L'archeologia delle pratiche funerarie. Periodo tardoantico e medievale e mondo bizantino
di Francesca Romana Stasolla
Le prime sepolture cristiane avvennero in aree funerarie già in uso, quindi extraurbane rispetto alla città romana, e non si distinguono se non per la presenza di un qualche elemento, generalmente epigrafico, chiaramente allusivo alla nuova fede. In alcune di tali aree vennero deposti anche personaggi venerati, martirizzati nel corso delle persecuzioni religiose, e le loro sepolture furono ben presto oggetto di visite e quindi di sistemazioni architettoniche, che in alcuni casi sfociarono in una vera e propria monumentalizzazione. A Roma il fenomeno fu abbastanza precoce, così che, accanto alle più modeste strutture commemorative volute da pontefici quali Damaso (366-388), risalgono a Costantino le imponenti basiliche sulla tomba di Pietro nella necropoli vaticana, di Paolo lungo la via Ostiense, di Agnese sulla Nomentana, di Marcellino e Pietro sulla Labicana, di Lorenzo nell'agro Verano. Tali costruzioni comportarono la parziale obliterazione delle necropoli in uso (nel caso di quella vaticana, essendo la sepoltura pietrina lungo le pendici del colle, ne venne effettuato il parziale sbancamento), cosa che l'imperatore poté effettuare grazie alla sua carica di Pontefice Massimo. Queste basiliche, che costituiscono un unicum quanto ad impianto, per la loro articolazione circiforme, che ne ha determinato il nome nella critica moderna, rappresentano il prototipo concettuale delle basiliche funerarie che altrove si svilupparono sotto forme più canoniche e analoghe alle più comuni aule di culto. Sono infatti veri e propri cimiteri al coperto, creati con gli scopi di salvaguardare le sepolture, disporre di spazi per i riti funebri, dare rilievo alle tombe dei martiri. Il fenomeno dello sviluppo in senso cristiano di una necropoli "santificata" per la presenza di una sepoltura venerata accomuna comunque vari centri del mondo cristiano, sia in Europa occidentale (fra gli altri S. Genesio di Arles, S. Felice di Cimitile, S. Gennaro di Napoli, S. Paolo a Narbona, S. Fruttuoso a Tarragona, S. Vittore a Marsiglia), che in Africa (ad es., S. Salsa a Tipasa) e in Oriente (il santuario dei Sette Dormienti ad Efeso, S. Sergio a Resafa, S. Mena in Egitto, ecc.). Per quanto riguarda le aree funerarie poste in connessione con edifici di culto, pare evidente una gerarchia che privilegia gli spazi absidali, luogo di deposizione di personaggi venerati o comunque di rango elevato e la cui sepoltura non infrequentemente finisce con il trovarsi a cadere sotto l'altare di successive riedificazioni dell'edificio cultuale. L'intera area presbiteriale viene considerata come uno spazio privilegiato, mentre l'allontanamento dall'altare segna lo scemare nell'importanza della sepoltura, secondo un criterio di massima, ma non canonizzabile; infatti, la disponibilità di spazi appare comunque determinante nella dislocazione delle sepolture. A partire dal III secolo si andarono comunque sviluppando cimiteri a carattere spiccatamente cristiano, ipogei (catacombe) e subdiali che, in analogia con le coeve necropoli non cristiane, prevedevano strutture architettoniche (mausolei e cappelle) accanto alle forme più semplici di sepoltura. Nei casi in cui i personaggi venerati erano stati deposti in cimiteri ipogei, si assiste al duplice diffondersi di comuni inumazioni sia negli approfondimenti catacombali sia nelle aree funerarie del sopraterra, con una varietà tipologica ed un'apparente disomogeneità dettata prevalentemente dal desiderio di affollarsi attorno alla sepoltura principale. Un caso particolare per densità e apparente mancata organizzazione è costituito dai retrosanctos, zone di fortissima concentrazione poste a ridosso ‒ di solito sul retro ‒ delle sepolture venerate. Nate per sopperire al desiderio dei cristiani di essere sepolti nei pressi di un martire, talora mediante modifiche strutturali di costruzioni già presenti o, nel caso di ipogei, mediante lo scavo di cubicoli aggiuntivi, queste aree sono caratterizzate dal continuo sovrapporsi ed intersecarsi di sepolture, dalla creazione di pozzetti funerari e comunque dall'utilizzo di qualsiasi superficie libera. Un'organizzazione gerarchica delle sepolture si può riscontrare in aree funerarie sviluppatesi appositamente attorno ad una struttura cultuale o martiriale, in una zona libera da preesistenze. Altro invece è il caso, assai frequente, di sepolture venerate inserite in necropoli già densamente occupate, nelle quali si assiste all'affollarsi, al sovrapporsi e all'intersecarsi di nuove tombe e delle tracce determinate dalle percorrenze dei pellegrini, talvolta in parallelo con l'abbandono di regioni più periferiche, con fenomeni che assumono piena evidenza in alcuni contesti catacombali. Nei complessi ipogei, infatti, la carenza di spazi ne ha determinato lo sfruttamento intensivo, evidente ad esempio nei cinque piani di sepolture nell'area della Cripta dei Papi nella catacomba di S. Callisto a Roma; negli ambienti occupati da loculi lungo le pareti e quindi riempiti da tombe dette "a cappuccina" sovrapposte nella catacomba di S. Tecla, sempre a Roma; nella creazione di "pozzetti" per sepolture sviluppate in profondità; nell'estensione del termine retrosanctos alle basiliche cimiteriali del sopraterra. Estensione di significato di questo fenomeno si riscontra nell'abitudine di dedicare una chiesa funeraria ‒ con lo sviluppo cimiteriale che ne conseguiva ‒ a delle reliquie, in mancanza di un corpo santo. Sul piano epistemologico la presenza di un defunto o delle sue reliquie sembra essere non significativa, visto lo sviluppo sul piano topografico delle necropoli attorno alle basiliche milanesi volute da S. Ambrogio a baluardo della città, disposte a croce ai quattro lati. A Roma come in altri centri, la costruzione di edifici di culto extraurbani con funzione funeraria legata ad un culto martiriale diventò un fattore poleogenetico, determinando il costituirsi di nuclei abitativi all'esterno del perimetro urbano, stabilendo quindi una connessione tra abitato e sepoltura, in un intrecciarsi di spazi multifunzionali. Infatti gradualmente, in genere a partire dal V secolo, attorno a questi cimiteri si stabilizzò un insediamento, con strutture abitative e di accoglienza per i pellegrini, monasteri, fino a casi eccezionali, quali il trasferimento della sede episcopale da Nola a Cimitile (Napoli) o lo sviluppo di nuclei che divennero autonomi e talora preminenti rispetto alla città, ad esempio Sergiopoli a Resafa, oppure Giovannipoli, il borgo fondato da Giovanni VIII nella seconda metà del IX secolo attorno alla basilica di S. Paolo a Roma. Il caso più eclatante è sicuramente costituito dalla civitas Leoniana, portata a compimento da Leone IV (847-855), che determinò l'organizzazione del nucleo abitativo sorto attorno a S. Pietro a Roma. In qualche caso, in connessione di necropoli vennero impiantate strutture battesimali, come è accaduto presso le catacombe di S. Gennaro a Napoli. Un fenomeno particolare dell'età postclassica è costituito dalla presenza di sepolture all'interno dei nuclei urbani. La sporadicità dei primi rinvenimenti aveva fatto ritenere che si trattasse di eventi isolati, tanto più che sul piano legislativo ancora per tutta la Tarda Antichità la normativa insiste sulla necessità di confinare le sepolture al di fuori del perimetro urbano, insistenza però che chiaramente tradisce la deroga a tale disposizione. Conciliare l'incongruenza tra fonti normative e tradizione da una parte e risultati dell'indagine archeologica dall'altra non è stato agevole e solo di recente, alla luce di una congrua serie di rinvenimenti in centri diversi, è possibile stabilire con ragionevole certezza le dinamiche del fenomeno. Il dibattito sulla presenza di sepolture in urbe, iniziato alla fine degli anni Ottanta del XX secolo, pare aver ormai individuato alcune costanti. Questa pratica, che si era diffusa a partire dal V secolo, appare in alcuni casi una conseguenza dell'inserimento in ambito urbano di complessi cultuali, così che nelle fasi iniziali della ricerca su questo argomento si era pensato che tali deposizioni fossero in qualche modo "privilegiate", si riferissero cioè a personaggi di levatura sociale, o meglio spirituale, tale da consentire una deroga alla legge in vigore. Ad integrazione di questa motivazione, si era supposto che la tendenza alle sepolture urbane fosse frutto di situazioni contingenti, a motivo delle quali la frequentazione del suburbio fosse diventata difficile oppure pericolosa, come ad esempio nel caso di Roma durante l'assedio nel corso delle guerre gotiche, nella prima metà del VI secolo. Tali spiegazioni non sono sicuramente estranee alle motivazioni del fenomeno, ma più che provocarlo, ne hanno in determinate circostanze ampliato le dimensioni. All'interno dell'abitato, le deposizioni, sia disperse che in gruppi anche consistenti, tendono ad inserirsi sfruttando soprattutto gli edifici romani in disuso almeno parziale (teatri, anfiteatri, terme, ecc.), oltre che le stesse aree forensi e naturalmente attorno alle aule di culto. Pur nella ricerca ancora in corso delle ragioni profonde di questo fenomeno che altera profondamente le consuetudini funerarie e lo stesso modo di intendere l'area cittadina, pare evidente che nella sensibilità tardoantica ed altomedievale sia venuta meno la distinzione tra spazio dei vivi e spazio dei morti, accentuata da una meno marcata identificazione del perimetro urbano rispetto alla città romana, in una compenetrazione di spazi che troverà ampio riscontro nel pieno Medioevo, con il diffondersi della consuetudine di seppellire all'interno delle chiese urbane. Risulta particolarmente allusiva a questo proposito l'usanza di deporre inumazioni, spesso infantili, nei pressi o all'interno di battisteri (ad es., Albenga) e di cattedrali (ad es., Ginevra, Colonia) in un significativo riscontro tra la simbologia del battesimo, nascita alla vera vita, e della morte, rinascita alla vita ultraterrena. Piccoli nuclei di sepolture sono stati rinvenuti anche in contesti rurali, in connessione con un abitato disperso che aveva un suo punto focale nell'aula di culto o comunque in strutture romane ancora in elevato, sia pur dirute. Non è allora infrequente il rinvenimento di piccole necropoli, talora molto concentrate nel tempo, nei resti di ville romane, magari parzialmente ancora in uso per funzioni artigianali o anche abitative. A partire dal VII secolo le aule di culto rurali con funzione di cura animarum cominciarono a sviluppare una funzione cimiteriale, a servizio di un abitato disperso che trovava in queste chiese un polo aggregante nella vita come nella morte. Queste dinamiche anticiparono in un qualche modo le funzioni del sistema pievano che si definì attorno al IX secolo, con la definizione di una circoscrizione territoriale intorno ad ogni plebs, sia in funzione abitativa che funeraria. Aree funerarie particolari sono quelle funzionali ad ambiti fortemente connotati quanto ad identità e a struttura gerarchica, come i monasteri. Alcuni monasteri orientali presentano una distinzione tra sepolture privilegiate, quali quelle di fondatori, patriarchi, monaci noti per santità di vita, deposti in cappelle, mausolei o all'interno di aule di culto, nel nartece o nella zona presbiteriale, e quelle di semplici monaci, inumati in un cimitero comune (Siyagha sul Monte Nebo, Mar Hananian presso Mardin, ecc.). Strutture funerarie destinate ai componenti di un cenobio, sia pure in forme meno imponenti, si trovano anche in Occidente, ad esempio a Roma (S. Saba, S. Gregorio al Celio), a Brescia (chiostro centrale del monastero longobardo di S. Giulia, nella fase di IX sec.), a Farfa. Gli usi funerari monastici sono normalizzati nella Pianta di S. Gallo, una rappresentazione ideale di un impianto monastico datata al IX secolo, che prevede un'area cimiteriale presso il muro est del monastero, recintata e alberata, con loculi che potevano ospitare fino a sette inumati. All'interno delle aree sepolcrali esisteva comunque un'organizzazione delle sepolture che mirava a razionalizzare gli spazi e a prolungare quanto più possibile il periodo d'uso della necropoli. Là dove le indagini hanno consentito di scavare in modo estensivo cimiteri in uso senza soluzione di continuità per alcuni secoli, è emersa la tendenza a livellare il terreno per creare un piano di deposizione omogeneo nel quale organizzare le sepolture, prevalentemente con lo stesso orientamento, fatta salva la tendenza a sfruttare anche gli spazi di risulta. Questo livello artificiale fungeva anche da piano di frequentazione per lo svolgersi dei riti funebri e veniva sostituito, previo un nuovo interro, da un più alto livello quando non c'era più spazio per nuove sepolture. Queste dinamiche sono state ad esempio riscontrate in Sardegna, nella necropoli in connessione con il centro episcopale di Cornus, una delle aree cimiteriali tardoantiche dell'area mediterranea meglio documentate per quanto riguarda la sua organizzazione, utilizzata soprattutto tra il IV ed il VII secolo. Altro fenomeno comune alle necropoli tardoantiche è la sovrapposizione e talora la commistione di sepolture di tipo diverso, come ben evidenziato dalle aree di Tipasa e di Timgad in Nord Africa (in uso fino al VI sec.) e di Tarragona in Spagna (frequentata fino al V sec.), caratterizzate dalla compresenza di tombe in anfora, fosse terragne, sarcofagi, tombe a tumulo, ecc. In alcuni casi si notano raggruppamenti di sepolture, presumibilmente riferite a defunti legati da vincoli familiari, con recinti oppure semplicemente con strutture aggiunte, quali tumuli, marciapiedi, mense, che collegano più deposizioni. La gestione dei cimiteri era affidata a presbyteri, mansionatii, praepositi, diaconi, a seconda delle decisioni dei vescovi. In Oriente, già a Costantino si deve la costituzione dei lecticarii (o decani ) proprio per la gestione dei cimiteri, mansione associata agli offici liturgici. Nell'ordinaria amministrazione e nella realizzazione di opere di scavo e di deposizione, essi si servivano dei fossores, il cui compito principale era quello di scavare le gallerie catacombali ed i loculi del sopraterra, ed in misura minore agli ostiarii, custodi delle chiese e dei cimiteri. Nel tempo le loro mansioni si andarono progressivamente ampliando, così che ad essi ci si rivolgeva per la decorazione delle sepolture, talora per la realizzazione di iscrizioni, spesso per la compravendita delle sepolture, scatenando una serie di abusi che la documentazione epigrafica romana tra IV e V secolo ben illustra. Questa organizzazione funeraria proseguì fino al VII secolo, periodo in cui la massiccia opera di traslazione delle reliquie in urbe, culminata a Roma con l'opera di Pasquale I (817-824), comportò la maggiore diffusione delle sepolture in ambito urbano. Le aree funerarie di cultura germanica si distinguono in genere per la sistemazione delle sepolture, disposte a file con orientamento est-ovest e capo ad occidente. Nel caso che più familiari fossero deposti all'interno della stessa necropoli, è abbastanza comune riconoscere raggruppamenti di sepolture attorno ad un inumato principale, presumibilmente il capofamiglia, e distinguere le diverse fasi di cronologia relativa, che contribuiscono quindi alla datazione degli stanziamenti e a definire i flussi migratori. Nell'ambito del V secolo i Germani orientali prediligevano le tombe isolate o piccoli cimiteri familiari, che rendono difficile l'individuazione etnica; è questo il caso ad esempio degli Ostrogoti in Pannonia, dato che è stato messo in relazione con la brevità dello stanziamento, che avrebbe inibito la costituzione di cimiteri più grandi. Queste tombe sono semplici fosse, nelle quali i defunti erano deposti in posizione supina. Tali piccoli nuclei parentali sono quasi impossibili da individuare in Italia, all'interno delle grandi necropoli in uso presso la popolazione locale, anche a seguito dell'esortazione di Teodorico ai propri sudditi di abbandonare gli usi funerari nazionali in favore del rituale locale che non prevedeva il corredo (Cassiod., Var., IV, 34). La documentazione archeologica attesta quest'uso: ad esempio, la tomba maschile gota di Ravenna è inserita nella necropoli tardoromana extramuraria, circa 400 m a sud del mausoleo di Teodorico. Attorno a questo edificio doveva presumibilmente estendersi un gruppo cimiteriale goto, ma i lavori per la costruzione della darsena portuale ne hanno impedito un'indagine archeologica vera e propria, così che lo stesso mausoleo risulta attualmente isolato, decontestualizzato rispetto all'area funeraria nella quale doveva essere inserito. Nella Penisola Iberica, le grandi necropoli visigote di tradizione germanica restarono in uso solo nel corso del VI secolo, quando il processo di integrazione nel mondo romano, unitamente all'abrogazione della legge che proibiva i matrimoni misti e alla conversione al cattolicesimo, portò all'uniformazione delle usanze funerarie e si sviluppò anche in ambito goto alla predilezione per le sepolture nei pressi di luoghi di culto. L'analisi minuziosa dei materiali di corredo ha consentito l'individuazione di quattro generazioni dell'insediamento visigoto in Hispania, fino alla fusione tra le due popolazioni: una prima fase (480-490 ca.) comprende alcune sepolture poste in cimiteri localizzati tutti al centro della Penisola (Duratón, Madrona, Herrera de la Pisuerga presso Palencia, El Carpio de Tajo presso Toledo, Costiltierra presso Segovia). Le stesse aree funerarie continuarono ad essere in uso nella fase successiva (fino al 525 ca.), mentre materiali del terzo momento (525- 560/580) sono stati rinvenuti nei cimiteri della Meseta castigliana, contemporaneamente alla tendenza alla dispersione in un'area più vasta, ad attestazione della progressiva diffusione della popolazione nel territorio. Nella quarta ed ultima fase (dalla fine del VI ai primi decenni del VII sec.) si assiste alla deposizione di genti visigote, sempre più romanizzate, in un'area progressivamente più ampia, che arriva a comprendere la costa mediterranea e l'attuale Andalusia. A partire dal 1956 ricerche archeologiche programmate in Ungheria e in Austria hanno consentito di acquisire un'enorme mole di materiali e di informazioni sulla permanenza dei Longobardi in Pannonia, grazie alle indagini nelle aree sepolcrali. Le piccole necropoli erano riservate ai componenti della fara, una sorta di nucleo famigliare allargato a parenti, a liberi non parenti, a semiliberi e a servi che erano in relazione con colui che alla fara dava il nome. Da quanto si deduce dalle necropoli, una fara media poteva annoverare 20-25 individui per generazione, così che questo numero identifica la dimensione minima dei nuclei cimiteriali, che spesso raddoppiano, visto che i Longobardi si fermarono in Pannonia per due generazioni, o arrivano anche alle 100 unità (ad es., in alcuni cimiteri della Moravia o della riva meridionale del Danubio). La presenza di piccoli nuclei cimiteriali di 6-8 sepolture tradisce la possibilità che i componenti della fara vivessero frazionati in fattorie o abitazioni monofamiliari. Anche nelle necropoli italiane ricorre l'uso di porre le sepolture principesche in aree isolate oppure al centro della necropoli, come nel caso di Foss di Civezzano in Trentino, dove si trova una inumazione nobiliare di VII secolo. Parallelamente, è stato notato che i Longobardi in Italia non disdegnarono la frequentazione di aree funerarie già in uso. Di particolare interesse sono le indagini nelle aree di passaggio o di confine, che attestano l'uso di cimiteri "misti" relativamente alla composizione etnica: ad esempio, la necropoli di Maria Ponsee, nell'Austria inferiore, sia pur fortemente danneggiata, comprende vari gruppi di tombe separati gli uni dagli altri. Il nucleo settentrionale è attribuibile ad una famiglia longobarda giunta in quest'area nel VI secolo e recante manufatti turingi, quello meridionale ad un'altra famiglia della medesima etnia arrivata successivamente dall'area nord-danubiana, mentre ad ovest ci sono sepolture della popolazione autoctona. Duplice ruolo, funerario e di testimonianza di possesso territoriale, dovevano avere alcune necropoli, quali ad esempio il cimitero di Sutton Hoo in Gran Bretagna, posto ai confini sud-orientali del regno anglosassone, i cui limiti dovevano essere visibili a lunga distanza sia da terra che dal mare. Le tipologie tombali postclassiche più semplici, con esclusione quindi degli edifici afferenti all'architettura funeraria, ricalcano i precedenti di età romana imperiale. La diffusione dell'inumazione comportò l'abbandono di strutture dedicate alla conservazione delle urne per l'incinerazione. Parallelamente, in alcune zone si sviluppò l'usanza di deporre i defunti in cubicoli ipogei, pratica già in uso in età romana, ma che con l'avvento del cristianesimo trovò ampia diffusione. Nelle regioni in cui la qualità del terreno consentiva di scavare gallerie e cubicoli ex novo o di sfruttare quelli già esistenti (con funzione funeraria o idraulica) si svilupparono grandi cimiteri ipogei, che dal toponimo romano della necropoli di S. Sebastiano ad catacumbas, a Roma, sono state dalla storiografia seicentesca definite catacombe. Queste strutture presentano tipologie funerarie proprie, ma sovente vivevano in strettissima connessione con un'area cimiteriale sub divo. Nell'ambito culturale mediterraneo e bizantino prosegue l'uso di tombe "a cappuccina", con tegole fittili, sostituite in qualche caso da lastre litiche per tutta la Tarda Antichità e fino ai primi secoli del Medioevo, con sporadici attardamenti fino al XII secolo. Nelle stesse aree culturali seguitano ad essere utilizzate anche le anfore per deposizioni ad enchitrysmòs. Si tratta prevalentemente di contenitori di provenienza africana, di maggiori dimensioni rispetto alle coeve anfore bizantine o iberiche, mentre tra le produzioni orientali prevale l'uso della Late Roman Amphora 4, erede delle anfore cilindriche puniche, per la sua forma allungata; altri formati, morfologicamente più globulari e di altezza più ridotta, sono occasionalmente usati per deposizioni infantili. Prosegue anche l'uso di sepolture in sarcofago, prevalentemente litico e di forma rettangolare. Proprio l'analisi dei sarcofagi offre la possibilità di conoscere le gerarchie sociali che la morte evidenziava: ai monumentali sarcofagi di porfido di destinazione imperiale e di epoca costantiniana (come quelli attribuiti a Costantina e ad Elena, attualmente ai Musei Vaticani) si affiancano esemplari marmorei con decorazione scolpita, per i quali proprio lo studio dei modi stilistici ha consentito di stabilire elementi di cronologia. L'adesione al cristianesimo di fasce progressivamente più ampie della popolazione comportò il diffondersi di temi iconografici conformi al nuovo credo (episodi vetero- e neotestamentari, oppure tratti dai Vangeli apocrifi) e la necessità di sviluppare registri decorativi più adeguati a scene narranti. In alcuni casi, il prestito di temi iconografici precristiani riediti e riletti alla luce della nuova fede (ad es., Orfeo-Buon Pastore, ecc.) non consente l'attribuzione del manufatto ad un ambito preciso, così che solo il contesto di rinvenimento o la presenza di elementi certi, quali epigrafi con formule dichiaratamente cristiane o non-cristiane, ne rendono possibile l'attribuzione. Come per il precedente periodo classico, la decorazione era funzionale al mondo del defunto, visto che per tali manufatti era comunque previsto l'interramento, con la sola eccezione di alcuni sarcofagi imperiali. Nei secoli altomedievali prevale il sarcofago a semplice cassa litica, rettangolare o antropomorfa, talora con cuscino interno o con un incavo per appoggiare la testa (logette), a volte anche con un secondo incavo per i piedi e con coperchio a lastra o a doppio spiovente. Sono stati rinvenuti, sia pure più sporadicamente, sarcofagi fittili o plumbei. La tipologia sepolcrale più diffusa è però costituita dalle tombe a fossa, di forma rettangolare o antropomorfa, rivestite all'interno di pezzame litico, con copertura piana o a tetto e deposizione adagiata nella nuda terra, caratterizzate dall'uso di materiale di reimpiego soprattutto tra i secoli V e VIII. Allo stesso tipo afferiscono le tombe a cassone fittile, con tegole che foderano la fossa scavata nel terreno, secondo modalità che possono prevedere anche più posti, cioè una grande cavità separata al suo interno mediante pareti di tegole collocate di taglio, al fine di creare spazi per i singoli inumati. La copertura, generalmente piana, era realizzata con tegole o lastre litiche e talvolta prevedeva la presenza di una centina lignea all'interno, le cui tracce in negativo sono state rinvenute ad esempio a Cimitile. Questa tipologia tombale, caratterizzata da grande duttilità nell'uso del materiale e adattabilità a contesti geologici diversi, prevede attestazioni ancora nel XIII secolo. Sono poi estremamente diffuse le sepolture nella nuda terra, talvolta con una delimitazione in ciottoli o frammenti fittili e con copertura in pezzame litico oppure addirittura di semplice terra. Sono numerosi i casi di riapertura e, conseguentemente, di nuove tamponature nella muratura delle sepolture dovuti all'uso di riutilizzare le tombe, ampiamente diffuso nonostante fosse condannato dalla Chiesa (Concilio di Mâçon del 585), dalla legislazione civile e temuto dai singoli, vista l'abbondanza delle epigrafi che cercano di scoraggiare tale pratica con minacce di ogni genere. Questi tipi generali si caratterizzano in modo diverso in casi particolari, nei quali la carenza di spazio costringe a comprimere le sepolture e ad organizzarle. Ciò si verifica soprattutto nei pressi delle sepolture venerate, quando il desiderio di essere sepolto il più possibile vicino al corpo santo nasce dalla convinzione che questa posizione privilegiata consenta di essere meglio patrocinati al momento del giudizio divino. Presso tutti i santuari martiriali è possibile assistere a fenomeni di sfruttamento intensivo degli spazi sia in maniera casuale che programmatica. Il caso italiano di Cimitile è a questo proposito particolarmente esemplificativo. Qui, infatti, nell'area della necropoli precristiana venne sepolto il martire Felice e questo evento fu propulsore di un fervore edilizio e di frequentazione che trovò il suo culmine nelle opere di ristrutturazione operate da Paolino, vescovo di Nola. La presenza di un insediamento e l'arrivo di pellegrini comportarono il prosieguo d'uso della necropoli, in un affollamento di spazi che determinò l'utilizzo anche dei piani pavimentali delle basiliche. Così, la navata centrale della Basilica Nova appare affollata da sepolture a fossa, nella semplice terra, le une addossate alle altre, oppure ricavate le une nelle altre, quasi tutte sottoposte ad un utilizzo plurimo che comportò l'accantonamento ai lati della sepoltura delle spoglie dei precedenti inumati per far posto all'ultimo, con ampio uso di materiale di spoglio, in un arco cronologico tra il V e il VII secolo. Del tutto diversa appare invece la situazione nella basilica di S. Tommaso, utilizzata tra VI e VII secolo, nella quale le sepolture sono state programmate in costruzione come ampie formae in muratura, loculi a due piani coperti da grandi mattoni fittili realizzati appositamente. Se sono noti altri esempi di sepolture anche a più piani, ma edificate nell'ambito di una programmazione edilizia (ad es., S. Saba a Roma), sia pure con destinazioni diverse, ben più diffuso appare l'accavallarsi di sepolture differenti, le une che sfruttano le spallette delle altre, in cimiteri sia ipogei che subdiali. Quasi tutte queste tipologie sepolcrali prevedono l'interramento del defunto e possono essere sormontate da strutture tese ad evidenziare la sepoltura. Nell'area mediterranea compresa tra la Penisola Iberica, il Nord Africa e la Sardegna sono diffusi tumuli di forma rettangolare, realizzati con pezzame litico e frammenti fittili legati da malta e successivamente intonacati e decorati da pitture o da mosaici, eventualmente dotati di un breve marciapiede che delimita la tomba stessa. I copiosi rinvenimenti delle necropoli africane (Sfax, Tipasa, Sétif, Tenes) hanno consentito di apprezzare la ricca tipologia decorativa di alcuni di questi tumuli, coperti da mosaici con raffigurazioni di episodi veterotestamentari, scritte beneauguranti e allusive al refrigerio e ritratti dei defunti. Stessa tecnica costruttiva ha la cupa, di forma arrotondata, mentre alcune tombe sono fornite di mense di muratura o di marmo, funzionali ai pasti funebri, di forma rettangolare, semicircolare o più raramente a sigma, che possono comprendere anche più inumazioni. Un elemento prezioso per lo studio delle sepolture e dei loro occupanti è rappresentato dalle epigrafi che, poste generalmente su lastre litiche di copertura delle tombe oppure su mense o tumuli o ancora all'interno di campi musivi, forniscono informazioni cronologiche, sui defunti, sul loro credo e sulla loro etnia. L'esigenza di rendere comunque palese l'esistenza di una sepoltura si manifesta nella presenza di signacula, che vanno da semplici elementi litici, infissi all'estremità breve corrispondente alla testa, ad elaborate stele, talvolta preziosamente decorate, diffuse in aree differenti. Molto importanti per la ricca decorazione scolpita, se ne trovano infatti in Irlanda, soprattutto nella versione di croci, e in Armenia, dette stolac e diffuse tra IV e VII secolo (Ardvi, Ajun, ecc.). Per quanto riguarda le strutture architettoniche con funzioni funerarie, al di là delle cappelle e dei mausolei sono state rinvenute in vari siti del Mediterraneo, sia orientale che occidentale, tombe a camera che icnograficamente richiamano i modelli precristiani. Sono in genere almeno parzialmente interrate, costruite in conci litoidi e prevedono un piccolo dromos di accesso ‒ di cui sono privi gli esemplari più tardi ‒ ad una camera di dimensioni modeste, con volta a botte. All'interno, la presenza di chiodi, ganci e tracce di annerimento ha fatto dedurre che vi fossero forme di arredo e di illuminazione. Tali sepolture sembrano privilegiare le aree di cultura più marcatamente bizantina e sono state rinvenute, oltre che in tutta l'area romanizzata del Mediterraneo centro-orientale (a al-Bagawat in Egitto, Salona in Croazia, Cafarnao e Betlemme in Israele), in Nord Africa, Sicilia, Sardegna, con una cronologia che al momento non sembra superare l'VIII secolo. Caratteri diversi hanno le sepolture di alcune popolazioni germaniche, che pure mediante i contatti con l'impero modificarono i loro usi funerari. Per quanto riguarda i Goti, anche dopo il definitivo passaggio al rito dell'inumazione continuarono ad usare tombe a tumulo con circoli di pietre (tipo Odry- Weşiory-Grzybnica) all'interno di ampie necropoli. La presenza di tumuli di tipo scandinavo ha costituito a lungo un elemento probatorio per confermare i passi di Iordanes sulla presunta etnogenesi dei Goti dalla Scandinavia, ipotesi attualmente rifiutata. Nella zona del Bosforo, a fine IV - metà V secolo, utilizzarono cripte funerarie familiari, riservate a personaggi abbienti, che tipologicamente sono più vicine a strutture mediterranee che alle coeve sepolture dei nomadi delle coste settentrionali del Mar Nero. Le più note, anche per la qualità dei corredi dei loro ospiti, si trovano a Kerč e sono costituite da un dromos da cui si accede ad una piccola camera funeraria (2,5 × 2,5 m ca.) con ingresso ad arco. Sulle tre pareti restanti sono scavate nicchie che ospitavano, così come il piano pavimentale, casse lignee. Anche in Italia, la ben documentata sepoltura femminile gota presso la basilica di S. Valentino lungo la via Flaminia, vicino a Roma, prevedeva una camera mortuaria (3,15 × 2,2 m) rivestita di tufo e mattoni, che ospitava un sarcofago in mattoni foderato di lastre marmoree e coperto da una lastra sempre di marmo, che a sua volta doveva essere sormontata da una copertura di cinque lastre disposte a piramide. All'interno doveva essere deposta una cassa lignea. Appare significativo che in questo caso un'alta rappresentante della popolazione gota, di fede ariana, nella prima metà del VI secolo fosse sepolta ad martyres, secondo l'uso ortodosso, a testimonianza della rapida romanizzazione nei costumi dei Goti, fatto questo che rende complessa l'individuazione delle loro tracce materiali mediante le indagini archeologiche. Anche sul piano strutturale, la maggior parte delle sepolture gote appare identificabile solo sulla base degli elementi di corredo ‒ con netta prevalenza femminile, essendosi il costume maschile più rapidamente adeguato alle mode autoctone ‒, come evidenziato dai piccoli nuclei cimiteriali individuati, ad esempio, dalla necropoli di Chiesa di Sopra (Forlì), che comprendeva sepolture a fossa orientate, di forma rettangolare, leggermente trapezoidale, con casse di arenaria o semplicemente rivestite all'interno da tegoloni di riutilizzo, in analogia quindi con le coeve sepolture autoctone. La tomba maschile principesca gota di Ravenna, sia pur distrutta al momento del ritrovamento, doveva essere di forma circolare, edificata in laterizi e rivestita da lastre di granito. In genere comunque le sepolture germaniche, con l'eccezione di quelle principesche, sono costituite da semplici fosse lignee con delimitazione in pezzame litico ed eventualmente cumuli di pietre, pali ( pertiche) o tumuli a segnalare la deposizione. Le ricerche della seconda metà del XX secolo nelle aree funerarie dell'Europa centro-orientale hanno contribuito in modo determinante a chiarire le dinamiche di spostamento e i processi di adattamento culturale dei Longobardi in Pannonia. Alla loro individuazione etnica hanno contribuito, oltre che gli elementi dei corredi, anche le caratteristiche antropologiche, che rendono i Longobardi ben riconoscibili rispetto alla popolazione autoctona. Essi sono inoltre sepolti in tombe ampie (2,5-3 × 1-2 m) e molto profonde (ad es., a Szentendre hanno una profondità che va da 3 a 5 m ca.), anche in proporzione all'importanza sociale del defunto. Le tombe principesche sul piano formale si allineano con le coeve sepolture di tipo germanico, prevedendo grandi tumuli (ad es., a Zuran, nella Repubblica Ceca). I Longobardi in Italia mantengono alcune tradizioni proprie dei popoli germanici, quali l'abitudine di seppellire i defunti con il capo ad ovest, al fine di vedere il sorgere del Sole. Le sepolture comuni sono spesso semplici fosse terragne, nelle quali il defunto è deposto a terra o in una cassa lignea che poteva essere ricavata da un grande tronco d'albero, come in Pannonia, oppure realizzata con tavole. Tali sepolture sono spesso, secondo la tradizione ben attestata in Pannonia, sormontate da una capanna lignea sorretta da quattro pali. Resti di queste caratteristiche "capanne pannoniche" sono stati rintracciati anche in Italia, in Trentino, a conferma del conservatorismo delle tradizioni funerarie. Anche nella Penisola Scandinava si trovano tumuli che sovrastano tombe a camera realizzate in pietra o in legno (ad Uppsala in Svezia, a Yellinge in Danimarca, ad Hörnig nello Jütland, ecc.), ma le sepolture più caratteristiche di quest'area sono quelle che utilizzano navi. Personaggi di stirpe reale sono stati infatti deposti in camere sepolcrali ricavate all'interno di imbarcazioni, insieme con corredi degni del loro rango; la nave veniva quindi interrata e coperta da un grande tumulo. Le pratiche funerarie di tutta l'area scandinava nell'Alto Medioevo sono caratterizzate dalla presenza di tumuli che ricoprono le sepolture, quale che sia la tipologia delle tombe sottostanti, dalle dimensioni medie di 15-20 m di diametro, con eccezioni quali il tumulo di Raknehaugen, in Norvegia, risalente alla metà del VI secolo e realizzato con un'armatura lignea ricoperta di terra, che misura 95 m di diametro e 15 m di altezza. Tra i ritrovamenti più spettacolari, cronologicamente databili tra VI e IX secolo, accanto alle navi di Nydam nello Jütland, di Oseberg in Norvegia, di Vendel in Svezia, spicca il tumulo di Sutton Hoo, in Gran Bretagna, nel quale è stata riconosciuta la deposizione di un re degli Angli convertitosi al cristianesimo attorno alla prima metà del VII secolo. L'eccezionalità del ritrovamento, giustificata dal ricco corredo, risiede anche nella struttura stessa dell'imbarcazione, la più grande al momento nota nell'Europa settentrionale, ben equipaggiata per la navigazione costiera e d'Oltremanica, sormontata, al momento della scoperta, da un grande tumulo di terra che doveva risparmiare la poppa e la prua, che rivestivano il ruolo di segnacoli della tomba. Il defunto ed i suoi beni personali erano deposti in una camera funeraria ricavata nella parte centrale del battello. Tale tumulo, insieme con altri diciassette, faceva parte di un cimitero isolato, riservato ai membri della classe aristocratica, ampiamente saccheggiato nei secoli scorsi.
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di Vincenzo Fiocchi Nicolai
L'uso del termine catacomba ad indicare un cimitero sotterraneo cristiano di grande estensione è attestato per la prima volta a Subiaco, nel Lazio, alla fine del X secolo, in relazione al locale cimitero sotterraneo (Reg. Sublacense, edd. Allodi - Levi, p. 28, doc. 12). Già nel IX secolo, tuttavia, la parola si trova impiegata a Napoli, con senso derivato, per indicare l'ambiente sepolcrale in cui era stato traslato il corpo di uno degli antichi vescovi della città (Chron. Ep. Neap. Eccl., ed. Capasso, I, p. 163). Il termine trae origine dal toponimo catacumbas con cui, nel IV sec. d.C., si designava a Roma un luogo situato al III miglio della via Appia, caratterizzato dalla presenza di ampie cavità arenarie (catacumbas, dal greco ϰατὰ ϰύμβαϚ, "presso le cavità"). In quell'area, a partire dal III sec. d.C., venne scavato uno dei più importanti ed estesi cimiteri sotterranei della città: quello di S. Sebastiano, denominato nelle fonti antiche, appunto, cymiterium catacumbas. La notorietà dell'area e la sua ininterrotta frequentazione per tutto il Medioevo fino all'età moderna spiegano il precoce (almeno altomedievale) passaggio del nome dal cimitero sotterraneo dell'Appia a tutti gli altri che presentavano le medesime caratteristiche. Il termine antico per indicare le catacombe era tuttavia diverso: nel IV e V secolo esse erano designate come cryptae, stando a quanto attestano alcuni passi di s. Girolamo e di Prudenzio (Hier., In Ezech., XII, 40; Prud., Perist., XI, 154). Dopo l'abbandono della quasi totalità delle catacombe romane avvenuto nei secoli dell'Alto Medioevo, solo poche di esse restarono accessibili: particolarmente quelle comunicanti con le basiliche suburbane che avevano conservato al loro interno tombe di martiri mai traslati dentro la città e per questo oggetto di una ininterrotta frequentazione devozionale (S. Sebastiano, S. Lorenzo, S. Pancrazio, S. Valentino). In queste aree sotterranee, e in altre sporadicamente accessibili dalle vigne del suburbio, sono attestate le prime firme di visitatori del XV secolo, tra le quali spiccano quelle dei sodali della famosa Accademia Romana degli Antiquari di Pomponio Leto. Ma le gallerie percorribili erano allora di breve circuito e soprattutto desolatamente spoglie. La scoperta casuale di una nuova catacomba intatta (quella oggi denominata Anonima di via Anapo), avvenuta sulla via Salaria il 31 maggio 1578, fu salutata pertanto come un evento straordinario. Il rinvenimento provocò un risveglio di interessi tra gli studiosi dell'epoca, alimentato peraltro dall'ambiente politico-religioso della Controriforma, particolarmente interessato al recupero delle testimonianze monumentali del primo cristianesimo, oltre che per trarre da esse alimento per un rinnovamento spirituale, anche per un loro utilizzo in chiave archeologica contro i protestanti. Tra questi primi ricercatori spicca la figura di A. Bosio (1575-1629), il primo ad indagare in modo sistematico le catacombe, il primo, soprattutto, a fondare il loro studio su una solida base di informazioni provenienti dall'analisi monumentale e dalla ricognizione delle fonti letterarie. L'approccio scientifico innovativo di A. Bosio rimase tuttavia un fatto episodico. Dalla metà del Seicento, per due secoli, le catacombe furono studiate con mero interesse antiquario spesso esclusivamente per l'apporto che sembravano conferire ‒ nel dibattito vivacissimo tra cattolici e protestanti ‒ alle idee religiose dei primi (e dunque con evidenti forzature esegetiche). Soprattutto, in quei secoli, i cimiteri sotterranei furono oggetto di un vero sistematico saccheggio da parte dei cosiddetti "corpisantari", un gruppo di operai specializzati che, su incarico ufficiale delle più alte gerarchie ecclesiastiche, si dedicarono ad estrarre dai cimiteri presunti corpi di martiri. Gravissima fu la dispersione dei dati provocata da tali deleterie ricerche. L'opera di M.A. Boldetti, inquadrabile in questo contesto cronologico e culturale, dedicata alle catacombe di Roma e d'Italia, ci permette di recuperare solo alcune informazioni su tali indagini. Alla metà dell'Ottocento l'archeologia delle catacombe uscì finalmente dal buio che l'aveva avvolta dopo la morte di Bosio. Nel 1851 fu istituita da parte di Pio IX la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, incaricata della tutela e della esplorazione scientifica delle catacombe. G.B. De Rossi (1822-1894), il fondatore della scienza dell'archeologia cristiana, riprese in quegli anni la ricerca sulla via tracciata da Bosio: pose a fondamento dei suoi studi l'attenta analisi strutturale correlata con quella delle fonti, da lui vagliate con nuovo senso critico. Il tutto con un approccio che mirava ad una ricostruzione storico- topografica dei complessi funerari. Attraverso lo scavo archeologico ‒ da lui per la prima volta utilizzato sistematicamente nelle indagini ‒ poté riportare in luce, in una quarantina di anni di attività, vasti settori delle catacombe, particolarmente quelli interessati dalla presenza dei sepolcri di martiri. Tali ricerche consentirono al De Rossi di identificare decine di necropoli sotterranee e di far luce così sull'intricata topografia del suburbio romano. Le scoperte straordinarie del De Rossi suscitarono un fermento notevolissimo di interessi: tra la fine dell'Ottocento e la prima metà del Novecento, grazie a varie figure di studiosi (E. Stevenson, M. Armellini, O. Marucchi, J. Wilpert, P. Styger, E. Josi), si intensificarono le ricerche e le scoperte nell'ambito delle catacombe romane, ma anche in quelle siciliane, napoletane, africane, maltesi, dove fu benemerita l'opera dei vari J. Führer, G.A. Galante, H. Achelis, E. Becker, A.F. Leynaud. Negli ultimi decenni del Ventesimo secolo i cimiteri sotterranei sono stati oggetto di studi sempre più attenti al dato materiale e condotti con moderni criteri di indagine: i lavori di A. Ferrua, S.L. Agnello, U.M. Fasola, L. Reekmans, F. Tolotti, P. Testini, H. Brandenburg, A. Nestori e di un'ultima generazione di studiosi hanno notevolmente ampliato le nostre conoscenze sull'argomento.
All'epoca delle prime scoperte del XVI-XVII secolo cominciò a diffondersi la curiosa credenza che le catacombe fossero luoghi di abitazione o di rifugio dei primi cristiani al tempo delle persecuzioni. Tale leggenda era alimentata dalla cattiva interpretazione di alcune fonti antiche: come i passi del Liber Pontificalis romano che alludevano al soggiorno di alcuni pontefici "nei cimiteri" (da intendere evidentemente nel significato più esteso del termine, comprendente le fabbriche del sopratterra: Lib. Pont., I, pp. 161, 207, 227, 305-306) o le notizie dell'uccisione, nel sopratterra dell'area callistiana, durante la persecuzione di Valeriano, il 6 agosto del 258, del papa Sisto II con i suoi diaconi in cimiterio (Cypr., Epist., 80). In realtà, le catacombe furono esclusivamente aree funerarie adibite alla sepoltura e al culto funerario dei membri delle prime comunità. La loro esistenza, come quella dei cimiteri di superficie, non può farsi risalire oltre la fine del II secolo. Concordemente, infatti, in quell'epoca, le fonti letterarie e le testimonianze monumentali collocano il primo apparire di aree funerarie collettive ed esclusive delle comunità cristiane. In Africa, a Cartagine, Tertulliano (Scap., 3, 1) ricorda la presenza, intorno al 203, di areae sepulturarum nostrarum, la cui proprietà da parte della comunità cristiana era fortemente osteggiata dalla plebe pagana. Lo stesso autore, nell'Apologeticum, scritto intorno all'anno 197, fa menzione dell'esistenza di una "cassa comune", creata in seno alla comunità, con i contributi mensili spontanei dei confratelli, per garantire anche ai più poveri una conveniente sepoltura (Tert., Apol., 39, 5-6). A Roma, più o meno negli stessi anni, troviamo la prima menzione di un'area collettiva: il ϰοιμητήϱιον di S. Callisto, al cui funzionamento il papa Zefirino (198-217) aveva preposto il noto diacono e futuro papa Callisto (Hippol., Philosoph., IX, 12). Per la prima volta, in questo documento, è attestato il termine greco ϰοιμητήϱιον per indicare l'area funeraria comunitaria cristiana: il significato letterale della parola, "dormitorio", esprime bene il concetto che i cristiani avevano della morte: quello di un riposo temporaneo in attesa della resurrezione (Chrysost., Coemet., 1). Ancora Ippolito, nella Tradizione Apostolica, conferma la prassi di un sovvenzionamento collettivo ai coemeteria, finalizzato a garantire la sepoltura ai più bisognosi (Trad. Apost., 40). Le testimonianze archeologiche, dopo la revisione critica delle cronologie degli ultimi decenni del XX secolo, concordano con le fonti nel porre più o meno negli anni alla fine del II secolo la nascita dei cimiteri cristiani. Prima di quell'epoca, sempre la documentazione archeologica mostra come i membri della nuova religione seppellissero i propri morti nelle comuni aree pagane, nei sepolcri famigliari o in quelli delle associazioni funeratizie. Tale antica prassi ha trovato a Roma le testimonianze più evidenti: l'apostolo Pietro fu sepolto nel 64 d.C. nella necropoli pagana esistente sul colle Vaticano; anche s. Paolo trovò sepoltura all'interno dell'area funeraria romana della via Ostiense. Forse già in età traianea ‒ sicuramente dalla seconda metà del II secolo ‒ tombe singole di cristiani si inserirono nel sepolcreto pagano che aveva rioccupato le cave di pozzolana e le pareti di un profondo cratere tufaceo esistente al terzo miglio della via Appia, sotto la basilica di S. Sebastiano. L'esigenza di disporre di aree funerarie esclusive della comunità dovette sopraggiungere allo scorcio del II secolo e fu motivata da vari fattori: dalla crescita numerica e organizzativa delle comunità (Hippol., Philosoph., IX, 12); dalla consapevolezza di costituire una collettività compatta e solidale, da conservare anche nel riposo della morte (Arist., Apol., 15, 5- 7; Tert., Apol., 39, 1-2); dalla volontà di disporre di spazi propri per la celebrazione dei riti funerari, in parte peculiari (preghiera per i defunti, messa funebre, ecc.: Mart. Polycarpi, 18, 2-3; Tert., Anim., 51; Cypr., Epist., 1, 2); dall'istanza caritativa e solidaristica che mirava a garantire a tutti, anche e soprattutto ai fratelli più poveri, una sepoltura cristiana (Arist., Apol., 15, 6; Tert., Apol. 39, 5-6; Hippol., Trad. Ap., 40). D'altra parte una maggiore capacità economica ed organizzativa delle comunità poteva ormai consentire la realizzazione e la gestione delle aree funerarie. Se i primi cimiteri comunitari furono, nei vari centri dell'Impero, normalmente a cielo aperto, a Roma e in altre regioni dell'Orbis si caratterizzarono per la loro natura sotterranea. La prassi di creare ambienti ipogei da adibire ad uso funerario non fu certo invenzione delle prime comunità cristiane di Roma: essa fu ben diffusa, come è noto, in varie civiltà e culture del mondo antico, specialmente laddove la natura del sottosuolo consentiva una agevole escavazione della roccia e una "tenuta" affidabile delle strutture sotteranee. Per restare nell'ambito romano e laziale, sepolcri ipogei più o meno vasti furono creati dagli Etruschi, dai Sabini e dagli stessi Romani. In questa area geografica la sepoltura sotterranea era straordinariamente facilitata dall'ottimo tufo locale, facile a lavorarsi e piuttosto affidabile staticamente. Dal II sec. d.C. l'incremento demografico e il diffondersi preponderante del rito dell'inumazione comportarono una sempre maggiore richiesta di spazi nel suburbio di Roma da adibire ad uso funerario e una conseguente, inevitabile lievitazione dei costi dei terreni. Per far fronte a questa nuova situazione alcune famiglie e associazioni funeratizie romane, tra la fine del I secolo e gli inizi del II, avevano nuovamente fatto ricorso alla sepoltura sotterranea, scavando piccoli ipogei al di sotto dei mausolei di superficie, singole tombe a camera, brevi gallerie. Lo sfruttamento del sottosuolo attraverso una razionale e intensiva utilizzazione degli ambienti forniva infatti la possibilità di incrementare notevolmente lo spazio per le inumazioni in una determinata superficie di terreno. Anche la comunità cristiana di Roma, quando alla fine del II secolo, per i motivi ricordati, avvertì la necessità di creare estese aree cimiteriali collettive, ricorse con naturalezza alla "scelta" ipogea, quella che garantiva la maggiore economicità all'impresa. La novità di una committenza numericamente rilevante e suscettibile di incrementi continui determinò le soluzioni strutturali originali, caratteristiche dei cimiteri sotterranei comunitari cristiani (le catacombe), quelle che fecero di questi monumenti ‒ sin dal loro primo apparire ‒ qualcosa di particolare e di esclusivo delle comunità cristiane. Già nelle più antiche regioni delle catacombe (benché ancora di estensione limitata), in effetti, si possono rilevare caratteristiche del tutto originali e innovative rispetto alle coeve aree funerarie ipogee non cristiane: l'estensione estremamente più vasta degli ambienti (costituiti da serie di gallerie concatenate e disposte secondo uno schema regolare), pianificazione di impianto finalizzata a prevedere, sin dall'inizio, la possibilità di successivi ampliamenti (contro gli schemi "chiusi" degli ipogei pagani); l'utilizzazione assolutamente intensiva e razionale degli spazi. Tali particolari strutturali "connotanti" sono presenti in molte delle più antiche regioni cimiteriali comunitarie di Roma collocabili cronologicamente tra la fine del II secolo e la prima metà del III. Nella cosiddetta Area I di Callisto, quella alla cui gestione era stato preposto, come si è visto, allo scorcio del II secolo l'omonimo diacono, un terreno di superficie di 75 × 30 m (250 × 100 piedi), delimitato da un recinto, fu occupato nel sottosuolo da un sistema di gallerie disposte "a graticola", costituito da due ambulacri principali paralleli, serviti da scale proprie, situati ai confini dell'area e raccordati da una serie di gallerie secondarie ortogonali, poste a distanze regolari. Tutto l'impianto fu evidentemente programmato sin dall'inizio prevedendo i successivi prolungamenti delle due gallerie matrici e l'apertura delle trasversali. Tombe a loculo disposte su pilae verticali occuparono tutto lo spazio a disposizione sulle pareti. Settori di tufo furono lasciati privi di sepolture sul fondo delle gallerie da prolungare e nei punti in cui era prevista l'apertura delle diramazioni. È evidente la volontà dei fondatori di realizzare in questo modo un cimitero collettivo di vaste dimensioni, dal carattere fortemente ugualitario (le sepolture sono tutte della medesima tipologia), capace di ospitare centinaia di inumazioni e suscettibile di continui ampliamenti. Solo successivamente, poco dopo il 235, cinque cubicoli furono aperti lungo una delle due arterie principali e nella prima delle diramazioni: essi costituirono i primi spazi "privilegiati", dotati di sepolcri più monumentali e spesso di una ricca decorazione pittorica (uno di essi ‒ la futura "cripta dei Papi" ‒ ospitò entro la fine del III secolo le tombe di ben nove vescovi di Roma). Al periodo in cui fu realizzata l'Area I si deve pure assegnare la fondazione di un altro cimitero cristiano comunitario: quello di Calepodio sulla via Aurelia, che accolse nel 222 la tomba di papa Callisto. Anche qui un'area sotterranea discretamente ampia si caratterizza per una serie multipla di gallerie, disposte "a pettine" lungo due arterie parallele, diramanti da una matrice in asse con la scala di ingresso. Come nell'Area I, semplici loculi occuparono razionalmente lo spazio a disposizione. Sulla via Salaria, a Priscilla, una vasta area per inumazioni collettive (la più vasta dell'epoca) fu ricavata in una cava di pozzolana abbandonata, costituita da decine di gallerie molto larghe, dal caratteristico profilo stondato e dall'andamento planimetrico irregolare. L'area, ben databile per gli elementi di arredo (epigrafi, bolli laterizi, pitture) ai primi decenni del III secolo, ospitò centinaia di loculi e alcune tombe più monumentali costituite da nicchioni in muratura contenenti sarcofagi marmorei, sistemati per lo più lungo una galleria alla quale introduceva la scala di accesso. Anche nella catacomba di Domitilla una regione tra le più antiche ‒ quella chiamata dei Flavi Aureli A ‒ presenta i caratteri strutturali finora evidenziati: serie di gallerie ortogonali (su cui si aprono pochi cubicoli) servite da una scala di ingresso e intensivamente occupate da loculi e tombe "a mensa". Nella catacomba di Pretestato sulla via Appia, sempre nei primi decenni del III secolo, due gallerie parallele, accessibili da due scale, si disposero, come nel caso dell'Area I callistiana, ai limiti estremi di un'area di superficie di 100 × 120 piedi, definita da un recinto in muratura. Dalle due matrici diramarono ortogonalmente numerose trasversali, che col tempo fuoriuscirono dai limiti dell'area. Un solo cubicolo (quello detto della coronatio) fu scavato in questa regione in un momento probabilmente successivo. Ancora un esempio di area collettiva di grande estensione, intorno alla metà del III secolo, ci viene dal sistema di gallerie "a spina di pesce" e "a graticola" che ospitò sulla via Tiburtina la tomba del martire Novaziano, probabilmente lo scismatico morto nella persecuzione di Valeriano del 257-258. L'area risulta perfettamente datata nei suoi sviluppi più precoci da ben cinque iscrizioni funerarie in situ riferibili agli anni 266 e 270. Tutte le tombe, salvo forse quella del martire (in origine, si pensa, una tomba "a mensa"), risultano del semplice tipo a loculo. Negli esempi riportati risulta dunque chiaramente la novità strutturale dei più antichi cimiteri sotterranei cristiani comunitari: la grande estensione, la programmazione degli impianti, lo sfruttamento intensivo e razionale dello spazio funerario. L'uniformità tipologica delle sepolture, rotta solo eccezionalmente, in alcuni casi, da piccoli spazi più esclusivi (i cubicoli) o da tombe monumentali (nicchioni, sepolcri a mensa), sembra in linea con l'ideologia fortemente ugualitaria propria della nuova religione. L'epigrafia di questi primi nuclei si allinea del resto con il carattere per lo più indifferenziato delle tombe: gli epitaffi registrano il solo nome dei defunti, raramente accompagnato da quello del dedicante o dall'augurio di pace; si omettono tutti quegli elementi biografici retrospettivi che caratterizzano l'epigrafia funeraria pagana contemporanea. Una scelta consapevole, un modo di collocare il fedele in una dimensione escatologica unificante, secondo i dettami più genuini di quella "risocializzazione" propugnata dal cristianesimo. Accanto a queste aree collettive, continuò, comunque, nel III secolo, l'uso di inumare entro ipogei di estensione più limitata e di carattere famigliare. La sepoltura nei cimiteri comunitari non fu infatti un obbligo per i fedeli: ce lo assicura anche un passo di Cipriano (Epist., 67, 6), dove si fa menzione di un vescovo che aveva fatto seppellire i propri figli apud profana sepulcra. Tali ipogei privati si modellarono strutturalmente, come è ovvio, su quelli pagani: lo mostrano gli esempi dell'area di Lucina sulla via Appia, il monumento degli Aureli presso viale Manzoni, i nuclei privati che troviamo talvolta alle origini delle catacombe (ad es., ipogei degli Acili e del criptoportico nella catacomba di Priscilla; ipogeo dei Flavi Aureli B a Domitilla; nuclei primitivi delle catacombe di S. Ermete, dei Giordani, di S. Tecla, dell'Anonima di via Anapo), da ritenere in alcuni casi dei fondatori dell'area collettiva. In effetti, il primo sorgere dei cimiteri sotterranei comunitari, salvo il caso dell'Area I di Callisto direttamente gestito dalla gerarchia ecclesiastica, sembra doversi ricollegare alla beneficenza privata, al fenomeno dell'evergetismo cristiano: un membro della comunità concedeva un terreno di sua proprietà (o forniva i mezzi finanziari per comprarlo) per l'escavazione dell'area funeraria collettiva; in essa egli collocava pure la sua sepoltura e quella dei membri della sua famiglia. Le denominazioni di molte catacombe romane (Domitilla, Priscilla, Commodilla, Pretestato, Trasone, Calepodio, Aproniano, ecc.) difficilmente possono trovare altra spiegazione da quella connessa con questo atto di fondazione privata. Le tombe dei fondatori potevano trovare posto in qualche spazio privilegiato dell'area (ad es., cubicolo della Coronatio nella regione della Scala Maggiore di Pretestato; cubicolo del Buon Pastore nella regione omonima di Domitilla), ovvero collocarsi in ipogei attigui, ma indipendenti (ad es., ipogeo degli Acili e del criptoportico in Priscilla; ipogeo A del nucleo primitivo del Coemeterium Maius; ipogeo B dei Flavi Aureli in Domitilla). Del resto, il sorgere dei primi cimiteri cristiani sotto l'impulso dell'evergetismo privato è attestato anche in Africa: le aree di Macrobio Candidiano (Acta Cypr., 5), di Tertullo e di Fausto a Cartagine tradiscono nella loro denominazione questa stessa origine. Il possesso dell'area funeraria doveva essere garantito dalle più elementari norme del diritto funerario romano. È certo del resto che la proprietà dei cimiteri da parte delle comunità cristiane fu tollerata e ammessa dall'autorità romana: lo provano il decreto di confisca emanato da Valeriano durante la persecuzione del 257-258 e quello della loro restituzione ad opera del successore Gallieno (Euseb., Hist. eccl., VII, 13).
Le prime aree funerarie sotterranee comunitarie e gli ipogei meno estesi dei fondatori, sorti nelle vicinanze o direttamente connessi con le prime, si svilupparono notevolmente nel corso del III secolo. Accanto a questi nuclei primitivi, già nella seconda metà del secolo, ma soprattutto a partire dalla pace religiosa (e dalla conseguente conversione al cristianesimo di masse sempre più numerose), sorsero nuove e più vaste regioni sotterranee. Lo sviluppo delle varie aree ipogee provocò col tempo il loro reciproco congiungimento, la creazione di quel fitto e continuo reticolo di gallerie ‒ di quel "labirinto" ‒ che caratterizza le catacombe nella loro fase più matura. Se Roma, come si sa, è il centro antico che conserva il numero maggiore di catacombe (oltre 60, per uno sviluppo complessivo di circa 150-170 km di gallerie), cimiteri sotterranei di carattere cristiano sono attestati anche in altre regioni dell'Italia: in Toscana, Umbria, Abruzzo, Lazio, Campania, Basilicata, Puglia, Sicilia e Sardegna. Fuori d'Italia alcune catacombe più o meno estese sono documentate in Africa (ad Hadrumetum, Sabratha, ecc.), nell'isola di Malta e in quella di Milo in Grecia. Non di rado all'origine dei cimiteri sotterranei troviamo lo sfruttamento di ambienti preesistenti. Vaste regioni delle catacombe romane (ad es., quelle di Priscilla e Commodilla) riutilizzano antiche cave di pozzolana (arenari) in disuso. Le larghe e tortuose gallerie che compongono questi complessi si prestavano egregiamente, infatti, con pochi, eventuali lavori di adattamento (regolarizzazione degli ambienti, creazione di una scala di accesso, sostegni murari), all'inserimento di un'area funeraria con l'apertura di loculi sulle pareti. Anche i cunicoli idraulici, così diffusi nelle campagne per bonificare i terreni o per costituire riserve d'acqua, vennero spesso riutilizzati nell'impianto delle catacombe. Talvolta, come nel caso del cimitero Ad Vicesimum presso Morlupo (Roma), le gallerie idrauliche, particolarmente larghe, furono rioccupate senza particolari trasformazioni; più di sovente, invece, i cunicoli vennero allargati e modificati fino a divenire vere gallerie cimiteriali, come mostrano gli esempi delle regioni I-Y della catacomba di Marcellino e Pietro, quello del settore H della catacomba di Ippolito e, in modo macroscopico, il caso del cimitero siracusano di S. Giovanni, dove la galleria matrice risulta interamente realizzata allargando un lunghissimo condotto d'acqua; il riutilizzo di impianti idraulici nelle catacombe pare attestato a Roma anche a livello letterario dalla Passio dei martiri Crisanto e Daria della via Salaria (Acta Sanctorum, Octobris, XI, Parisiis et Romae 1870, p. 481). Non è infrequente, inoltre, incontrare nello scavo delle catacombe il riadattamento di ambienti funerari ipogei più antichi, come prova l'esempio della catacomba di S. Antioco in Sardegna, frutto dell'unione di una serie di ipogei punici preesistenti. L'accesso ad una catacomba avveniva, di norma, attraverso una scala (descensus, Diehl, 1774; gradus, Lib. Pont., I, p. 181, secondo la dizione antica testimoniata da fonti letterarie ed epigrafiche); più raramente, ove la morfologia del terreno lo consentiva, all'area ipogea si poteva pervenire attraverso un ingresso situato in piano, alle falde di un rilievo o di una collinetta, come nel caso della catacomba di S. Valentino a Roma o in quelle dell'Etruria Meridionale e di S. Gennaro a Napoli. L'ingresso poteva essere preceduto da un vestibolo di ingresso, un piccolo casotto o una struttura di più ampie dimensioni, come quella rinvenuta all'imbocco della Spelunca Magna di Pretestato. L'esistenza di vestiboli di ingresso è documentata a Roma anche a livello letterario nei casi dei cimiteri di S. Ippolito (Prud., Perist., XI, 157-158) e, probabilmente, di S. Ermete. Ai piedi della scala si sviluppava il reticolo di gallerie e di cubicoli. A Roma, questo si articola secondo schemi planimetrici piuttosto regolari. I più documentati, sin dal III secolo, sono quelli detti "a spina di pesce" e "a graticola". Nel primo caso, ai lati di una galleria matrice, in asse o ortogonale alla scala, diramano ad angolo retto, affrontate, numerose altre gallerie (ad es., Novaziano, piano inferiore di Panfilo e di Priscilla, regione X di Marcellino e Pietro). Nel secondo, due ambulacri paralleli, posti ad una certa distanza e talvolta serviti da scale autonome, sono raccordati da trasversali ortogonali (ad es., Area I di Callisto, Cimitero Maggiore). Dall'età costantiniana venne anche adottato uno schema planimetrico a galleria "a maglie larghe", finalizzato a consentire l'apertura sistematica di cubicoli, talvolta di grandi dimensioni. Impianti più irregolari, caratterizzati da gallerie ad andamento tortuoso, talvolta di estensione molto limitata, sono attestati normalmente nelle catacombe di campagna e in quelle dei centri minori (ad es., nel Lazio), dove manca uno schema preordinato di impianto e lavoravano maestranze meno abituate all'escavazione sotterranea. Nelle catacombe di S. Caterina a Chiusi, in quelle di Falerii Novi, Nepi e Sutri nell'Etruria Meridionale, nel cimitero di S. Gennaro a Napoli, in quello di S. Lucia di Siracusa sono attestati schemi "a gallerie parallele" originate da vestiboli d'ingresso, talvolta (come nel caso di Napoli) anche molto ampi. A Venosa e a Canosa i complessi catacombali risultano costituiti da più gallerie indipendenti, aperte, l'una accanto all'altra, sui crinali di una collina. Numerosi ipogei vicini, di limitata estensione, danno vita agli insiemi cimiteriali dell'isola di Malta. A Siracusa e nelle catacombe africane il reticolo di gallerie si sviluppa più o meno regolarmente secondo assi ortogonali. Le gallerie, denominate dagli antichi cryptae (Diehl, 2128, 2149, 2152-54, 334; supra), risultano a Roma alte mediamente 2-3 m e larghe dagli 80 ai 150 cm. In alcune catacombe dell'Etruria Meridionale, in quelle di S. Gennaro a Napoli e di S. Giovanni a Siracusa, raggiungono i 4-5 m di larghezza. Il soffitto, generalmente piano, nelle regioni più antiche delle catacombe romane è talora conformato a volta a botte ribassata, con superficie finemente levigata. Ambienti più esclusivi, adibiti spesso a sepolture di carattere famigliare, sono i cubicoli (cubiculum nelle iscrizioni e nei testi antichi: Diehl, 3458; ICUR, VI, 15525; Lib. Pont., I, p. 162), sorta di cappelle funerarie che si aprivano lungo le gallerie. Dotati talvolta di porte o altro genere di chiusura, essi, nelle regioni più antiche, risultano generalmente di forma quadrata, piccoli e coperti da soffitto piano (vi si aprono esclusivamente tombe a loculi o "a mensa"); nelle aree del IV secolo si caratterizzano per piante più monumentali e articolate: rettangolari, absidate, poligonali, circolari, ecc. Costituiti talvolta da più vani collegati, i cubicoli accolgono arcosoli e nicchioni funerari e risultano coperti spesso a volta a botte, a crociera, talvolta a cupola. Non di rado elementi architettonici risparmiati nel tufo, come colonne, architravi, cornici, nicchie, mensole, ecc., conferiscono a questi ambienti notevole monumentalità, rivelando la loro derivazione tipologica dai mausolei del sopratterra. Nelle catacombe di S. Giovanni a Siracusa e in quelle di Agrigento sono attestati alcuni ambienti circolari (le cosiddette "rotonde") veramente imponenti, che raggiungono anche i 10 m di diametro. Sono i cubicoli, utilizzati di norma da fedeli di maggiori possibilità economiche, gli ambienti che ospitano più frequentemente ricche decorazioni pittoriche, mosaici, rivestimenti marmorei, ornamenti ad opus sectile. Il tipo di sepoltura più comune e diffuso, sia nelle gallerie che nei cubicoli, è il loculo (locus, τόποϚ, secondo la denominazione antica: De Rossi 1864-77, III, pp. 411-13), cavità rettangolare aperta sulle pareti nel senso della lunghezza e sistemata in serie sovrapposte su pilae verticali (Diehl, 2154). A seconda delle salme che conteneva, il loculo poteva essere monosomus, bisomus, trisomus, quadrisomus (Diehl, index, p. 546). Nelle aree più antiche, tali tombe sono normalmente ben ordinate sulle pareti e intervallate da ampi diaframmi di tufo; in quelle del IV secolo (quando lo spazio per le inumazioni era più richiesto) divengono maggiormente serrate e disposte in maniera più irregolare. I loculi di bambini occupano spesso gli angoli degli ambienti, onde evitare, in quelle zone staticamente "critiche", l'apertura di cavità troppo ampie. In alcune regioni delle catacombe romane (ad es., a Commodilla, nell'Anonima di via Anapo, nell'Anonima della via Aurelia e soprattutto nelle catacombe ebraiche) sono documentati alcuni esempi di loculi "a forno", cioè con apertura situata sul lato corto. La chiusura dei loculi è costituita, nella stragrande maggioranza dei casi, da lastre marmoree o fittili fermate alla roccia sui bordi con uno strato di calce. Più raramente ‒ per esempio nelle catacombe del Lazio o in quelle ebraiche ‒ sono attestate chiusure consistenti in muretti intonacati, ovvero da tegole rivestite nel lato in vista da uno strato di malta. Tali chiusure potevano costituire il supporto delle iscrizioni funerarie: queste erano incise sulle lastre marmoree, dipinte sulle tegole o sulla malta che rivestiva le lastre fittili o i muretti, oppure tracciate a sgraffio nei medesimi supporti morbidi o nella malta disposta lungo i bordi delle chiusure. Spesso accanto a queste tombe più umili furono collocati oggetti particolari, dalla tipologia più svariata, come lucerne, piccoli recipienti vitrei o ceramici, vetri dorati, monete, elementi di corredo personale (orecchini, braccialetti, collane, pendagli, cerchietti, ecc.), conchiglie, paste vitree, oggetti d'osso, giocattoli di bambini (bambole, campanelli), ecc. La funzione di tali oggetti, che si è ritenuto fosse quella di contrassegnare e distinguere le tombe anonime, fu anche, talvolta, quella di costituire un richiamo simbolico al refrigerio, alla luce, alla protezione della tomba, nonché di ornare in modo elementare i sepolcri, di corredarli di oggetti cari ai defunti. Sepolcri più monumentali furono le cosiddette "tombe a mensa" e gli arcosoli. Le prime, caratteristiche a Roma delle regioni più antiche, consistono in una fossa chiusa mediante una lastra orizzontale (la mensa), sormontata da una nicchia quadrilunga. L'arcosolio (arcisolium, secondo l'antica denominazione: Diehl, 2132, 2135, 3458), molto più diffuso, prevede l'apertura, al di sopra della fossa (sempre chiusa con una "mensa"), di una nicchia arcuata; le fosse possono contenere più tombe sovrapposte oppure affiancate; nelle catacombe siciliane e in quelle dell'isola di Malta si possono incontrare arcosoli contenenti fino a venti o più arche disposte nel senso della lunghezza. Furono le tombe ad arcosolio quelle più frequentemente decorate con pitture e più spesso utilizzate nei cubicoli. Rare le nicchie arcuate contenenti sarcofagi (alla maniera dei mausolei pagani), attestate nelle gallerie ma più spesso nei cubicoli. Diffuse in ogni ambiente invece le formae pavimentali (anche a più piani), chiuse con lastre marmoree o fittili disposte orizzontalmente o "a cappuccina". Sepolcri particolari devono considerarsi le tombe a pozzo, scavate sul suolo delle gallerie, occupate nelle pareti da loculi sovrapposti e nel vuoto centrale da sepolture a più strati; i nicchioni funerari, costituiti da ampie nicchie arcuate contenenti loculi sulla parete di fondo e formae sul piano pavimentale; le tombe a cassa muraria, sistemate nei cubicoli o in spazi più ampi; i sepolcri a baldacchino, tipici delle catacombe siciliane e di quelle maltesi, caratterizzati da copertura a volta o a tetto piano, retta da quattro supporti angolari, sormontante un sarcofago ricavato nella roccia e sporgente dal piano; i sepolcri a finestra, caratteristici dell'isola di Malta, consistenti in una cameretta per due o più sepolture, aperta sulle pareti attraverso una finestra quadrata di piccole dimensioni; le tombe a "kokhim", tipiche dei cimiteri sotterranei ebraici, costituite da vani rettangolari, spesso per più sepolture, aperti, con il lato corto in vista, nella parte inferiore degli ambienti. All'interno dei cubicoli, ma anche nelle gallerie, furono in alcuni casi sistemate strutture ricollegabili al rito funerario del refrigerio: banchi, sedili, mense circolari, veri letti tricliniari disposti intorno a mense semicircolari (nelle catacombe di Malta), cattedre funerarie, simbolo della presenza invisibile del defunto. Anche i pozzi, frequentemente documentati nei cimiteri sotterranei, dovettero, tra l'altro, servire alle necessità legate ai riti funerari. Per l'illuminazione e l'aerazione degli ambienti erano utilizzati i lucernari (luminaria, foramina, nei testi e nelle iscrizioni antiche: Diehl, 3334, 3458, 3757, 3805; Hier., In Ezech., XII, 40; Prud., Perist., XI, 161-162), pozzi generalmente quadrati che raggiungevano la superficie dopo un percorso anche di molti metri; la loro funzione primaria, al momento dello scavo delle catacombe, doveva essere quella di consentire la fuoriuscita delle terre estratte. Lo spazio a disposizione all'interno dei cimiteri sotterranei poteva essere ampliato approfondendo il piano delle gallerie (che raggiungevano in alcuni casi i 5-6 m di altezza), ovvero creando altri livelli sotto o sopra quelli originari; in alcune catacombe romane (ad es., Ciriaca, catacomba dei Giordani) furono realizzati fino a cinque piani sovrapposti. L'enorme lavoro di scavo era compiuto da operai scelti, i fossori. Ai più specializzati di essi era anche affidata la decorazione dei sepolcri e l'esecuzione degli epitaffi. Caratteri strutturali spesso diversi da quelli dei cimiteri sotterranei comunitari presentano quelle catacombe utilizzate da gruppi famigliari che preferivano una sepoltura più esclusiva. Tali aree "di diritto privato" si caratterizzano normalmente per la limitata estensione, nonché per la scarsità delle tombe, per l'eleganza dell'architettura, per la ricchezza e l'originalità della decorazione pittorica. Nel più celebre di questi cimiteri, quello scoperto nel 1955 a Roma in via Dino Compagni, assegnabile circa agli anni 320-390, quasi tutti gli ambienti risultano ornati da affreschi. Questi, accanto a temi biblici formulati con iconografie talvolta inconsuete, rappresentano scene del tutto nuove, in qualche caso anche tratte dal repertorio mitologico. Tali rappresentazioni sembrano testimoniare la presenza nell'ipogeo, accanto a gruppi totalmente cristiani, di nuclei familiari non ancora convertiti alla nuova religione. Un fenomeno che risulta attestato anche in altre aree funerarie private (ad es., nella piccola catacomba di Vibia, sulla via Appia, che ospita, oltre a sepolture di cristiani, quelle di alcuni adepti del culto di Mitra e Sabazio) e che trova giustificazione proprio nel carattere familiare di queste aree. La committenza particolarmente facoltosa e svincolata da condizionamenti spiega, d'altro canto, la qualità e l'originalità delle decorazioni, riscontrabili anche in altri cimiteri di diritto privato, come in quelli degli Aureli, dei Cacciatori, di Trebio Giusto e di Villa Cellese.
Spazi di particolare importanza nelle catacombe comunitarie furono quelli che ospitarono le tombe dei martiri. Le sepolture di questi defunti particolari, precocemente oggetto di culto da parte delle comunità, vennero, a partire dalla pace religiosa, specialmente curate ed abbellite. Gli ambienti in cui tali sepolcri si trovavano furono decorati con affreschi e rivestimenti marmorei; presso le tombe si sistemarono mense circolari per le offerte funebri, altari per le celebrazioni eucaristiche che vi si tenevano nelle ricorrenze del dies natalis dei martiri; i sepolcri vennero monumentalizzati da cibori o da prospetti architettonici costituiti da lastre ad arco o architravi, sostenuti da pilastri o colonne; in essi si inserirono epigrafi celebrative, come quelle fatte eseguire a Roma da papa Damaso (366-384), nelle quali si magnificavano le gesta dei santi. Non di rado, per illuminare convenientemente le tombe venerate, furono aperti nuovi lucernari; scale più ampie e comode sostituirono quelle anguste primitive, facilitando la frequentazione dei visitatori. La credenza che la vicinanza del sepolcro di un martire comportasse per i defunti ‒ grazie all'intercessione del santo ‒ un qualche beneficio ai fini della ricompensa eterna, rese assai richiesti gli spazi situati in vicinanza di un sepolcro venerato. Il ruolo della preghiera, che il defunto riceveva nelle orazioni che lo raccomandavano al martire, doveva costituire un elemento decisivo nella scelta di una sepoltura ad sanctos (Aug., Cur. Mort., 5). Le cripte venerate si affollarono così di sepolcri; intere nuove regioni vennero scavate nelle vicinanze, quali vere aree retrosanctos (Diehl, 2153; ICUR, IX, 24841). Queste zone si caratterizzano spesso per la presenza di sepolcri particolarmente monumentali, testimonianza evidente di un più elevato livello sociale degli utenti. A partire soprattutto dal VI secolo, quando sempre più forte divenne l'esigenza di celebrare la messa sulle tombe dei martiri, vere basiliche ad corpus sorsero in sostituzione degli angusti ambienti ipogei che le avevano fino ad allora ospitate. Tali chiese si adattarono alle strutture preesistenti e risultarono, pertanto, di frequente irregolari e disorganiche. Altari di nuova costruzione, situati nelle zone absidali, sorsero sopra le tombe. Grandi scale permisero l'accesso diretto e più comodo ai fedeli e ai pellegrini sempre più numerosi che si apprestavano alle nuove basiliche ipogee. Per rendere più scorrevoli e razionali le visite si allestirono veri "percorsi obbligati" (itinera ad sanctos: ICUR, II, 4753), che, attraverso sbarramenti ed "inviti", incanalavano i pellegrini lungo direttrici preordinate, dotate all'inizio e al termine del percorso di scale di entrata e di uscita (gradus ascensionis et descensionis: Lib. Pont., I, p. 181). Testimonianze di questo pellegrinaggio sotterraneo sono le centinaia di graffiti tracciati dai devoti lungo le gallerie e soprattutto nelle cripte venerate.
L'ultima frequentazione delle catacombe è in effetti legata alla trasformazione di alcuni settori di esse in santuari martiriali. Già nei primi decenni del V secolo, infatti, esse avevano dismesso il loro ruolo ordinario di cimiteri. Sepolture sporadiche continuarono ad essere praticate, fino al VI e al VII secolo, solo negli spazi "privilegiati" delle cripte venerate. La frequentazione di queste a scopo devozionale continuò più o meno ovunque, con le modalità ricordate, fino all'Alto Medioevo. A Roma le guerre gotiche della metà del VI, l'incursione dei Longobardi di Astolfo del 756 e quella, infine, dei Saraceni dell'846 provocarono gravissimi danni ai cimiteri del suburbio, posti in un territorio sempre più spopolato e lontano dalla città. Dopo la devastazione di Astolfo, alcuni di essi, come ricorda una lettera di Paolo I, erano ridotti a stalla. Ai ripetuti danni posero rimedio, nei vari secoli, gli interventi di restauro dei papi: Vigilio (537-555), Adriano I (772-795), Leone III (795-816); soprattutto Adriano fu impegnato in questo particolare lavoro di ripristino. Ma già alla metà del VII secolo, l'impossibilità di garantire una manutenzione idonea dei santuari ipogei aveva suggerito, sporadicamente, un provvedimento più radicale per salvare i corpi venerati: quello di trasportarli entro la città, nelle chiese urbane. Se queste traslazioni ebbero ancora carattere episodico durante i pontificati di Teodoro (642-649) e Leone II (682-683) e soprattutto furono mirate ai santuari più lontani e meno protetti, divennero una pratica sistematica sotto il pontificato di Paolo I (756-767) e dei papi della prima metà del IX secolo quali Pasquale I (817-824), Sergio II (844-847) e Leone IV (847-855). Privati dell'oggetto primario della loro frequentazione, i santuari delle catacombe caddero nell'oblio. Solo alcuni di essi sopravvissero ancora per qualche tempo alla traslazione dei corpi dei loro martiri, come mostrano i documenti archeologici e come è attestato da alcune fonti letterarie (Lib. Pont., II, p. 161). Restarono accessibili durante tutto il Medioevo, come si è visto, unicamente quei settori delle catacombe connesse con le basiliche martiriali che conservavano ancora gelosamente al loro posto le spoglie dei martiri eponimi. Per il resto, l'abbandono e l'oblio, fino alla "rinascita" della fine del Cinquecento.
In generale:
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di Francesca Romana Stasolla
Il contributo delle indagini archeologiche per la conoscenza dei rituali funebri di età postclassica assume una particolare rilevanza, vista la carenza di fonti letterarie a fronte della commistione di popolazioni che caratterizzò il periodo tardoantico e altomedievale nell'Europa centro-occidentale e successivamente nel Nord Africa. Proprio le ricerche archeologiche hanno evidenziato quanto poco aderente alla realtà fosse la tradizione che voleva la semplificazione dei riti e l'abbandono del corredo in concomitanza con l'avvento e la diffusione del cristianesimo. In realtà, proprio le usanze legate al mondo dei morti si sono rivelate particolarmente conservatrici e, sia pure avvolte da significati differenti, hanno continuato a permanere; l'archeologia le documenta almeno fino al VII-VIII secolo, quando di norma cessa l'uso del corredo, per poi riprendere solo a partire dall'XI. Il tracciante archeologico assume poi enorme importanza nello studio dei movimenti migratori; l'analisi dei manufatti ‒ soprattutto elementi di ornamento personale ‒ delle popolazioni germaniche, noti quasi esclusivamente da ritrovamenti tombali, ha consentito in prima istanza l'identificazione etnica dei defunti, elemento di particolare interesse nei casi in cui le fonti letterarie tacciono o sono lacunose e i repentini passaggi nei centri urbani non hanno lasciato resti monumentali. Le tracce dei rituali funebri hanno consentito di cogliere nei dettagli quei processi di acculturazione che le conversioni di massa e la costituzione di talora effimeri regni "barbarici" lascerebbero altrimenti intendere nei termini dei mutamenti improvvisi e che la realtà della documentazione archeologica rivela invece come ovviamente graduale. Così, è stato possibile ricostruire i percorsi migratori di popolazioni che non hanno lasciato altre tracce materiali se non le spoglie dei loro defunti ‒ e i relativi corredi ‒ e di riconnettere a queste sepolture altri elementi da soli troppo labili, come quelli toponomastici e linguistici. Altrove, ad esempio nella Spagna visigota, lo studio è così avanzato da consentire una ricostruzione cronologica molto più puntuale per gli invasori che per le popolazioni autoctone, presso le quali continuavano a valere le costumanze di tradizione romana e bizantina. La prassi della preparazione del corpo del defunto non divergeva dagli usi romani, cui va aggiunta la consuetudine di celebrare l'eucarestia. Il rito principale ‒ e quello che a livello archeologico ha maggiore visibilità ‒ che accompagnava la deposizione era il pasto funebre (refrigerium), che i partecipanti consumavano in onore del defunto e a cui questi idealmente partecipava. Tale rito era ben noto per il mondo romano, nel quale erano stabiliti giorni precisi dedicati alla commemorazione dei defunti, e venne ripreso anche dagli adepti al cristianesimo. Si tratta di un'usanza combattuta invano da alcuni Padri della Chiesa, soprattutto nei suoi eccessi, ma largamente in uso, sia pure in forme via via differenti, ancora nel periodo altomedievale. In realtà in ambito cristiano questo rito assume sfumature di significato diverse. Innanzi tutto viene celebrato il dies natalis, cioè il giorno della morte terrena e della nascita alla vera vita, in una cerimonia che diventa collettiva in connessione con i culti martiriali. Le testimonianze iconografiche mostrano come l'avversione nei confronti del refrigerium che si evince da alcune fonti letterarie non avesse un serio riscontro nella pratica; esistono infatti numerose testimonianze epigrafiche che, accanto al vario uso del termine refrigerare, riportano immagini allusive, come la colomba con il ramoscello d'ulivo nell'iscrizione del cimitero di Domitilla a Roma accanto alla raffigurazione di Cristor che compie il rito in onore della figlia defunta. Le immagini di banchetti che pure ricorrono nella pittura cimiteriale sono state a lungo oggetto di discussione, nel dubbio cioè che rappresentassero refrigeri simbolici o meno. La ricerca archeologica, soprattutto negli ultimi decenni, ha evidenziato il permanere e la portata del rito in modo diffuso, così che sono stati riletti in chiave realistica anche i numerosi passi di autori cristiani che alludono alla pratica. In particolare, si nota nelle fonti il tentativo di dare un significato cristiano alle pratiche che non si riusciva a debellare. Ad esempio Agostino d'Ippona proprio dall'Africa, regione dove tali tradizioni erano particolarmente sentite, afferma: Sacrificia mortuorum nos vertimus in agapes... Agapes enim nostrae pauperes sive frugibus, sive carnibus (Epist. XXIX, 2). Lo stesso autore, nelle Confessioni, riporta le abitudini della madre Monica di celebrare i riti commemorativi, sicut in Africa solebat. L'organizzazione di celebrazioni comunitarie ricorre anche nei canoni conciliari di VI secolo, come ad esempio in quello di Tours che afferma: in festivitate cathedrae sancti Petri apostoli cibos mortui offerunt. L'associazione di significato ‒ celebrazione reale e rito simbolico ‒ appare evidente nel tumulo musivo della necropoli di Matarés a Tipasa, che su un tappeto con scena marina e pesci reca la scritta Pax et concordia sit convivio nostro, nella probabile voluta ambiguità della duplice interpretazione. Nei cimiteri cristiani di ambito mediterraneo, soprattutto del Nord Africa e della Spagna, ma anche in Sicilia, come attesta la necropoli tardoantica di Agrigento, sono state rinvenute numerose strutture, intonacate o coperte da mosaico, poste tra le tombe, interpretate come mense, utilizzate proprio per la celebrazione dei riti funebri. Più di recente, lo studio analitico di tali strutture nella necropoli sarda di Cornus ha consentito ad A.M. Giuntella (1985) di rileggere le testimonianze esistenti nel Mediterraneo occidentale anche alla luce dei frequenti strati di "terre nere" con molti materiali organici, resti di pasto e numerosissimi frammenti ceramici e vitrei spesso rinvenuti in ambito funerario ed abitualmente letti come generici scarichi. L'analisi di tali stratigrafie ha evidenziato la presenza, accanto a scarti di cibo, di manufatti vitrei e ceramici sottoposti a rottura intenzionale, testimonianza inconfutabile di un pasto non solo simbolico, ma reale, articolato in più portate, con uso di vasellame da mensa anche di pregio che, entrato in contatto con il mondo dei morti, non veniva più utilizzato dai vivi. Parallelamente, la rilettura delle fonti patristiche ha consentito di trovare spiegazione anche ai piccoli focolari che vengono rinvenuti tra tomba e tomba, da riconnettere all'uso diffuso di scaldare vino e bevande proprio in occasione di tali riti, consentendo quindi di leggere le raffigurazioni di scene conviviali conservatesi per lo più in ambito catacombale in chiave assolutamente realistica. L'attenzione prestata dagli studiosi a questo fenomeno è quindi cresciuta, così da farne un argomento di grossa rilevanza negli studi di archeologia funeraria postclassica e da costituire ormai un dato acquisito nell'analisi dei contesti cimiteriali. Le strutture del refrigerium possono prevedere piccole mense intonacate, rettangolari, semicircolari e solo occasionalmente a sigma, nei pressi di una o più sepolture, come anche costruzioni in muratura o parzialmente in legno funzionali alla celebrazione comunitaria del rito. In realtà, sino alla fine del III secolo le mense sono generalmente collegate a singole sepolture, mentre successivamente a questa data nascono come impianti collettivi, oppure vengono modificate ed ingrandite al fine di congiungere più tombe, presumibilmente per influsso del culto cristiano. Ci si avvia cioè alla creazione di spazi privilegiati per il culto e la memoria, che in alcuni casi ‒ ed è questo quello ben studiato di Cornus ‒ potevano essere dotati di un pozzo e un forno, ad ulteriore conferma dello svolgersi effettivo del pasto funebre e della complessità delle attrezzature. A Roma la precocità della diffusione del cristianesimo e lo sviluppo dei culti martiriali hanno contribuito al moltiplicarsi delle strutture rituali, anche se la sequenza delle fasi architettoniche e delle ristrutturazioni ha spesso reso difficile la lettura delle forme originali. Sono però riconducibili alla pratica del refrigerium, ad esempio, le diverse fasi dell'ipogeo dei Flavi nella catacomba di Domitilla, la Cappella Greca in quella di Priscilla, oltre alla triclia legata alla memoria Apostolorum che celebrava Pietro e Paolo presso il cimitero ipogeo di S. Sebastiano. La massima diffusione delle strutture per i pasti funebri è però attestata in Nord Africa e nella Penisola Iberica, sia con la presenza di iscrizioni allusive al rito che di mense rettangolari, a sigma, ad U, ad esempio nelle necropoli di Tipasa e in quella di S. Fructuoso a Tarragona, anche in relazione a spazi appositamente recintati per un più tranquillo svolgersi della celebrazione. In altri casi, le lastre di copertura dei tumuli e delle mense recano memoria della composizione del pasto funebre, con la teoria delle stoviglie e dei cibi (lastra di Timgad), in altri alle mense sono associati impianti di raccolta e di deflusso delle acque (Tipasa, necropoli di Matarés). Rinvenimenti in Nord Africa attestano anche la probabile presenza di triclini per la consumazione del pasto. I riti del refrigerium venivano poi svolti nelle chiese funerarie, quali ad esempio le basiliche circiformi del suburbio romano, di età costantiniana o immediatamente successive, come fossero grandi cimiteri coperti, o in impianti ad esse collegate. È questo ad esempio il caso della cosiddetta "abside occidentale", edificata a ridosso della basilica di S. Felice a Cimitile e, come attestato dal ritrovamento di depositi archeologici, voluta proprio per la celebrazione dei pasti rituali che lo stesso Paolino da Nola menziona in occasione della festa del martire. In altri casi, le stesse basiliche votate al culto martiriale potevano ospitare negli spazi annessi i partecipanti al rito, come ad esempio nel noto banchetto offerto da Pammachio a cento poveri nell'atrio di S. Pietro a Roma per commemorare la memoria della moglie. Il defunto partecipava appieno a questi riti, con modalità varie. In qualche caso veniva immaginato al di fuori del sepolcro, nel gruppo dei convitati, magari al posto d'onore, come sembrerebbe attestato ad esempio dalle cattedre scavate nel tufo della catacomba che va sotto il nome di Coemeterium Maius a Roma e da quelle della necropoli ipogea di Hadrumetum in Africa, cattedre troppo strette per essere utilizzate da una persona e nelle quali si è quindi voluto vedere appunto il posto del defunto. In altri casi, la presenza di fori nelle lastre di copertura delle tombe o di colli d'anfora infissi nei tumuli all'altezza della testa dell'inumato è stata riconnessa all'usanza di immettere cibo e bevande all'interno delle sepolture, mentre una costante è la presenza di piccoli depositi per offerte di cibo accanto alle mense. Al permanere dell'uso dell'offerta alimentare rituale va ricollegata la presenza di recipienti ceramici e vitrei all'interno delle sepolture, confermata dal rinvenimento in alcuni di essi di grani di cereali, ossa animali e resti di cibo. In certi casi, è stata notata la presenza di cibo all'interno delle sepolture anche in assenza di recipienti atti a contenerlo, segno che l'offerta alimentare prevedeva recipienti deperibili o non li prevedeva affatto, dato questo comune pure a popolazioni di origine germanica. A partire dal IV secolo è attestato l'uso di deporre l'Eucarestia nella bocca del defunto, uso condannato invano da numerosi concili. Abbastanza diffusa nelle tombe tardoantiche e altomedievali è la presenza di carboni all'interno delle sepolture, in merito alla quale sono state fatte svariate ipotesi, quali l'accensione di fuochi rituali, forse con intenti purificatori, la deposizione di arbusti profumati o di ceneri del focolare domestico. Resti di focolari sono frequentemente stati rinvenuti anche all'esterno delle tombe; a ciò si collega spesso la compresenza di contenitori ceramici con tracce di combustione trovati all'interno delle sepolture, dato questo che li ha fatti mettere in relazione con il rituale del refrigerium, oppure, secondo un'altra ipotesi meno agevole (Peduto 1984), sarebbero gli stessi contenitori utilizzati nel corso del rito del battesimo, conservati per tutta la vita a collegamento tra la nascita spirituale e la "rinascita" alla vita eterna. L'offerta alimentare è comune sia alla popolazione romanza che alle sepolture germaniche (ad es., nel sepolcreto longobardo di Nocera Umbra) ed è spesso accomunata dalla presenza dell'offerta monetale. La presenza monetale nelle aree funerarie assume la duplice valenza di obolo-viatico posto all'interno della tomba, in ricordo dell'obolo a Caronte, e di obolo-offerta all'esterno di essa, ad attestazione di una doppia ritualità che ha consentito di recente (Giuntella - Amante Simoni 1992) di rivalutare l'elemento cronologico offerto dal reperto numismatico. Infatti, appare ormai chiaro come in molti casi venissero utilizzate a questo scopo monete fuori corso (ad es., nella già citata necropoli paleocristiana di Cornus, in Sardegna, in sepolture di VIVII sec. sono presenti monete puniche), che quindi costituiscono solo un ovvio e vago elemento post quem per la datazione delle necropoli. Stesso valore quanto alla cronologia ha il reperto monetale quando costituisce parte di un ornamento, ad esempio al posto di un vago di collana, secondo un uso diffuso soprattutto tra le popolazioni germaniche, che talora in questo modo tesaurizzavano parte dei profitti derivanti dalle largizioni ottenute in qualità di foederati dell'Impero. Tali monete ovviamente presentano una datazione più alta rispetto a quella della sepolture, soprattutto nel caso di corredi di modesta levatura, mentre in quelli più ricchi la cronologia della moneta è più vicina a quella del suo corso legale. L'oboloviatico rimanda al permanere della tradizione dell'offerta a Caronte ed è posto generalmente nel cavo orale, anche se, in uno o più esemplari, può essere posto fra le dita della mano (ad es., a Nocera Umbra, a Cornus); dal punto di vista cronologico, è in genere una datazione più antica rispetto all'obolo- offerta. La presenza della moneta con questa accezione continua per tutto il periodo altomedievale per giungere in alcuni casi sino al pieno Medioevo: è questo il caso ad esempio della mummia naturale di S. Zita a Lucca, appartenente ad un individuo morto nel 1278, per la quale l'esame radiologico ha evidenziato la presenza di una moneta originariamente posta nella bocca. L'obolo all'esterno della sepoltura ha un valore analogo a quello delle altre offerte e può ricorrere in svariati esemplari, sovente di corso legale. Nei cimiteri postclassici ricorre la massiccia presenza di lucerne e di lampade vitree, insieme con i loro portalampade, utilizzate senza dubbio per l'illuminazione, ma probabilmente anche per la loro valenza simbolica. I riferimenti alla luce sono numerosi nelle fonti ed evidenti nell'indagine archeologica per i ritrovamenti presso le sepolture. Non lasciano dubbi di interpretazione le lucerne murate all'esterno dei loculi in catacomba, non utilizzabili nella loro funzione primaria, ma inserite con riferimento alla simbologia cristiana della luce e come rappresentazione della fede, in richiamo a numerosi accenni evangelici. L'importanza della presenza della luce viene indirettamente confermata dall'abitudine di considerare come reliquie i residui degli oli che bruciavano presso le tombe venerate. All'uso di deporre profumi all'interno delle sepolture vanno ricondotti i numerosi balsamari vitrei, il cui utilizzo prosegue in età postclassica. Valore apotropaico sembrano avere avuto il corallo in vaghi o grezzo, in rametti, deposto soprattutto all'interno di sepolture infantili o al di sopra di esse, i vaghi d'ambra, gli scarti di lavorazione del vetro. Stessa funzione dovevano avere i chiodi, il cui gran numero e la cui diversità all'interno della stessa tomba avevano suggerito un uso simbolico, confermato dal rinvenimento in Piemonte di chiodi vitrei, dall'indubbia valenza simbolica. In altri casi, la presenza di resti combusti unitamente a chiodi disposti in modo particolare e dello stesso tipo fa presumere l'utilizzo di casse lignee o di lettighe, secondo un uso estremamente diffuso, rinvenute ad esempio nelle necropoli gote di Kerč (fine IV - metà V sec.). Per quanto riguarda l'orientamento delle sepolture, nelle popolazioni romanze viene in genere preferito l'orientamento est-ovest, con la testa ad est, ma questo dato può subire moltissime variazioni e mutare anche all'interno della stessa necropoli in momenti cronologici diversi, o può essere condizionato dalla presenza di edifici cultuali o da ragioni di spazio. Nei pressi delle sepolture venerate o genericamente in contesti di grande affollamento, l'orientamento passa in secondo piano rispetto alla necessità di uno sfruttamento intensivo degli spazi. Si tratta cioè di un dato significativo al fine del rituale, ma secondario ad altri elementi, come la vicinanza ad un advocatus quale poteva essere un martire. Non sembrano assumere rilevanza le modalità di sepoltura, che per tutto il periodo postclassico prevedono l'inumazione, con l'eccezione di alcune zone di permanenza del rito dell'incinerazione, quali l'area anglosassone fino al VII secolo e quella bulgara fino all'VIII-IX secolo. Generalmente il defunto viene deposto in posizione supina, con gli arti inferiori paralleli o talvolta sovrapposti; gli arti superiori sono di solito ripiegati sull'addome e sul petto, oppure uno dei due ripiegato e l'altro disteso lungo il fianco, oppure più raramente entrambi paralleli ai fianchi. Nelle necropoli tardoromane ed altomedievali la presenza di sepolture multiple rappresenta una costante, soprattutto nelle aree di maggior affollamento. Benché la normativa ecclesiastica, come ben si evince dalle indicazioni sinodali, fosse molto rigida in materia, condannando decisamente la manomissione delle tombe, in analogia con quanto previsto dalla legislazione romana, i rinvenimenti archeologici testimoniano quanto tale norma fosse derogata con la frequente presenza di sepolture multiple, nelle quali i resti degli inumati precedenti venivano raccolti ai lati o più di frequente ai piedi dell'ultimo occupante, insieme con i resti dei corredi. Quanto l'usanza fosse diffusa emerge anche dalla frequenza delle formule deprecatorie nell'epigrafia funeraria di età tardoantica e altomedievale, che tentavano invano di dissuadere i violatori delle sepolture. Alcuni aspetti del rituale germanico non hanno sempre un riscontro archeologico, ma, soprattutto per quanto riguarda i Longobardi, sono noti dalle fonti documentarie e legislative. Va segnalato in particolare l'uso della frantumazione rituale, che in questo caso riguarda la scherpa, cioè il complesso dei beni mobili appartenenti al defunto. Numerose indicazioni testamentarie confermano la disposizione che tali beni venissero rotti e distribuiti ai poveri; trattandosi generalmente di preziosi, si possono considerare vere e proprie elargizioni, talora accompagnate dalla preparazione di un pasto funebre, anche questo a beneficio dei poveri. Va notato come tale rituale funerario sia spesso associato ad una figura femminile, come responsabile della distribuzione della scherpa o della cura del pasto funebre. Progressivamente si avverte nella documentazione scritta la sempre più marcata presenza di ecclesiastici, fino a che in età carolingia la cura della memoria dei defunti viene quasi universalmente affidata ai monaci, che in compenso ricevono lasciti e donazioni. In Pannonia il rito funerario longobardo prevedeva la deposizione del defunto, che recava con sé le proprie vesti ed i simboli materiali della sua classe sociale, in una cassa lignea ricavata da un tronco d'albero. Questa veniva posta all'interno di una capanna costruita su pali, generalmente quattro, ad imitazione delle abitazioni dei vivi. Presso la testa e i piedi veniva deposto un pezzo di carne e spesso anche qualcosa da bere. Resti di queste "capanne pannoniche" sono stati riscontrati anche in Italia, ad esempio in Lombardia, a testimonianza della persistenza del rituale. Quando l'individuo moriva in un Paese lontano, magari in guerra, presso i Longobardi vigeva l'uso di piantare sulla sua sepoltura un palo (pertica) sul quale era una colomba lignea rivolta verso la terra patria. Quest'uso è rimasto a livello toponomastico nelle aree più influenzate dalla presenza longobarda, ad esempio nel caso della necropoli di S. Stefano in Pertica presso Cividale del Friuli. Al costume longobardo, ma per influsso di quello romanzo, va sicuramente ascritto l'uso del sudario, testimoniato dal rinvenimento di crocette auree anche in corrispondenza del volto, che recavano ancora i resti di fili di tessuto nei fori di fissaggio. I pur profondi mutamenti che la romanizzazione e la conversione al cristianesimo avevano apportato nelle usanze germaniche non impedirono il ricordo di pratiche precristiane, la cui memoria diventa rito. È questo il caso ad esempio della riapertura di sepolture al fine di prelevare il cranio dell'inumato per ricollocarlo fra gli arti inferiori, riscontrata ancora tra VIII e XI secolo a Santa Maria alla Senigola (Cremona). Indicatore del conservatorismo delle pratiche funerarie è senza dubbio la necropoli di Campochiaro-Vicenne (Campobasso), dove sono state rinvenute sepolture con cavalli datate al VII secolo. Inumazioni con fosse contenenti animali, anche cavalli, non sono infrequenti nel periodo altomedievale (ad es., a Nocera Umbra) e sono comuni all'ambito culturale merovingio. Nell'Europa centro-occidentale l'uso delle sepolture di cavalli venne introdotto dagli Unni, così che resti di finimenti e corredi da parata si rinvengono all'interno di sepolture oppure come depositi votivi (Totenopfer), sempre legati al culto dei defunti, trovati soprattutto in Ungheria e in Polonia. In particolare, il ricchissimo tesoro di Nagyszéksós-Szeged, in Ungheria, comprende anche gioielli e recipienti metallici ed era raccolto in una fossa votiva presso un rogo, presumibilmente dedicata al re unno Ruga nella prima metà del V secolo. Resti di finimenti e bardature preziose spezzati ritualmente si rinvengono in sepolture in Austria, in sepolcreti turingi in Germania e fino in Scandinavia, in un intreccio di usanze e accezioni culturali che influenzeranno anche il mondo merovingio, come si evince dal corredo funebre di Clodoveo (sepolto a Tournai nel 482). L'esempio molisano però costituisce fino ad ora un unicum nell'Europa occidentale, in quanto il cavallo alloggia nella stessa fossa del suo proprietario, ad attestazione di un rituale che prevedeva il sacrificio del quadrupede affinché accompagnasse il suo proprietario anche dopo la morte. Questo rito è noto dalle fonti (ne parla ancora nel IX-X sec. Ibn Fadlan, ambasciatore presso i Bulgari del Volga del califfo abbaside) ed è attestato archeologicamente in Asia Centrale e nell'Europa centro-orientale presso svariate popolazioni. In conclusione, le deposizioni di elementi legati all'importanza del cavallo si sostanziano nella presenza di bardature e finimenti spezzati ritualmente e sepolti in fosse votive, oppure nella loro collocazione in deposizioni di animali, o infine nell'unica inumazione di cavaliere con cavallo e loro accessori, come nel caso particolare, dato il contesto di ritrovamento, di Campochiaro- Vicenne. In Ungheria, le sepolture avare di altissimo livello seguono anch'esse il rituale di deposizione del cavaliere con le sue insegne contestualmente al cavallo. A questo fatto, che potrebbe far interpretare come avare le sepolture molisane, va contrapposta la menzione di Paolo Diacono a proposito della presenza di Bulgari nella piana di Boiano, nell'area cioè del sito indagato, ad attestazione di una mescolanza culturale, che se impedisce un riconoscimento certo, comunque identifica un uso, un sostrato affine alle popolazioni che nell'Alto Medioevo popolarono l'Europa occidentale. Legata alla rilevanza che il mare aveva nella vita dei popoli del Baltico è l'usanza di seppellire personaggi di altissimo rango all'interno di imbarcazioni, poi interrate e ricoperte da un tumulo (Suttun Hoo in Inghilterra, Vendel in Svezia, Oseberg in Norvegia, Nydam in Danimarca, ecc.). In queste tombe, tutte inquadrabili tra V e IX secolo, sono stati rinvenuti corredi principeschi. L'uso di deporre manufatti all'interno delle sepolture, come corredo personale del defunto, continuò nel periodo tardoantico e altomedievale, con modalità differenti soprattutto in relazione alle diverse componenti etniche. Il diffondersi del cristianesimo comportò una teorica avversione all'uso del corredo, implicita attestazione della necessità di beni materiali dopo la morte; per il cristiano che attende il Giudizio, infatti, il distacco dalla materia dovrebbe essere totale. Per questa ragione le fonti ecclesiastiche esprimono contrarietà nei confronti del corredo e della ritualità ad esso collegata, visti come una permanenza degli usi pagani e come ostentazione di ricchezza nel momento stesso in cui la morte mostrava la vacuità di ogni bene terreno, anche se i loro interventi rimasero sovente senza ascolto. Tale prassi rappresenta una felice coincidenza per gli archeologi, stante la mole delle informazioni ‒ in merito alla cronologia, all'individuazione etnica, agli elementi di conoscenza delle dinamiche sociali e professionali, ecc. ‒ che gli oggetti deposti all'interno delle sepolture consentono di recuperare. L'uso del corredo funebre rimane abbastanza costante almeno fino alla metà del VII secolo. Nel mondo mediterraneo e bizantino, nelle sepolture di tradizione romanza prevale l'uso promiscuo di materiale ceramico e vitreo insieme con gli oggetti di corredo personale, distinti a seconda del sesso e dell'età del defunto, oltre che eventualmente del suo rango sociale e della sua professione. Si può così attuare una significativa distinzione tra corredo personale, alludendo ai manufatti appartenenti al defunto in vita e legati all'ornamentazione della sua persona o all'espletamento delle sue funzioni professionali, e corredo rituale, legato ai riti della deposizione. Le indagini archeologiche hanno evidenziato senza dubbio l'uso di deporre i defunti con i loro abiti e i loro ornamenti, uso che ha consentito di integrare le rappresentazioni iconografiche nella definizione del vestiario, soprattutto nel caso dei ceti meno abbienti, non altrimenti rappresentati. Ben rari sono i casi di recupero da contesto archeologico di lacerti di tessuti o di articoli di vestiario deperibili; in genere sono da porre in relazione alle tombe più abbienti, che hanno goduto di maggiori cure nella preparazione e nella protezione del sepolcro e che confermano la testimonianza delle fonti documentarie ed iconografiche. Nelle sepolture femminili di tradizione romanza ricorrono aghi crinali e fermavelo, resti di retine per le acconciature, orecchini, anelli e vere nuziali, armille in vetro e in metallo. Nelle tombe maschili prevalgono fibbie e anelli digitali. Comuni ad entrambi sono fibule e ornamentazioni per cinture. Per quanto riguarda i manufatti ceramici, è stata notata la compresenza di forme di dimensioni normali, in analogia con i coevi contenitori da mensa e da cucina, accanto ad esemplari di piccola taglia, una sorta di "miniaturizzazione" delle forme che finora non sembra riscontrarsi in altri contesti. È stata così avanzata l'ipotesi di una produzione esclusivamente funeraria, proprio per l'immissione all'interno delle sepolture di questo vasellame costituito soprattutto da brocchette monoansate di varie fogge e decorazioni, ma comunque alte 10-15 cm in media, alcune delle quali presentano tracce di combustione. Al vasellame ceramico sono spesso associati recipienti vitrei, in forme da tavola o da cosmesi, o più raramente contenitori metallici. A proposito del corredo esterno alla sepoltura, è stata coniata la definizione di "corredo-arredo" (Felle - Del Moro - Nuzzo 1994) per indicare tutti quei materiali che finiscono per segnalare e abbellire la sepoltura: un uso del quale troviamo tracce prevalentemente in ambito catacombale, grazie alle migliori condizioni di conservazione. Molti loculi mostrano, cementati nella malta di chiusura, oggetti anche frammentari appartenuti al defunto (giocattoli, dadi, utensili d'uso comune, ecc.) o semplicemente decorativi, sia pure in qualche caso con valenza simbolica (fondi di vetri dorati con raffigurazioni vetero- e neotestamentarie, lucerne, ecc.). Spesso il corredo rappresenta l'unico elemento attendibile per l'individuazione etnica del defunto ed è il caso ad esempio delle sepolture di individui di stirpe germanica, appartenenti a popolazioni nomadi, per le quali l'attribuzione di sepolture finisce per costituire una sorta di "fossile guida" e consente di ricostruire gli spostamenti; all'interno poi della grande koinè germanica, spesso sono proprio i manufatti posti nelle tombe a permettere l'attribuzione etnica del defunto. Parallelamente, la tipologia dei corredi ha contribuito alla definizione della gerarchia sociale delle varie popolazioni, in alcuni casi nota attraverso le fonti, ma altrimenti non percepibile in contesti materiali. Per le popolazioni germaniche, l'uso del corredo personale sembra da porsi in relazione con i loro contatti con il mondo romano, unitamente al prevalere dell'inumazione ‒ che consente tra l'altro di comporre il defunto con i suoi abiti e i suoi ornamenti ‒ a vantaggio dell'incinerazione. Questo dato, pur apparendo indiscutibile nell'analisi delle aree di confine dove è certa la presenza di foederati, non trova sempre riscontro archeologico. È quindi evidente che, accanto a linee di tendenza che si delineano con sufficiente chiarezza, esistono elementi di permeabilità e di mancata omologazione, legati presumibilmente ai contesti locali. L'analisi dei corredi è poi fondamentale per studiare le modalità dell'acculturazione di tali popolazioni nel sostrato romanzo, costituendo il tracciante delle dinamiche di scambio e di produzione dei manufatti da una parte e dei tempi di spostamento dall'altra. A questo proposito, la necropoli longobarda di Castel Trosino, di recente oggetto di una revisione critica, appare determinante nello studio delle modalità di acculturazione. Accanto infatti a materiali appartenenti alla prima generazione degli immigrati, manufatti di tipo "pannonico" o prodotti addirittura in Pannonia, compaiono oggetti di transizione e successivamente elementi di corredo tipicamente mediterranei. L'analisi della dislocazione delle sepolture e l'individuazione dei loro corredi hanno di conseguenza consentito di ricostruire le dinamiche di formazione e di utilizzo del cimitero. Le tombe gote del periodo antecedente ai contatti dei Goti con l'Impero, nel III sec. d.C., vanno dalle semplici fosse ai tumuli principeschi (a Perejaslav-Čmelnicki, presso Kiev, e a Rudka in Volinia), caratterizzati da: camere mortuarie anche di grandi dimensioni, rivestite in legno; servizio potorio composto da situla, brocca e bicchiere, di metallo o di vetro; speroni da parata d'argento; indumenti in broccato d'oro; fibbie da scarpe; offerte di carne. Nel corso del IV secolo, i costumi funebri, come l'intera struttura sociale, subiscono progressive modifiche dettate dalla convivenza con le popolazioni autoctone (Daci e Carpati) e soprattutto dalla cristianizzazione secondo il credo ariano. Caratteristiche restano la coppia di fibule sulle spalle in lamina d'argento dei corredi femminili e la fibbia di cintura con placca in quelli maschili, accessori che caratterizzano le sepolture gote e genericamente germanico-orientali ed anche di età successiva. Le sepolture povere sono senza corredo, mentre le tombe principesche sorgono non più all'interno di aree cimiteriali, ma in tumuli isolati, con ricchi corredi di ornamenti personali composti da fibule, fibbie, gioielli, in una continuità formale dal Mar Nero all'Austria, per cui sepolture di questo tipo della fine del V secolo non possono essere attribuite con certezza ad una popolazione precisa tra Goti, Gepidi, Eruli, Rugi o altri popoli, così che vengono definite genericamente "germanico-orientali". Maggiori elementi di riconoscimento si hanno per i Visigoti in Spagna e, in Italia, per i Goti e poi per i Longobardi. Elemento precipuo delle genti gote resta comunque la presenza della coppia di fibule sulla spalla, della fibula centrale sul petto e della fibbia di cintura. Una modifica degli elementi di corredo si avverte anche in Crimea, dove già dalla prima metà del VI secolo nelle sepolture gote erano diffusi elementi bizantini, quali ceramiche e fibbie con decorazioni a soggetto cristiano cui si aggiunsero, nel corso del VII secolo, croci, anelli digitali con monogrammi in greco e le loro imitazioni. Dalle sepolture in cripta del Bosforo provengono elementi di corredo di altissimo pregio, quali le patere argentee con la raffigurazione di Costanzo II. La commistione di elementi etnici con manufatti bizantini è presente in svariati corredi funerari di personaggi di alto rango, come anche nel caso della tomba rumena di Concesti, nell'Alta Moldavia, di fine IV - inizi V secolo, appartenente ad un capo unno. Rimane comunque difficile una sicura attribuzione etnica per molti elementi, comuni alla moda della koinè germanicoorientale, come le collane con pendenti e medaglioni aurei, i recipienti in bronzo fuso con manici a fungo, gli specchi con foro centrale, gli ornamenti per cuffie. Così, nelle tombe di Apahida, che si presume appartenessero alla famiglia reale dei Gepidi, troviamo bracciali d'oro con le estremità ingrossate, uno dei simboli di rango più elevato dei Germani orientali, insieme con vasellame d'argento di tipo tardoromano. Comunque, le sepolture di area germanico-orientale solo occasionalmente comprendono elementi di corredo rituale; gli inumati recano unicamente il corredo personale e solo a seguito dei contatti con le popolazioni romanze aumentano, soprattutto nelle tombe più sontuose, i manufatti ceramici, metallici e vitrei. Allo stesso modo, mancano cavalli e bardature, così che le tombe riconosciute come ostrogote o genericamente germanico- orientali in Pannonia sono quasi esclusivamente quelle femminili, che recano gioielli, fibule e fibbie di cintura. Le tombe di personaggi di alto rango contengono sì più materiali, ma questi seguono le mode internazionali, con l'uso di corredi sovraregionali, così che appare a volte impossibile una sicura individuazione etnica. Sono attribuiti agli Ostrogoti i corredi femminili con coppia di fibule in lamina d'argento o fuse e decorate a Kerbschnitt (incisione con strumento a cuneo), grandi fibbie sempre in argento a placca rettangolare, talvolta con protome animale, orecchini con pendente a poliedro, oltre agli specchi di tipo nomadico, spezzati intenzionalmente. Allo stesso modo, appare quasi impossibile distinguere sulla base dei corredi le sepolture dei Germani (soprattutto Sciri) venuti in Italia con Odoacre nel 469 da quelli dei Goti arrivati con Teoderico nel 488, perché entrambe le popolazioni provenivano dal bacino danubiano. Tra la fine del V e la prima metà del VI secolo è invece possibile distinguere in Italia le tombe femminili germaniche, per l'uso della coppia di fibule sulle spalle e della grande fibbia di cintura, da quelle autoctone, prive di corredo o con un'unica fibula per chiudere il mantello al centro del petto e per la tipologia di fibule a disco, a croce, a protome animale. L'abitudine femminile gota di appuntare sul vestito una sorta di mantello tenuto da due grandi fibule gemelle permane ancora nel VII secolo ed è l'elemento che consente, fino in Spagna, di individuare con certezza i passaggi di questa popolazione; anche la grande fibbia per cintura è presente in tutta l'area della migrazione gota e rappresenta un elemento di grande conservatorismo; in Italia, la generazione immigrata usa il tipo con placca romboidale, che successivamente diviene rettangolare. Le inumate recavano nella tomba solo il costume nazionale e mancano oggetti del corredo rituale e manufatti d'uso quotidiano. Anche il costume goto maschile è piuttosto conservatore (risale addirittura al I sec. d.C., alla cultura di Wielbark), con la grande fibbia di cintura, generalmente in materiale prezioso, la mancanza di armi (gli elmi provengono da tesori) e le grandi fibule a cloisonné a forma di aquila. Conosciamo in Italia due tombe che possono essere attribuite con certezza all'aristocrazia gota: quella femminile di Domagnano e quella maschile di Ravenna. Le caratteristiche della prima la accomunano alle sepolture nobili altomedievali: comprende un'acconciatura con due spilloni aurei, un ampio pettorale con due fibule ad aquila, orecchini con pendenti ed anello di tradizione mediterranea, una borsa con applicazioni di oro a cloisonné ed un astuccio per coltello con punta d'oro. Il corredo della tomba di Ravenna, smembrato ed in parte perduto, comprendeva sicuramente almeno due placche d'oro appartenenti ad una sella da parata di legno ricoperta di cuoio. Significativo dei passaggi migratori delle popolazioni germaniche è il corredo della cosiddetta "dama di Ficarolo" (Rovigo), una donna cinquantenne deposta attorno al 500, di nazionalità gota o gepida. Dall'area carpatico-danubiana della metà del V secolo, da cui presumibilmente proveniva, recava la coppia di fibule, l'anello e forse la fibbia di cintura; dall'area renana dove doveva aver vissuto provengono lo spillone per capelli per un'acconciatura a corona ed il bracciale, portato in unico esemplare sul braccio sinistro e non in coppia come usavano le donne gote; terminò la sua vita in Italia probabilmente a seguito della fuga del ceto nobiliare alamanno che, dopo la sconfitta da parte dei Franchi, attorno al 500 si rifugiò nel regno goto di Teoderico. Per quanto riguarda l'altra parte del popolo goto che va sotto il nome di Visigoti, la ricerca archeologica risente della mancanza di attestazioni certe per il periodo delle migrazioni (dal 376, quando i Visigoti vennero accolti nei territori dell'Impero, al 418, quando si costituì il Regno di Tolosa), presumibilmente da imputarsi alla mancanza di insediamenti prolungati. L'unica eccezione finora nota è la tomba femminile di Villafontana (presso Verona), databile tra la fine del V e l'inizio del VI secolo e quindi in concomitanza con l'arrivo dei Visigoti di Alarico, il cui corredo personale prevede due fibule in lamina d'argento che si ricollegano ai reperti di poco antecedenti della cultura visigota di Sîntana-de-Mureş (nei territori dell'attuale Romania). Rimane senza spiegazione il mancato ritrovamento di necropoli per il periodo stanziale del Regno di Tolosa (418-507), mentre le attestazioni riprendono nei territori iberici. Proprio nella Penisola Iberica lo studio dei corredi ha consentito di determinare le aree di espansione progressiva dei Visigoti prima della loro assimilazione da parte delle popolazioni autoctone e di analizzare la progressione della migrazione stilistica dai modelli germanici a quelli mediterranei. Dopo la prima generazione, che aveva portato con sé i manufatti di propria fattura, al periodo tra il 490 e il 525 sono ascritti corredi per lo più femminili composti da fibule ad arco e da placche a tecnica trilaminare (Blechfibeln), successivamente fuse in bronzo, da fibbie di cintura rettangolari con decorazione a cloisonné, dall'introduzione di fibule ad aquila sempre a cloisonné, oltre a materiali di tradizione mediterranea (fibule ad arco e snodate, orecchini, bracciali, ecc.), il tutto prodotto presumibilmente da artigiani ispanici. Tali materiali si trovano anche nel periodo successivo (525-560/580), insieme con le fibule circolari, sia decorate a cloisonné che con motivi incisi, in linea con le coeve produzioni mediterranee, oltre a staffe ovali con ardiglioni a scudo e decorazioni e borchie per cinture, prodotti locali su imitazione dei prototipi centro-europei. Peculiarità iberica sono le fibule ad aquila ritagliate da una lamina bronzea dorata a fuoco, con decorazione incisa, esempio della fusione di modelli germanici con tecniche decorative autoctone. Nell'ultima fase (fine VI - inizi VII sec.) il processo di fusione tra le due popolazioni appare virtualmente compiuto, tanto che è ben difficile isolare le sepolture visigote da quelle romanze: in entrambe sono diffusi in modo crescente manufatti di tradizione bizantina, quali le fibbie a lira e quelle cruciformi. Si fonda sui mutamenti nei corredi anche l'evoluzione e quindi la cronologia delle sepolture longobarde. Nelle tombe maschili, le mutazioni formali delle armi e la loro associazione costituiscono un elemento guida per la loro definizione cronologica. In realtà, sembra che i guerrieri non venissero deposti con tutte le loro armi, ma solamente con quanto bastava alla definizione del loro ceto. In Pannonia i guerrieri (harimanni) erano sepolti con le armi, lo scudo posto generalmente di lato, sul fondo o alla testa della sepoltura, mentre una fossa vicina era riservata al cavallo. La struttura sociale emerge con chiarezza: dopo i cavalieri seguono i liberi ( faramanni), deposti con le lance, poi i semiliberi (haldii o aldiones), con arco e frecce, quindi i servi. In Italia, nelle sepolture di guerrieri della prima generazione troviamo la spatha a due tagli, appesa ad una cintura con fibbia e poche placche ornamentali, la lancia con cuspide a foglia di salice o un corto giavellotto e lo scudo con umbone di ferro a coppa conica, talora con punte di freccia che presuppongono un arco. Alla fine del VI secolo si avvertono alcuni mutamenti, costituiti soprattutto dall'arricchimento della cintura, dall'introduzione dello scramasax (una sorta di sciabola), dalle brevi cuspidi di lance, dall'umbone a coppa emisferica, oltre ai resti delle bardature di cavallo. I corredi si arricchiscono tra la fine del VI e il primo trentennio del VII secolo, con la diffusione presso le classi abbienti di sontuose cinture con placche d'oro, segno di rango secondo l'uso bizantino, di selle e finimenti sempre decorati in oro. Parallelamente, l'evoluzione delle placche che ornavano le cinture più semplici, utilizzate per appendere le armi, costituisce un valido tracciante archeologico per la determinazione cronologica delle sepolture maschili: a partire dal VII secolo si passa infatti dalla cintura "a guarnizione quintupla", che discende dai cinturoni militari romani, alla cintura "a guarnizione multipla", di derivazione orientale, entrambe spesso decorate con elementi animalistici. Ad esempio, la tomba 119 di Castel Trosino, particolarmente ricca, doveva appartenere ad un altissimo esponente del Ducato di Spoleto e comprendeva oggetti da parata (una cintura, una sella e briglie, tutto con decorazioni in oro), l'equipaggiamento difensivo (elmo e corazza a lamelle, scudo) e offensivo (spatha, scramasax, 2 lance e 13 cuspidi di freccia, che presuppongono arco e faretra), oltre a 3 cinture per sospendere le armi, speroni di ferro, morso con placche argentee. Il corredo rituale era composto da 2 crocette auree, un corno potorio con tracolla d'argento, un corno potorio di vetro e una grossa ciotola bronzea. In sostanza, gli elementi di romanizzazione nei corredi longobardi sono costituiti dall'uso del sudario e quindi delle crocette in lamina d'oro, anche se queste spesso sono decorate da motivi germanici, dalla comparsa di cinture da parata maschili di derivazione bizantina, di anelli con sigillo di stampo bizantino, da nuove forme di armi, quali le cuspidi di lancia a foglia d'alloro e gli scudi con umbone emisferico ed infine dalle forme ceramiche di tradizione mediterranea. In qualche caso nelle tombe vengono deposti anche gli strumenti professionali del defunto. È questo il caso, ad esempio, dell'orefice longobardo di Grupignano di Cividale, la cui sepoltura conteneva due piccole incudini, una fibbia per cintura in argento ed un utensile in ferro, oltre probabilmente ad altri manufatti non pervenutici. Sepolture di orefici sono conosciute anche in aree preitaliane, a testimonianza di questi guerrieri-artigiani itineranti, i cui tariffari sono noti dall'Editto di Rotari del 643. A Brno, ad esempio, una ricca tomba di orefice comprende incudine, tenaglia, bilancina, ascia, bulino, un disco di bronzo, due martelli, quattro pesi, un recipiente, lamine frammentarie, guarnizioni in ferro e in bronzo, un pettine, pietre per affilare. Un'altra sepoltura analoga, di fine V - prima metà del VI secolo, si trova a Poysdorf. Le sepolture femminili pannoniche non prevedono l'uso di bracciali, orecchini e anelli, tranne che per le donne di origine germanica o romana. La moglie dell'arimanno si distingueva per la presenza di un simbolico pettine da tessitore. In Italia, nei corredi femminili longobardi della prima generazione la caratteristica principale consiste nell'uso delle quattro fibule, uso comune anche a Franchi, Alamanni, Turingi e Bavari: due, a S o a disco, sono sul petto, altre due a staffa, più grandi, vengono rinvenute in genere tra il bacino ed i femori delle defunte ed erano probabilmente fissate ad un nastro che pendeva dalla cintura. Le fibule ad S costituiscono un vero e proprio tracciante archeologico dei Longobardi perché, diversamente dalle armi tipiche del costume maschile, sono soggette ai dettami della moda e quindi cambiano spesso. Resti dell'acconciatura sono i frequenti aghi crinali e gli spilloni, come pure i più rari resti di veli in broccato d'oro. Lungo gli arti inferiori si rinvengono spesso fibbiette e piccole piastre, utilizzate per fissare calze o mollettiere, oppure sono pertinenti a chiusure di scarpe; queste ultime sono di norma presenti solo in tombe molto ricche e non prevedevano parti in metallo. Con la generazione successiva molti elementi del costume si adeguano alla moda mediterranea, con l'uso della grande fibula a disco al centro del petto utilizzata, secondo il costume bizantino, per chiudere il mantello, costume che si diffonderà anche presso altre popolazioni d'Oltralpe. Elementi bizantini sono anche gli orecchini a cestello, i pendenti aurei da collana, gli anelli, che si ritrovano fino alla fine del VII secolo, quando viene abbandonato l'uso del corredo funebre. Le collane sono formate da paste vitree, ambre, monete forate, ecc.; alla cintura erano appese piccole borse in cuoio o in pesante tessuto che contenevano pettini in osso, specchietti in vetro, spesso una conchiglia (la Cypraea era un simbolo di fecondità femminile) e piccoli oggetti quotidiani, quali acciarini e selce. Ai nastri che pendevano dalla cintura si appendevano chiavi e ciondoli, spesso in cristallo di rocca, che aveva un significato apotropaico. Le spade da telaio si trovano anche in tombe longobarde in Pannonia e sembrano caratteristiche di corredi molto ricchi. Gli aghi crinali, invece, compaiono nelle tombe longobarde dalla metà del VI secolo, su influenza della popolazione autoctona. Pettini ad una fila di denti sono tipici dei Longobardi della fase pannonica, mentre gli esemplari in osso con doppia fila di denti e decorazioni ad occhio di dado sono diffusi in sepolture sia autoctone che germaniche. Elementi comuni ai corredi longobardi maschili e femminili erano le crocette in lamina d'oro, i pettini, le forbici, gli acciarini e la selce, i coltelli, il vasellame bronzeo (detto "alessandrino"), diffuso tra la nobiltà longobarda nella prima metà del VI secolo. In ambito franco, la tomba della regina Arnegunda, moglie di Clotario I (fine VI - inizi VII sec.) rinvenuta nella cripta di Saint-Denis a Parigi è eccezionale per la ricostruzione del corredo personale, anche grazie alle particolari condizioni di conservazione dei tessuti: una sottile camicia di lino, un abito corto di seta violetta e un mantello di seta rossa sostenuto da due fibule a disco; alla vita era posta in senso diagonale una cintura chiusa da fibbia con placca e controplacca, che costituiva una peculiarità del costume merovingio; sul capo aveva un velo di satin fissato da una coppia di spilloni d'argento. Le gambe erano coperte da calze di lana tenute al ginocchio da giarrettiere con doppio pendente in argento, secondo un uso abbondantemente documentato nei Paesi d'Oltralpe, ed erano protette da stivaletti di pelle chiusi da fibbie sempre in argento. L'uso del corredo riprende, come già detto, solo a partire dall'XI secolo e va riferito ai soli beni personali, così che lo scavo di sepolture di personaggi di rango elevato conferma la presenza di abiti, spesso da parata, e di armi. Sono questi ad esempio i casi dei resti rinvenuti nelle tombe, nel duomo di Palermo, dei sovrani normanni e svevi: dalla sepoltura di Ruggero II (m. 1154) provengono resti di tessuti con fregi in oro, mentre quelle di Enrico VI (m. 1197) e di Costanza d'Altavilla (m. 1198) contenevano tra l'altro lacerti di brache sorrette da una cintura e i guanti dell'imperatrice (South Kensington Museum, Londra), infine la sepoltura di Federico II (m. 1250) ha recato un campionario dell'abbigliamento imperiale dell'epoca. L'uso di deporre le armi con il defunto prosegue a lungo, come testimoniato ad esempio dalla tomba quattrocentesca di Giovanni de' Medici in S. Reparata a Firenze, che conteneva un raffinato corredo di spada e speroni in bronzo dorato.
Oltre alla bibliografia generale sulle aree funerarie, in particolare, sui riti e i corredi:
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