giuramento, con la realtà filosofica e religiosa dell’epoca, in particolare con la scuola pitagorica. Tuttavia, anche se si ipotizza un’origine “esterna” dei principi deontologici ippocratici, i testi del Corpus si dotano di una connotazione comportamentale e morale interna, come testimoniano, da un lato, il Giuramento, dall’altro, tutta una serie di passi provenienti dai testi a carattere più marcatamente clinico-chirurgico.
Se infatti, come ha dimostrato Danielle Gourevitch, l’elemento deontologico nella medicina antica si struttura chiaramente solo dal IV secolo a.C. (dunque in un’epoca relativamente tarda), alcuni concetti espressi nel Giuramento, come il legame ideale tra maestro e discepolo, definiscono precocemente un nucleo di valori che consente anche agli estranei che desiderino apprendere l’arte l’annessione alla famiglia di Ippocrate. Il Giuramento è quindi un patto (orkos) davanti alle divinità della cura (Apollo, Asclepio, Igea e Panacea sono invocati nel preambolo) che sancisce un processo di iniziazione: un contratto di associazione, che lega indissolubilmente i contraenti al rispetto di doveri esclusivi della professione – agire nell’interesse del paziente, compiere solo atti dei quali si è capaci, soccorrere il maestro in caso di bisogno, corrispondere a un ideale supremo di purezza. Questo patto fa sì che anche in altri trattati del Corpus la deontologia si configuri in modo più netto dell’etica medica, includendo anche tutta una serie di norme che regolano l’apparenza fisica del medico, il contegno che deve tenere in pubblico, il modo in cui deve essere vestito, il rispetto assoluto che deve nutrire nei confronti di fatti, medici o non medici, di cui venga a conoscenza durante l’esercizio professionale (segreto professionale). “La regola del medico deve essere di avere un bel colorito e di essere bene in carne, secondo la sua corporatura, perché la maggior parte della gente ritiene che quelli il cui corpo non sia così in buona salute non saprebbero neppure curare convenientemente gli altri”, recita il trattato Sul medico, un testo ellenistico che disegna, sulla scia delle indicazioni più antiche, il ritratto ideale, fisico e morale, del professionista.
Il giusto mezzo è la regola cui deve essere ispirato il comportamento corretto del medico: egli deve rivolgersi al paziente con tono pacato, le sue parole e gesti non devono mai apparire rudi, la condotta eccessivamente gioviale va evitata come “estranea alla convenienza”. Queste norme comportamentali garantiscono autorevolezza al medico e alla scuola che giura secondo il testo buona fama e attendibilità; il rifiuto a compiere atti potenzialmente mortali, come la somministrazione di farmaci eutanasici, l’interruzione di gravidanza, l’incisione della vescica per l’estrazione di calcoli, si aggiungono alle prescrizioni che consentono di evitare la cattiva fama e aprono la strada alle successive letture del Giuramento in ottica di etica cristiana.
In realtà, alla discussione di principi etici il Corpus ippocratico non dedica spazio formalizzato: non esistono testi dedicati alla discussione dei valori morali che devono informare l’arte, ma solo accenni impliciti, presenti soprattutto nelle opere a spiccata valenza clinica. In esse si esprime il principio cardine dell’etica ippocratica, quello dell’ophelein mé blaptein, essere utile e non procurare danno all’ammalato (che nella tradizione successiva prende il nome di principio del primum non nocere). “Lo scopo della medicina” – si legge nel trattato Sull’arte – “è eliminare le sofferenze del malato e diminuire la violenza delle malattie, astenendosi dall’intervenire nei casi in cui il male è più forte, che sono al di sopra dell’arte”. Il passo stabilisce un principio etico non formalizzato, che la letteratura ha definito “naturalismo etico”: l’ordine morale si fonda sul rispetto della physis, sicché assecondare l’andamento ordinato e intellegibile della natura garantisce al medico il raggiungimento della virtù, contro i rischi dell’interventismo forzato. Il medico è colui che riconosce i limiti intrinseci della sua competenza: il rispetto di un’etica della beneficialità diventa il fondamento del riconoscimento della medicina come parte costitutiva di un tutto armonico, retto dalle leggi della necessità.
Alla luce di quanto fin qui detto non è, pertanto, necessario scrivere libri su cosa sia “bene” e cosa sia “male” nell’esercizio dell’arte: è bene solo l’essere competenti (tecnoetica), il possedere pienamente e mettere a servizio dell’ammalato la teoria dei segni. La clinica ippocratica è di per sé manifesto etico: medicina e morale operano nello stesso ambito, perché condividono il raggiungimento degli stessi scopi, l’equilibrio del corpo, dell’anima e del mondo sociale. Questo atteggiamento è particolarmente spiccato nei trattati chirurgici (Fratture, Articolazioni, Ferite del capo), in cui una competenza tecnica alta aumenta il rischio professionale e sembra richiedere standard etici più elevati per giustificare sia gli interventi, sia il rifiuto del medico a compierli. È questo il caso delle malattie incurabili, che esistono perché “guarire tutti i malati è impossibile” (Prognostico, I): il buon medico si astiene dalle terapie che, dove la forza della physis sia maggiore di quella della medicina, accrescono solo la sofferenza.
Per la dimensione etica nella relazione medico-paziente, Alberto Jori ha poi dimostrato come il medico ippocratico ponga l’attenzione su alcuni aspetti della relazione con il paziente, in cui quest’ultimo ha assoluta centralità nell’atto clinico: il medico deve esercitare in sinergia con un soggetto cosciente, consapevole della sua malattia e della storia che la caratterizza – una prefigurazione del tema attuale del “consenso informato”. Il paziente non deve accogliere passivamente ordini e prescrizioni: questo atteggiamento, che si ritrova in un gruppo di scritti direttamente riconducibile a Ippocrate, si differenzia molto da quello predicato in altri testi, più tardi e filosofici, come il trattato Sull’arte: lì il dialogo è presentato come inutile e fuorviante, perché il medico possiede in sé gli strumenti intellettuali per comprendere la malattia, senza bisogno del confronto con il paziente. Come l’uomo libero tratteggiato nelle Leggi di Platone, il paziente ippocratico ascolta insieme ai familiari le impressioni del medico, dando vita a un rapporto di scambio che da un lato gli consente di accedere al processo pedagogico che la medicina compie sul corpo e sulla vita, dall’altro gli consente di insegnare, anche da una posizione culturale umile, qualcosa al curante. Non c’è cura senza convinzione dell’ammalato, né guarigione senza che il medico conosca gli aspetti del vissuto psicologico della malattia. Questo processo avviene, in modo privilegiato, nell’ambito della clinica: l’anamnesi ippocratica, che costringe il malato a ricercare nella memoria la storia vicina e lontana del suo corpo, è lo strumento fondamentale di una relazione attiva, in cui gli aspetti tipici del paternalismo medico antico sono mitigati dal dialogo e dal confronto.