L'Aquila
A metà del sec. XIII si verificò nella vallata amiternino-forconese un fenomeno rilevante di sinecismo per cui un numero cospicuo di castelli diede vita a una civitas nova, L'Aquila, che assumerà nel tempo le connotazioni di un comune quasi libero sul modello corrente di quelli altoitaliani.
Il primo documento nel quale si parla dell'eventuale fondazione della città è un'epistola di papa Gregorio IX nella quale egli prende posizione sull'appello rivoltogli dalle popolazioni dei due contadi per essere liberate dal pesante vassallaggio a Federico II di Svevia. Gregorio IX concesse che nelle terre donate alla Chiesa dall'imperatore Ottone I con il privilegio del 962, tra le quali spiccavano quelle di Amiterno e Forcona, venisse fondata una città. Non se ne fece nulla, ma l'idea era nata. Essa si realizzerà durante l'interregno ovvero nel periodo che va dalla morte di Federico II alla conquista del Regno da parte degli Angioini con la battaglia di Benevento nel 1266. Oltre a ragioni politiche vi concorsero ragioni economiche, come una ripresa di produttività determinata dalla rinascita della prassi della tran-sumanza, che originò a sua volta un'esigenza di mercato. Non furono peraltro estranei all'iniziativa i modelli prodotti dalla cultura cistercense che proponevano esempi di civitates novae quali le francesi bastides. Una delle fonti narrative più importanti di cui si disponga è la Cronacarimata di Buccio di Ranallo, testimone abbastanza prossimo, in quanto morto nel 1363. Egli dice: "Lo cunto serrà d'Aquila, magnifica citade / Et di quilli che la ficero con grande sagacitade / Per non essere vassalli cercaro la libertade / Et non volere signore set non la magestade". Altra fonte è il diploma di fondazione detto di Federico II, che Gennaro Maria Monti ha attribuito in maniera definitiva a Corrado IV. Con questo documento si stabiliva che, al fine di impedire a generici predoni, che davano manforte a quanti ‒ traditori e ribelli ‒ si schieravano contro l'Impero, di penetrare nel Regno, nel luogo detto L'Aquila si costruisse una città. Si liberavano da ogni obbligo feudale quanti si trovassero a vivere entro i suoi confini. Si ordinava inoltre l'abbattimento delle rocche feudali.
Le due fonti concordano su un fatto sostanziale: la città sorse in funzione antifeudale. Ad appena tre anni dalla fondazione, ovvero nel 1257, papa Alessandro IV traslò la sede episcopale da Forcona all'Aquila. Era una fase acuta della lotta tra il papa e gli Svevi. La traslazione della diocesi produsse l'effetto di avvicinare la nuova realtà cittadina alla parte guelfa. Il 10 agosto 1258 Manfredi, che già aveva assunto la reggenza a nome di Corradino, si fece eleggere dai baroni re di Sicilia. Soltanto un anno dopo, nel 1259, con mano molto pesante attaccò la città.
Le difese che la città riuscì ad apprestare furono pressoché nulle dal punto di vista militare, ma significative, ancorché inutili, dal punto di vista diplomatico. Vi sono ad esempio una lettera del "Potestas et Commune Aquilensium" al re d'Inghilterra Enrico III, del luglio del 1258, e un documento di natura finanziaria dell'anno precedente della corte inglese, che si riferisce ad una somma di 540 marchi, messa a disposizione da Enrico III in favore della difesa del Regno di Sicilia e dell'Aquila, su cui si ha anche un rapporto di Maestro Angelo, cappellano pontificio. Questi aiuti all'Aquila da parte del re d'Inghilterra si spiegano in effetti con l'offerta del Regno di Sicilia che già nel 1253 Innocenzo IV aveva fatto alla casa inglese. Ciò sottolinea ulteriormente la notevole importanza della nuova città come punto nodale, se non altro geografico, del contrasto tra il pontefice e Manfredi. Sulla scorta di queste considerazioni si spiega il motivo della distruzione operatane da Manfredi. "Né casa vi rimase, né pesele, né ticto", dice Buccio. Così si conclude questa prima fase della vita della città. Dei suoi ordinamenti interni, nulla ci è dato sapere.
Essa dovette forse avere reggimento comunale con podestà e consiglio, come si desume dalla lettera di Alessandro IV e da quella degli aquilani ad Enrico III d'Inghilterra. I villici, dopo la distruzione, ripresero le antiche dimore. Forse subirono vendette. L'ex vescovo di Forcona, poi divenuto vescovo dell'Aquila, si trasferì nuovamente nella primitiva sede. Sembrava ormai finita nel nulla l'antica aspirazione all'autonomia, ma così non fu.
"Sey anni stette sconcia, si como trovo scripto", riferì succintamente Buccio, suffragato d'altronde da una cospicua documentazione. In effetti dopo la battaglia di Benevento la città fu ricostruita. Nella ricostruzione, o meglio sarebbe dire rifondazione, concorsero vari elementi: il desiderio degli abitanti dei castelli di ripetere l'esaltante esperienza della liberazione cittadina, l'interesse di Carlo I d'Angiò a disporre di una città fedele ai confini del Regno, infine la mediazione, ancora una volta, di Jacopo di Sinizzo, cancelliere papale legato per ragioni di nascita a queste contrade, il quale già all'epoca della rivolta si era trovato a fare opera di mediazione.
Ma la rifondazione non fu del tutto pacifica: vi si opponevano, naturalmente, gli interessi dei feudatari, che rischiavano di essere nuovamente travolti. L'immaginosa ricostruzione degli eventi fatta da Buccio lascia chiaramente intravedere le linee essenziali di quegli avvenimenti.
Prima che la città venga ricostruita, narra Buccio, bisognerà vincere le resistenze dei "gentili homeni", ovvero dei feudatari, che si recano da Carlo portando queste argomentazioni: non è onorevole che da parte di un "gentile homo" quale voi siete si disattendano le ragioni dei nobili per favorire la "rea villanaglia". "Monsignore pregamote la città non refare". Ma oltre a questo motivo, diremmo di facciata, ne vengono prospettati altri ben più concreti. I feudatari infatti insistono dicendo di aver appreso che la "rea villanaglia", i "rei mercendari" avrebbero promesso al re molti denari nel caso egli avesse concesso l'assenso per la ricostruzione. Ebbene, i feudatari promettono: "più danari nui damote che li nostri avversari". E si offrono di prestare garanzie in tal senso per mano di notai e di giudici a contratto. Promettono inoltre a Carlo di fornire duecento cavalieri con relativi scudieri. Carlo risponde di non voler garanzie, ma denari contanti. I feudatari insistono che non di-spongono di denaro, ma si impegnano a raccoglierlo. In questa specie di udienza che Carlo concede è presente un signore che rappresenta gli interessi dei villici ("li menuri homini"), il quale invita Carlo a riflettere sul fatto che, nel caso non voglia far ricostruire L'Aquila, le conseguenze per il "popolo menore", ovvero per i vassalli, saranno disastrose in quanto i "gentili homeni" che hanno promesso denaro al re non disponendone "scortecarao li vassalli quanto è loro potere" e i loro mezzi di persuasione consisteranno in impiccagioni e accecamenti. Insiste ancora il patrocinatore dei "menuri homeni" buttandola sul patetico: chi lascia la propria casa dove suole abitare e chi si allontana dal luogo abituale di lavoro "per gran dolo n'è stritto che non po' altro fare", e conclude affermando che se il popolo fosse stato ben trattato, e se il ceto dirigente si fosse adoperato per il suo benessere senza spremerne il sangue, nessuno "vorria in Aquila essere rencasato".
La risposta-sentenza di Carlo è precisa e perentoria: consente ai "menori homeni" di ricostruire L'Aquila a condizione che siano versati i denari promessi nei termini e nella quantità stabiliti. Prima che si proceda alla ricostruzione v'è tuttavia un ultimo sussulto dei feudatari, non registrato da Buccio, che passa per un tentativo di mediazione di papa Clemente IV, effettuato con una lettera nella quale egli difende sia pur indirettamente gli interessi dei signori. Carlo non tenne in alcuna considerazione tale lettera. La rifondazione dell'Aquila doveva stargli verosimilmente molto a cuore perché, a parte le patetiche argomentazioni riportate da Buccio, essa ben si inquadrava in una logica di fortificazione del confine tendente a rendere autonomo il suo Regno rispetto alle sempre ricorrenti pressioni del papa per controllarne la politica. L'Aquila in effetti verrà ricostruita in breve volger di tempo, secondo i patti stipulati col re, i cui termini, che somigliano ad un vero e proprio piano urbanistico, così ci prospetta Buccio: demanializzazione della terra accordata; concessione di siti a quanti verranno a popolare la città nella misura di un appezzamento a fuoco; il sito avrà la misura di sette canne e mezza di lunghezza e quattro di larghezza; i siti saranno pagati al re nella misura di 12 carlini di un valore intrinseco tale da essere pari a un fiorino d'oro. Sempre Buccio ci dice anche che quindicimila furono i fuochi che avrebbero dovuto popolare la città ed anche che fu acquistato terreno in misura maggiore di quanto, ancora al suo tempo, ne fosse effettivamente edificato, includendo dentro le mura la stessa altura di Collemaggio.
La città, in relazione al sinecismo da cui ha origine, avrà un impianto a griglia modulare ad assi ortogonali di origine ippodamea. La divisione principale in quartieri e secondaria in locali rispecchierà la realtà dei castelli che l'avevano fondata, in quanto tra borghi e impianto urbano si darà vita ad una città-territorio in un regime di promiscuità tra intus et extra che originerà un vero e proprio comitatus dalle vaste dimensioni geografiche.
Non si dispone purtroppo del diploma di rifondazione di Carlo I. Il periodo iniziale dovette in ogni modo essere di grande incertezza. Il ceto feudale era pronto ad approfittare di ogni indecisione per andare alla riscossa. "Li gentili homeni diceano ca non dura". I villici vennero a trovarsi ancora una volta in una situazione di frontiera, come racconta Buccio: "Fecero li abitatii de tabole et de mura. Paricchi miscy stettero, ché abero pagura".
Non tutto si svolse secondo i piani e i disegni. Innanzitutto spesso divenne difficile il pagamento del terreno: i villici non potevano pagare perché non riuscivano a produrre uno sforzo di capitalizzazione di risparmio: "de ciò che li promisero venderonelli mino". In secondo luogo non si realizzò la liberazione graduale e programmata dalla servitù, che era stata affidata con molta probabilità a un non meglio specificato Rambotto.
Di lui nulla si sa, ma dai non eccessivamente perspicui versi di Buccio si arguisce che, incaricato dalla Corona di vigilare perché le condizioni contenute sia nel diploma di Corrado sia in quello di Carlo per un passaggio indolore delle terre amiternine e forconesi da uno status feudale ad uno demaniale si realizzassero correttamente, non riuscì a controllare la situazione. I villici premevano per ottenere la liberazione e lo ritenevano responsabile del ritardo. Di qui l'uccisione di Rambotto, che Buccio da 'aspirante aristocratico' così commenta: "Però fa gran peccato chi trane villano de sotto". In terzo luogo si avrà la distruzione di ogni rocca feudale all'intorno operata dalla "multa villanaglia" salita, come commenta Buccio, in "gran superbia" per compiere ogni sorta di azione sediziosa. Tra le tante rocche distrutte ("nulla grande fortelezza ce volsero lassare") vi fu anche Ocre. Il fatto che proprio questa rocca venga citata dal cronista segnala quanto timore reverenziale la circondasse, trattandosi di un possesso di quel potentissimo Gualtieri di Ocre che in passato era stato cancelliere di Federico II.
Ce n'è quanto basta per indignare la Corona, che però non è in grado di reagire. Nel 1267, appena un anno dopo la battaglia di Benevento, Corradino è già in Italia per rivendicare i diritti del Regno. Tutti gli sforzi del re angioino sono tesi alla difesa dei diritti da poco acquisiti e gli rimane poco margine per pensare alle questioni aquilane. Ha bisogno dell'aiuto di tutti, anche, naturalmente, dei cittadini della nuova città.
Essi generosamente glielo offrirono partecipando alla battaglia di Tagliacozzo. Si consolida così la città, avviata verso una fioritura mercantile che darà vita a un'organizzazione delle arti che la caratterizzerà come città dotata di una ampia autonomia espressa anche in una corposa legislazione statutaria.
fonti e bibliografia
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