Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel tardo Settecento, in concomitanza col crescente interesse per l’antico e per la natura nei suoi aspetti sublimi, si afferma in Europa la tendenza a intraprendere viaggi verso le regioni mediterranee e i siti archeologici che si vanno riscoprendo in Italia e altrove. Il fenomeno coinvolge aristocratici e intellettuali nel ruolo di committenti e artisti in quello di reporter: questi ultimi sono chiamati a documentare fedelmente monumenti e paesaggi incontrati lungo l’itinerario.
“I vostri quadri debbono avere due qualità: quella della bellezza pittorica e quella della rassomiglianza. Nel progetto che voi mi avete proposto una senz’altro è presente, ma, temo, a spese dell’altra”. È il 1756 quando il marchese di Marigny scrive al pittore Claude-Joseph Vernet a proposito dell’incarico, conferitogli da Luigi XV, di illustrare i porti di Francia. La richiesta di verità avanzata dal committente ha certamente a che fare con il valore propagandistico della serie in questione, ma rivela al tempo stesso l’adesione a un atteggiamento e a un gusto che si diffondono in quegli anni. Analogamente ciò si verifica nei “ritratti” di città europee realizzati dal veneziano Bernardo Bellotto per conto di alcune corti, attraverso una lucidità analitica che prelude all’imminente affermazione di un’arte intesa come documento visivo.
Lo sviluppo della pittura che possiamo definire di “reportage” ha inizio verso gli anni Settanta e interessa l’ultima parte del secolo. I committenti sono in prevalenza aristocratici o intellettuali in viaggio sulle rotte del Grand Tour, che desiderano ottenere fedeli riproduzioni delle tappe del proprio itinerario. D’altra parte gli artisti sono raramente pittori di corte, più spesso viaggiano per scelta e interesse personale oppure perché chiamati al seguito dei “granturisti”. Il Grand Tour, viaggio di formazione ritenuto indispensabile dalle élite europee, tocca varie parti d’Europa e si conclude immancabilmente in Italia con una visita ai tesori d’arte. Nel corso del secolo il fenomeno assume proporzioni imponenti coinvolgendo un numero di viaggiatori inaudito e, al tempo stesso, subisce un mutamento significativo. Sulla curiosità intellettuale dei protagonisti si innesta la passione antiquaria, a cui presto seguirà l’interesse per la natura e per i costumi popolari, provocando uno spostamento dell’interesse verso il Meridione. Dopo Napoli, inevitabile meta insieme agli scavi di Ercolano e Pompei, si affrontano ricognizioni in Sicilia o nelle regioni più ignote del Sud quali la Puglia e la Calabria; contemporaneamente si organizzano spedizioni in Grecia, Dalmazia, Spalato e Asia Minore per condurre sistematiche campagne di rilievi nei siti archeologici.
Il pittore partecipa a queste spedizioni in qualità di reporter, riempiendo il proprio taccuino – strumento essenziale visibile in molti ritratti di artisti – con disegni realizzati sul luogo e rielaborati più tardi in studio o, al limite, nella locanda in cui si fa tappa. Da tale rielaborazione, che deve filtrare l’immediatezza della “presa diretta” ma non deve modificare con interventi arbitrari la trascrizione iniziale, l’artista ricava dipinti, acquerelli e incisioni. La medesima prassi viene seguita da quei pittori che viaggiano per conto proprio contando sulla possibilità di vendere a occasionali clienti, sempre viaggiatori, le proprie opere.
Comune a quella di molti artisti del tempo è l’esperienza dell’inglese John Robert Cozens, che nel 1776 viene reclutato dall’antiquario Richard Payne Knight e lo segue in Svizzera e a Roma, dove rimane circa due anni, ormai libero dagli impegni, fino al 1779. Nel 1782 viene poi assunto da William Beckford, collezionista ricchissimo al suo terzo viaggio europeo. I momenti di questo viaggio, che tocca la Germania, alcune città dell’Italia del nord, Roma e infine Napoli, sono descritti in parallelo nelle lettere del mecenate e nei sette taccuini di schizzi dello stesso Cozens.
Un esempio precoce di resoconto pittorico spetta ad Antonio Joli, che nel 1759 realizza a Napoli tre vedute di Paestum.Pur eseguite in studio, le vedute sembrano basate su schizzi dal vero dei templi recentemente riscoperti. Nel Tempio di Nettuno la scelta del taglio compositivo e l’attenzione al dettaglio architettonico rendono facilmente individuabile la struttura dell’edificio: proprio per le caratteristiche di chiarezza e fedeltà al soggetto la serie sembra creata per soddisfare le richieste di un committente dal gusto aggiornato.
La documentazione delle scoperte archeologiche non è l’unico ambito nel quale gli artisti si muovono, anche il paesaggio meridionale, infatti, suscita interesse nei viaggiatori, attratti a Napoli da alcune spettacolari eruzioni del Vesuvio. Visto l’interesse per il fenomeno, queste eruzioni vulcaniche sono un campo di esercizio privilegiato per gli artisti-reporter: la ripresa dal vero è d’obbligo, anche se il successo del soggetto giustifica le infinite repliche e variazioni sul tema prodotte per i viaggiatori alla ricerca di souvenir. Al di là di questa ripetitiva tendenza, bene esemplificata dalle opere del francese Pierre-Jacques Volaire, si situano alcune vedute come la gouache dell’inglese Joseph Wright of Derby, riferibile all’eruzione del 1774, osservata dall’artista durante la sua visita a Napoli. Nell’opera è evidente la volontà di conservare il carattere di appunto dal vero e di immediatezza, e a questo scopo contribuisce la tecnica adottata, che va imponendosi tra questi artisti proprio per la rapidità e la relativa naturalezza che consente al momento dell’esecuzione.
Va comunque osservato che della veduta realizzata sul posto Wright of Derby, adottando una pratica comune ai contemporanei, si serve come di un prototipo per numerose repliche. In queste opere il vulcano in eruzione è l’emblema della natura scatenata e infinitamente superiore all’uomo, fonte del sentimento del sublime su cui si interroga la cultura del secondo Settecento.
Anche la tempera e l’acquerello sono tecniche predilette dagli artisti che viaggiano; infatti esse richiedono un corredo meno impegnativo della pittura a olio e garantiscono tempi rapidi a pittori interessati a una veloce registrazione delle immagini del loro viaggio. L’acquerello resta comunque, fino all’esempio assoluto e visionario di Joseph Mallord William Turner, prerogativa quasi esclusiva degli artisti inglesi.
Queste nuove tecniche sono inoltre usate da Jacob-Philipp Hackert e Titta Lusieri, paesaggisti le cui opere sono dominate da una visione limpida e precisa.
Hackert nel 1777 compie con il pittore Charles Gore e con Payne Knight un viaggio in Sicilia finalizzato a illustrare i luoghi classici dell’isola. Dal 1786 è pittore di corte di Ferdinando IV di Borbone a Napoli e per lo stesso re dipinge tra l’altro la serie dei Porti del Regno, incarico che lo conduce a visitare anche la Puglia e la Calabria. Le sue vedute offrono una resa oggettiva, lucida e classicamente composta di paesaggi e rovine, frutto di un’applicazione meditata.
A Napoli Lusieri lavora per importanti mecenati come Lord Hamilton, ambasciatore inglese, che nel 1799 lo segnala a Lord Elgin in partenza per una missione a Costantinopoli, in cui è prevista anche una sosta ad Atene. Per contratto Lusieri si impegna a consegnare al committente le opere realizzate durante il viaggio; tuttavia da quell’anno fino alla sua morte (1821) vive ad Atene, dove dipinge pochissimo ed è invece impegnato ad acquistare, rimuovere e spedire i marmi fidiaci per conto di Lord Elgin. Benché delle sue opere greche rimanga un solo acquerello, la sua esperienza ha un’importanza rilevante per l’apertura di orizzonti che testimonia, in linea con i viaggi di studio che rimandano all’Europa, l’immagine autentica delle rovine: un esempio per tutti è rappresentato dai rilievi del palazzo di Diocleziano a Spalato, compiuti nel 1757 da Charles-Louis Clérisseau per l’architetto Robert Adam.
Frutto caratteristico di questo clima è il monumentale Voyage pittoresque dell’abate Saint-Non, in cinque tomi pubblicati tra 1781 e il 1785. Saint-Non è in Italia nel 1759 e si serve di Hubert Robert, allievo dell’Accademia di Francia a Roma, e di Jean-Honoré Fragonard, entrambi in qualità di disegnatori.
Il numero e la sistematicità dei disegni realizzati dai due artisti nel corso del viaggio a Napoli conducono Saint-Non a concepire un’opera che illustri mediante un testo corredato di incisioni il Regno delle Due Sicilie. Al fine di allargare la ricerca per portare a termine l’impresa, l’abate ingaggia Dominique-Vivant Denon che organizza nel 1778 la campagna di rilievi condotti da una équipe di disegnatori inviati in tutto il territorio del Regno.
Nei disegni di Robert e Fragonard, di Desprez, Châtelet, Pâris e altri vengono documentati monumenti, luoghi archeologici, paesaggi urbani e naturali in un’apoteosi dell’arte, come strumento di conoscenza, e dell’artista, come reporter. Robert, che pure mostra inclinazione per una resa suggestiva più che puntuale dei luoghi, al suo ritorno in Francia farà tesoro dell’esperienza dipingendo vedute ed edifici di Parigi che costituiscono una testimonianza sulla vita contemporanea della città.
Goethe stesso, in Italia nel 1787, recluta a Napoli un disegnatore che lo segue nel suo itinerario meridionale, Sicilia compresa.
Christoph Heinrich Kniep esegue per lo scrittore vedute analitiche e calligrafiche, che proprio per tali aspetti soddisfano Goethe. Il giudizio dello scrittore sui rapporti con l’artista è in un certo modo paradigmatico delle relazioni corse in questo periodo tra committenti e pittori. A Palermo annota che “grazie alla sua abilità […] più d’un foglio di carta si è trasformato in un prezioso ricordo” e a Napoli poco dopo l’ingaggio scrive entusiasta: “Come ero contento d’essermi liberato, sotto questo aspetto, da ogni preoccupazione e d’essermi assicurato, per la memoria, appunti così precisi!”.