L'Aquila: le macerie, il raconto pubblico, le narrazioni private
Alle 3,32 del 6 aprile 2009 L’Aquila e molti paesi abruzzesi vengono colpiti da un terremoto di 6,2 gradi di magnitudo momento (Mw), pari a 5,8 gradi della scala Richter, o magnitudo locale (Ml). È la prima volta che un sisma investe un capoluogo di regione, distruggendo la prefettura, che nelle emergenze funziona come centro di coordinamento dei soccorsi, e danneggiando seriamente l’ospedale centrale. L’intero centro storico è interessato da crolli diffusi ma la devastazione non risparmia le aree periferiche e i paesi vicini: alcuni, come Onna, vengono praticamente rasi al suolo. Nei giorni successivi si conteranno 309 vittime e circa 1600 feriti, mentre il 6 aprile, secondo i dati del commissario per la ricostruzione, gli sfollati saranno poco meno di 70.000. Nella notte, prima ancora che la notizia venga diffusa per televisione, le prime informazioni arrivano da Internet. «Terribili crolli!!!!!», ‘grida’ per es. lo status di un utente Facebook alle 5,05, mentre il primo tweet dopo la scossa delle 3,32 afferma, o forse domanda: «C’è ancora qualcuno vivo all’Aquila» (O.R.ES.TE., 2012, p. 126). Quando ormai albeggia, alle 6,44, un nuovo aggiornamento di status su una pagina Facebook interroga gli «amici di FB aquilani ci siete tutti? contiamoci…» (Giuliani 2012). Nelle stesse ore, su Twitter si rincorrono le domande sulla localizzazione del terremoto, e le notizie vere si accavallano con quelle false: per es., molti di coloro che scrivono da Roma, dove la scossa è stata avvertita con forza, affermano che il terremoto ha colpito proprio la capitale. Allo stesso tempo però c’è anche chi riesce a trovare rapidamente informazioni attendibili ancora prima che esse vengano date dalla televisione, incrociando i dati di diversi social network (Giubertoni 2009). In ogni caso, grazie alla vicinanza con Roma, telecamere e inviati arriveranno rapidamente nel capoluogo abruzzese e già un paio d’ore dopo la scossa, Rai news 24 trasmette le prime immagini in diretta. Sin dalle prime ore, dunque, è possibile individuare due dei soggetti che costruiranno le differenti narrazioni pubbliche del sisma, racconti spesso contrapposti che finiranno per costruire una memoria pubblica conflittuale: da un lato, c’è una narrazione mainstream, veicolata soprattutto dalla televisione, e, dall’altro, quella che potremmo definire una narrazione grassroot, riprendendo l’aggettivo che Henry Jenkins usa per definire i media partecipativi (H. Jenkins, Convergence culture: where old and new media collide, 2006; trad. it. 2007). Il contrasto tra queste narrazioni avrebbe portato Marino Sinibaldi, nove mesi dopo il sisma, a scrivere che su L’Aquila c’erano state «tante immagini e parole ma poche notizie e, usiamo pure con cautela una parola equivocabile, poca verità». Ci troviamo – concludeva – di fronte a «un caso esemplare di quanto la ridondanza riduca […] l’informazione reale» (Sinibaldi 2009), la cui capacità di approfondimento era stata «intermittente» (Emiliani 2010).
La stampa, in effetti, aveva generalmente trascurato la lunga sequenza sismica che aveva interessato l’Aquilano dal dicembre 2008: in pochi mesi si erano succedute centinaia di scosse dall’intensità crescente, che erano passate dall’iniziale magnitudo momento di 1,8 a quella di 4,1 registrata con la scossa del 29 marzo, la più forte prima del 6 aprile. Anche la frequenza, del resto, era cresciuta insieme all’intensità: a gennaio c’erano state 69 scosse, poi salite a 78 in febbraio e a 100 in marzo; nei primi cinque giorni di aprile, infine, ce ne sarebbero state ben 57. Tuttavia questa lunga sequenza, che sembrava replicare le dinamiche di alcuni dei terremoti che avevano colpito L’Aquila nella sua storia, aveva lasciato poche tracce nell’informazione mainstream nazionale: solo qualche breve cronaca e qualche articolo che descriveva l’inquietudine della popolazione come un fatto di costume, una ‘psicosi’ collettiva scatenata dalle errate previsioni di un ricercatore del posto, Giampaolo Giuliani, come scriveva Francesco Alberti sul «Corriere della sera» il 1° aprile («Prevedo un terremoto». E un ricercatore scatena la psicosi tra L’Aquila e Sulmona). Su Internet, invece, e in particolare sui social network, nei mesi precedenti alla scossa delle 3,32 era stato un rincorrersi di voci e commenti sulle scosse (cfr. Giuliani 2012): ma se Facebook è fondato su un rapporto bidirezionale che tende a costruire reti sociali chiuse, i blog sono invece voci individuali che si relazionano con la sfera pubblica. E così, per es., Anna Pacifica Colasacco, autrice di miskappa.blogspot.com, un blog che dopo il 6 aprile si sarebbe ritagliato un ruolo particolare nella galassia della comunicazione postsisma, scriveva il 31 gennaio:
Sono ormai due settimane che L’Aquila trema, investita da scosse di terremoto. Non sono intense […] ma si susseguono nell’arco della giornata e, soprattutto, della nottata. […] Finiscono quando l’urlo sta per uscire dalla bocca e lo rigettano in gola. […] Il mio sistema nervoso ne sta risentendo visibilmente.
E poi ancora, il 31 marzo: «Sono tre mesi che a L’Aquila la terra trema. Quasi trecento scosse. Ieri alle 15,38 c’è stata quella fortissima. […] Sono terrorizzata». Più che i post, tuttavia, in questo caso sono interessanti i commenti, che mostrano come l’opinione pubblica nazionale, a sei giorni dalla scossa distruttiva, non si interessasse a questa vicenda: «non si dice questa notizia da nessuna parte» scrive per es. un lettore, per poi aggiungere «Il terremoto non è trendy?».
Il terremoto dell’Aquila dice qualcosa sul sistema italiano dell’informazione ma anche sullo stesso Paese,
non solo e non tanto per la nostra capacità o incapacità di misurarci con l’emergenza, con i disastri che ci travolgono, ma più ancora la nostra frequente rimozione dei doveri fondamentali di un paese (G. Crainz, introduzione a Nimis 2009, p. VII).
Addirittura, come è stato notato, esso può essere considerato «lo specchio del paese», metafora di un declino che,
poco alla volta, sta erodendo le basi stesse del vivere in comunità; così come della grave insufficienza che [...] segna la politica nel proporre soluzioni e rimedi di medio e lungo periodo (Simili 2011).
Del resto, come sottolineava già Augusto Placanica, ogni catastrofe
lascia vedere, ormai denudata, ogni più vera forma – statica o dinamica – della società del tempo: e così, agli occhi dello storico […] la catastrofe, lungi dal rappresentare un capovolgimento, è, al contrario, un inveramento significativo, una rappresentazione “figurale” […] del mondo in cui essa sopraggiunge (Lo specchio del finimondo, in Prodigi paure ragione. Eventi naturali oggi, a cura di G. Botta, 1991, p. 225).
Anche il terremoto del 2009, come altre precedenti catastrofi, ha messo a nudo «la qualità storica dell’agire politico, la dimensione dell’operare statale, la grandezza o la miseria di un ceto dirigente» (P. Bevilacqua, Tra natura e storia: ambiente, economie, risorse in Italia, 2000, p. 88) ma, visto in una prospettiva storica, permette di interrogare allo stesso tempo sia l’evento sia la lunga durata, la memoria del passato così come le prospettive per il futuro, la dimensione individuale insieme a quella sociale, fino al rapporto triangolare fra le istituzioni centrali, quelle locali e la cittadinanza.
In queste pagine, tuttavia, ci si soffermerà soprattutto su un aspetto che rende questo terremoto differente da quelli che l’hanno preceduto. A L’Aquila infatti è stato possibile assistere per la prima volta nel nostro Paese al contraddittorio emergere di una memoria del sisma nel momento stesso in cui si costituiva: infatti, attraverso i media partecipativi, è stata costruita una narrazione grassroot, ‘dal basso’, che è oggi possibile sondare scandagliando i testi letterari e audiovisivi depositati in rete. Certo, l’espressione ‘memoria dal basso’ deve essere usata con cautela perché anche la sfera della comunicazione grassroot risponde a delle logiche narrative che ne influenzano la costruzione: nella maggior parte dei casi, infatti, le narrazioni generate dagli utenti, tipiche della comunicazione sul web, sono caratterizzate dalla contrapposizione alle logiche del racconto giornalistico, a loro volta condizionate dal peculiare rapporto fra i media e la politica che esiste in Italia. In questo specifico caso, inoltre, i media egemonici – e in particolare la televisione – hanno prodotto una narrazione pubblica del sisma che ha trasformato il terremoto in un’occasione per rinforzare il consenso del governo e la popolarità personale del premier (cfr. Oltre il terremoto, 2011, p. 102). Si vedrà più in là come a questa narrazione se ne siano contrapposte delle altre, arrivando a costruire una memoria collettiva del sisma frammentata e conflittuale. Per ora, invece, è utile sottolineare come, anche in questa occasione, il racconto giornalistico del sisma sia stato in larga parte costruito con un insieme di tópoi narrativi che, attraverso l’uso degli stessi toni, immagini e parole usate per ogni catastrofe, ha prodotto «una sorta di ritualità liturgica del disastro» (Dominici 2010, p. 36). Questo modello rappresentativo ha finito per generare una percezione deformante tanto degli eventi quanto del rischio. Infatti, accade spesso che
la narrazione e le rappresentazioni fornite dai mezzi di comunicazione incidono in maniera assolutamente significativa sulla percezione individuale e collettiva della realtà, sul senso di insicurezza e vulnerabilità sociale, sulle paure individuali e collettive, nonché, conseguentemente, sul modo di gestire i pericoli, i disastri, le catastrofi (p. 37).
Da questo punto di vista, il discusso caso della Commissione nazionale per la previsione e la prevenzione dei grandi rischi è stato emblematico: denunciata per «valutazione negligente del rischio» e «informazione fuorviante», i suoi membri sono stati riconosciuti colpevoli di omicidio colposo plurimo con una sentenza di primo grado del tribunale dell’Aquila del gennaio 2013. La Commissione si era riunita in via straordinaria a L’Aquila il 31 marzo 2009: l’incontro era stato voluto dal capo dipartimento della Protezione civile Guido Bertolaso, che aveva tentato in questo modo di rassicurare gli amministratori locali sullo sciame sismico che, dopo la scossa superiore al IV grado di due giorni prima, aveva portato il sindaco de L’Aquila Massimo Cialente a chiudere due scuole e a chiedere la dichiarazione dello stato di emergenza. Inoltre, le dichiarazioni di Giampaolo Giuliani stavano accrescendo le preoccupazioni della popolazione. Egli infatti aveva inventato un sistema di rilevazione del radon, un gas presente negli strati profondi della crosta terrestre che si libera con l’attività sismica e che, a suo dire, sarebbe stato un significativo ‘precursore sismico’: i livelli di radon, sosteneva, erano molto alti, e ciò faceva ritenere possibile un’imminente scossa di forte intensità. Al termine della riunione, tuttavia, la Commissione aveva rassicurato l’opinione pubblica con un comunicato in cui affermava, tra l’altro, che
lo sciame sismico che interessa l’Aquila da circa tre mesi, è un fenomeno geologico normale […]. Allo stato attuale, non vi è pericolo, la situazione è favorevole perché vi è uno scarico di energia continuo (Caporale 2011, p. 28).
Secondo diverse testimonianze, sarebbe stato proprio questo genere di dichiarazioni a spingere molti a non prendere precauzioni specifiche nei giorni successivi, e a farsi dunque cogliere di sorpresa la notte del 6 aprile: è il caso, per es., di Giustino Parisse, giornalista del quotidiano «Il centro» che perse due figli e il padre nel crollo della propria casa di Onna, il quale ha affermato in una commovente testimonianza di essere stato «vittima della disinformazione» perché, pur essendo parte del circuito informativo, aveva creduto a ciò che era stato detto dalla Protezione civile e dal Servizio sismico nazionale. Del resto, il reale obiettivo di Bertolaso non era tanto prevenire il rischio quanto piuttosto tranquillizzare la popolazione, come rivela chiaramente una telefonata intercettata dai giudici in cui il capo dipartimento ricordava all’allora assessore regionale con delega alla Protezione civile Daniela Stati che la riunione non doveva essere altro che una «operazione mediatica» (Caporale 2012). Il modo in cui a L’Aquila i media hanno fatto alzare la soglia dell’accettabilità sociale del rischio nel 2009 è sembrato dunque configurare una «società dell’irresponsabilità» (cfr. Dominici 2010), il cui quadro non sembra essere molto cambiato neppure negli anni successivi, quando il travisamento dell’impianto accusatorio del processo alla Commissione grandi rischi – in cui un giudizio sui limiti della valutazione del rischio e della sua comunicabilità è stato trasformato in un ‘processo alla scienza’ – è sembrato ancora una volta distogliere l’attenzione dalla complessa questione della prevenzione del rischio.
Dopo la fase iniziale dell’emergenza e dei soccorsi, nella sfera pubblica mediatizzata sono emerse due rappresentazioni diffuse, contrapposte e successive, entrambe capaci di penetrare l’immaginario collettivo. La prima ad affermarsi è stata quella del ‘miracolo’, termine con cui il premier Silvio Berlusconi avrebbe definito la strategia di intervento e di ricostruzione operata dal governo: per es., nello studio televisivo di “Porta a Porta” durante la puntata “Speciale L’Aquila e tutto il resto” del 15 settembre 2009 egli avrebbe parlato dello «straordinario, epocale miracolo che stiamo realizzando di dare le case, le scuole, fra poco le chiese eccetera, appena cinque mesi dopo la tragedia, alle persone». Non è un caso che la nascita della narrazione del ‘miracolo aquilano’ sia avvenuta in uno studio televisivo: la televisione sarà infatti il mezzo attraverso cui questa rappresentazione sarà prevalentemente diffusa, dopo che il terreno le era stato preparato con il sostegno alla strategia di intervento del governo con lo slogan «dalle tende alle case».
La seconda narrazione è successiva e la parola alla quale potrebbe essere simbolicamente legata è disastro, titolo di un libro del 2010 di Francesco Erbani. Anche in questo caso, il mezzo è significativo perché questa narrazione si è sviluppata soprattutto sulla stampa per diffondersi poi attraverso il cinema e in particolare attraverso i documentari: sempre nel 2010, infatti, usciva nelle sale Draquila, l’Italia che trema, di Sabina Guzzanti. Il film, che denuncia la gestione politica del terremoto aquilano, è stato il primo documentario sull’Aquila ad arrivare nelle sale, dove ha ottenuto un notevole riscontro di pubblico grazie alla notorietà dell’autrice, ma anche a una improvvida e involontaria pubblicità dell’allora ministro dei Beni culturali Sandro Bondi. Egli infatti aveva declinato l’invito a presenziare alla proiezione della pellicola al festival di Cannes sostenendo che essa offendeva l’Italia. Proprio in seguito alle polemiche che ne erano nate, la pellicola avrebbe scalato la classifica dei film più visti diventando, nella seconda settimana di maggio, il primo film italiano – e il quinto nella classifica generale – per incassi. Draquila, però, costituisce anche il punto di contatto tra le narrazioni mainstream e quella grassroot, che nel frattempo aveva rappresentato il sisma in modo diverso dalla televisione: alcune sequenze del film, infatti, sono state prese dalla rete, e sempre a Internet la regista ha fatto riferimento per scegliere il titolo della pellicola.
La narrazione grassroot del sisma si inserisce dunque fra i due diversi modelli mainstream e, per quanto sia difficile da ricondurre a unità essendo caratterizzata da frammentarietà e molteplicità di punti di vista, essa sviluppa in linea di massima una funzione controinformativa che si contrappone alla narrazione del ‘miracolo’ e, allo stesso tempo, fornisce spunti ed elementi per quella del ‘disastro’. Essa, inoltre, è l’unica a costruire una contronarrazione del sisma sin dai primi giorni, quando tutta la sfera pubblica mediatizzata era compatta nel sostenere l’operato dello Stato che stava dimostrando un’insolita efficienza, forse attribuibile al «clima instaurato dal governo, che è quello di un interventismo misurato sul fare» (L. Annunziata, Stavolta lo Stato c’è, «La stampa», 7 aprile 2009). Si veda per es. il blog Terremoto: dove gli altri non arrivano che raccoglie i commenti di Monique, «volontaria kamikaze» e «reporter, armata di Macbook, BlackBerry, macchina fotografica e registratore»: il 25 aprile per es., mentre il capo del governo è a Onna, luogo simbolo del sisma, viene pubblicato un post da Colle Di Roio dove «nessuno è ancora andato a scavare». Il giorno successivo, in un altro post che continua a raccontare i disagi dei piccoli paesi intorno a L’Aquila, si parla per la prima volta di una forma di controllo di accesso ai campi della Protezione civile: «questo è un cartellino identificativo: funziona come i tatuaggi nazisti e Ida [di cui viene pubblicata la foto] si sente umiliata, ma senza non può entrare nel campo». Questo aspetto della gestione dell’emergenza finirà per costituire in seguito uno dei filoni della narrazione sul web, in particolare attraverso il lavoro di Alberto Puliafito, un giornalista autore di libri inchiesta sulla Protezione civile di Bertolaso e regista di un documentario del 2010 intitolato Comando e controllo, in cui viene denunciata la gestione autoritaria dell’emergenza.
Talvolta, tuttavia, anche le narrazioni mainstream hanno offerto uno sguardo simile: si pensi per es. alla puntata del 9 aprile 2009 di “Anno Zero”, un programma di approfondimento politico condotto da Michele Santoro, l’unico che, in contrasto con l’invasione di servizi elogiativi dei soccorsi, sceglieva di denunciarne le lentezze, le approssimazioni e, in qualche caso, l’impreparazione. La trasmissione, vista da oltre 4 milioni e 700.000 spettatori, avrebbe scatenato moltissime polemiche, come se «interrogarsi sulla mancata prevenzione» e sulle difficoltà dei primi soccorsi potesse «lacerare il velo di unanime solidarietà che [copriva] L’Aquila» (Erbani 2010, p. 38). Il programma, per dirla con Luc Boltanski, sceglieva la topica della denuncia per raccontare lo «spettacolo del dolore» (Lo spettacolo del dolore. Morale umanitaria, media e politica, 2000). “Porta a porta” di Bruno Vespa, invece, avrebbe usato la topica del sentimento: già la sera del 6 aprile infatti andava in onda con uno speciale sul terremoto che si apriva con un commosso reportage del giornalista, aquilano di origine, nella città distrutta. In qualche passaggio, inoltre, Vespa sembrava adottare anche la terza topica individuata da Boltanski, quella dell’estetica, come quando, per es., mostrava un orsetto di pezza raccolto fra le macerie. Gli spettatori, in questo caso, saranno oltre 6 milioni, quota che nessun’altra trasmissione saprà più raggiungere: un successo che sembrava sottolineare l’efficacia di questi modelli narrativi, che peraltro domineranno tutta la narrazione mainstream.
Naturalmente un evento catastrofico di simile portata costringeva la televisione a stravolgere il palinsesto ordinario: per tutta la settimana, i contenitori mattutini e pomeridiani, luogo deputato all’infotainment, quell’ibrido tipicamente televisivo che fonde informazione e intrattenimento, sarebbero stati quasi interamente dedicati al sisma. In questi programmi dominava la topica del sentimento, accompagnata non di rado da forme deteriori di giornalismo frutto di improvvisazione e impreparazione: si pensi per es. all’inviata di “Matrix” (Canale 5) che apriva le portiere delle automobili dove erano costretti a dormire gli sfollati per chiedere «come mai dorme in macchina?»; ai cronisti della “Vita in diretta” (Rai 2) che inseguivano i terremotati, ancora sotto shock, per chiedergli «come va?»; o, ancora, all’inviato di “Studio Aperto” (Italia 1) che chiedeva a un’anziana signora appena salvata dai vigili del fuoco «Signora, ce l’ha fatta. È contenta?». Il tono emotivo, tuttavia, non permeava solo l’informazione televisiva ma coinvolgeva anche la stampa ed era stato usato da più del 27% degli articoli dedicati al terremoto dalle principali testate italiane nei dieci giorni successivi al 6 aprile; il 24% era stato riservato all’analisi delle responsabilità dell’accaduto, mentre appena il 16% si era occupato dei temi della ricostruzione (cfr. Dominici 2010).
Il quadro dell’informazione locale, invece, era stato piuttosto diverso. Le televisioni abruzzesi infatti avevano dedicato molto spazio alla comunicazione istituzionale, assolvendo così a una ‘funzione di servizio’ che i canali nazionali non avevano avuto. In termini percentuali, il 23,9% del tempo dedicato al terremoto nei telegiornali locali del prime time, nei quindici giorni successivi al sisma, era stato riservato proprio alla comunicazione istituzionale e di servizio, a fronte di un 17,1% dei telegiornali nazionali (Corecom Abruzzo 2010). E lo stesso, per quanto in assenza di analisi numeriche, si può dire del quotidiano regionale «il Centro», dedicato quasi interamente al terremoto e con un’amplissima sezione riservata alle informazioni utili: «chi comprava il giornale la mattina aveva fra le mani un mezzo per orientarsi nel caos di quei momenti», ha scritto Parisse, ricordando anche che «per più di un mese il giornale fu distribuito gratis nelle tendopoli» e che «per diverso tempo […] uscì senza pubblicità (un segnale forte che voleva evitare qualsiasi tipo di speculazione a fronte di una simile tragedia)» (L’Aquila tradita, 2012, p. 159). In una prima fase, anche il web era stato utilizzato con funzioni di servizio, per es. per propagare le informazioni e coordinare gli aiuti: l’Ansa già alle 13,54 del 6 aprile batteva una notizia secondo cui su Facebook erano attivi molti gruppi dedicati al terremoto, fra i quali uno chiamato Aiutiamo l’Abruzzo «per lo scambio di informazioni utili […] o segnalazioni per organizzare “aiuti concreti” per la popolazione sfollata». Inoltre, secondo le prime ricerche empiriche, verso le 15 dello stesso giorno sul social network più diffuso erano attivi già 158 gruppi, il più grande dei quali aveva oltre 28.000 membri (cfr. Firmino 2009). Tutto ciò senza considerare il contributo dei singoli utenti di Facebook che, non di rado, si erano attivati per condividere informazioni o indirizzare gli aiuti. Allo stesso tempo, tuttavia, sin dall’inizio il web aveva assolto anche ad altre funzioni: per es. era stato il ‘cane da guardia’ dell’informazione mainstream, segnalando gli errori e le imprecisioni e integrando le informazioni. Si pensi, per citare un solo caso, al blog Pensieri spettinati che già il 6 aprile aveva segnalato l’uso sul sito del «Corriere della sera» di una foto di repertorio sbagliata, relativa al terremoto del 2008 nella regione cinese del Sichuan. E, ancora, Internet era rapidamente diventato il luogo da cui far ripartire la città: Giorgio Alessandri, per es., su «Il tempo» del 29 aprile segnalava la «riscossa sul web» dei giovani aquilani che, attraverso gruppi Facebook e post, «dimostrano una diffusa voglia di darsi da fare per la rinascita». È allora che viene fondato il Collettivo 99, un gruppo di «giovani tecnici aquilani» che, come si può leggere sul loro sito, dalla fine di aprile, si riuniva per immaginare il futuro della città attraverso il lavoro congiunto di urbanisti, architetti, ingegneri e quella «grande varietà di discipline che si mostra[no] necessarie per la ricostruzione». Molti inoltre, come è stato notato, sembravano cercare, attraverso la partecipazione a forum e gruppi nei social network, «un modo – virtuale – per assicurare prossimità al popolo abruzzese»; e a loro volta
i sopravvissuti alle scosse cerca[va]no in questa modalità partecipativa più corale un contenitore e, al contempo, uno specchio dove dare spazio a un bisogno più riflessivo e auto-riflessivo rispetto al più distanziato “io-sono-qui” (O.R.ES.TE., 2012, p. 161).
La stessa funzione sarebbe stata assolta dai blog, soprattutto quelli individuali, strumento di narrazione del mondo attraverso sé: Colasacco, per es., dopo la scossa si era ritrovata a pensare
ai tanti che erano abituati a leggere i miei post. […] Capii che avrei dovuto rassicurarli. Il mio computer era stato schiacciato dalla parete crollata del mio studio. Chiamai un’amica di Bologna, le detti la password di accesso al mio blog e le chiesi di rassicurare tutti (Giuliani 2012, p. 110).
Appena possibile Colasacco avrebbe nuovamente indossato i panni di Miss Kappa e, usando il suo stile sincero e appassionato, non di rado aggressivo, avrebbe raccontato ciò che accadeva mettendo in scena innanzitutto se stessa:
Non ho avuto paura di mostrare le mie debolezze, il mio scoramento, il mio dolore. E la rabbia. […] Al di là della realtà raccontata dai media, chi voleva leggermi, aveva uno spaccato di vita vera, senza mediazioni. […] (Giuliani 2012, p. 111).
Sin dai primi momenti la rete è anche il luogo dove riemerge la memoria, ricordi a cui aggrapparsi nella fase dello spaesamento che segue il crollo del proprio mondo, fisico, sociale e mentale. Si legga ancora una volta il blog di Colasacco. Il post del 7 aprile è il primo che scrive di suo pugno:
La situazione è tragica. Inenarrabile. Io e la mia famiglia abbiamo perso tutto: case, lavoro, vita passata, radici. TUTTO (…) L’Aquila non è. Fu. E noi tutti con lei. Si entra in città e non si hanno più punti di riferimento. Mio marito è entrato stamani. È tornato al campo sfollati. Non connetteva. Non sapeva più neanche il suo nome.
Per descrivere la propria città la blogger usa un’espressione legata al terremoto del 2 febbraio 1703 e poi sedimentatasi nella memoria collettiva: «la città dell’Aquila fu, non è», è infatti la frase con cui il marchese della Rocca Marco Garofalo, inviato da Napoli per governare l’emergenza, usò per descrivere la città distrutta dal sisma di 6,7 magnitudo momento (pari al X grado della scala Mercalli) che uccise circa un terzo della popolazione dell’epoca. Questa espressione sarà usata spesso dopo l’aprile 2009, instaurando un parallelo con una frattura della storia urbana che ha segnato così tanto profondamente la memoria collettiva che la bandiera dell’Aquila, verde e nera, simbolo del lutto e della speranza, viene fatta risalire a quell’evento. L’esistenza di molte cronache del terremoto settecentesco ha facilitato il sedimentarsi di questa memoria storica nell’immaginario aquilano e ha spinto a cercare assonanze con la catastrofe del 2009. Nei testi del doposisma, infatti, vengono spesso sottolineate le somiglianze fra i due eventi, dalla lunga sequenza di scosse di varia intensità che li precedette alla scarsa preparazione della popolazione. Per fare un solo esempio, si legga il brano di una cronaca settecentesca, ristampata in appendice a un libro di racconti e fotografie pubblicato nel 2009, che sembra rinviare all’impreparazione con cui il sisma è stato affrontato: «a dire di questa povera gente […] niuno aveva prestato ascolto alle loro voci, né a quelle che la terra aveva dato […] per annunciar lo squasso» (G. D’Alessandro, S. Schirato, Sulle rovine di noi, 2009). Si tornerà ancora sui percorsi attraverso cui si tenterà di costruire forme di rimembranza pubblica, collegando la memoria dei terremoti storici con l’attualità; adesso, invece, ci si soffermi su un altro passaggio del post prima citato, la perdita dei punti di riferimento, un sentimento su cui Colasacco torna in un messaggio successivo intitolato “C’è il sole” e pubblicato il 14 aprile:
Ieri pomeriggio sono entrata nel centro storico con una squadra di vigili del fuoco. […] Ciò che i miei occhi hanno visto, per la prima volta dopo il terremoto, è indescrivibile. Immaginate i luoghi della vostra anima, della vostra vita, della vostra memoria trasformati in una spianata di macerie, con pochissimi punti di riferimento. In quel momento ho pensato che sarebbe stato meglio morire. Ho rivisto mia nonna affacciata alla finestra che chiamava me bambina per il pranzo. Papà che mi prendeva per mano e mi accompagnava a scuola. Me stessa che uscivo, vestita da suorina bianca per andare alla Prima Comunione. Cose piccole, ma la mia vita. Ed ho compreso la perdita di identità. La perdita di tutto. Un lutto immane. Comune. Ma terribilmente individuale.
È la descrizione della fine di un mondo, allo stesso tempo fisico e psicologico, una cesura netta come il passaggio di una guerra: «Prima del terremoto, dopo il terremoto – scrive Patrizia Tocci nel suo diario –. Prima della guerra, dopo la guerra. I ricordi si sommano, si confondono» (I gigli della memoria, 2012, p. 187). Altri indicano questa frattura come il passaggio da una vita a un’altra: «se qualcuno mi chiede: quando sono nato? Gli rispondo il 6 aprile del 2009», scrive un ragazzo in un messaggio lasciato sulla bacheca di un gruppo Facebook, e la stessa metafora è usata da Giusi Pitari, autrice di un libro e di un blog molto seguito che hanno lo stesso titolo, Trentotto secondi. Per ritrovare le coordinate della propria esistenza in questo mondo sconvolto, «sparpagliato» per usare ancora le parole di Patrizia Tocci, ci si aggrappa agli oggetti quotidiani, carichi di memorie personali, e ai ricordi dei luoghi, quasi a disegnare una topografia della città attraverso le memorie individuali (O.R.ES.TE., 2012, pp. 185-203). Sentimenti privati che un cortometraggio degli studenti dell’Accademia dell’immagine dell’Aquila saprà raccontare con un breve video intitolato L’essenziale è invisibile agli occhi. Diffuso nel luglio 2009, è stato uno dei primi casi in cui la città e il terremoto sono stati descritti attraverso un film narrativo. I giovani registi – Maurizio Frocella, Michele Giacardi e Lorenzo Puntoni – mettono in scena una situazione allora comune, con una famiglia accompagnata a recuperare alcuni oggetti dalla propria casa inagibile. Il gruppo, scortato dai vigili del fuoco, è composto da una giovane donna e dal suo anziano padre. L’uomo è cieco e, mentre aspetta che la ragazza torni, racconta a un pompiere com’era ‘veramente’ la sua città: nel suo ricordo gli odori, i suoni, le voci e gli invisibili fantasmi della memoria si sostituiscono alle macerie che si parano davanti agli occhi del vigile del fuoco. È un piccolo film poetico che sembra mettere simbolicamente in discussione lo statuto ontologico delle immagini e la loro pretesa di poter raccontare la realtà, e, allo stesso tempo, sembra esaltare la forza della memoria del quotidiano per poter ricostruire un paesaggio sconvolto e irriconoscibile. Una simile memoria caratterizzerà a lungo molte delle produzioni ‘dal basso’ e verrà ulteriormente alimentata da un secondo spaesamento vissuto dagli aquilani e nato dal modo in cui era stata gestita l’emergenza. La Protezione civile, infatti, aveva predisposto tre diverse possibili soluzioni di primo alloggio per gli sfollati: nelle tendopoli cittadine, negli alberghi sulla costa, o in ‘autonoma sistemazione’, formula che includeva qualsiasi soluzione nata dall’iniziativa individuale. Il 6 aprile, secondo i dati del commissario per la ricostruzione, gli sfollati nelle tendopoli erano 35.690, mentre quelli divisi fra alberghi e case private erano 31.769. Questa pluralità di situazioni avrebbe accelerato i fenomeni di dispersione sociale prodotti dal sisma: infatti le reti sociali, e talvolta anche quelle familiari, si erano frammentate, scontando una seconda perdita dell’intimità, già violata dal terremoto, per il ridursi, talvolta fino alla scomparsa, degli spazi privati sia in tenda sia negli alberghi. I testi, spesso in forma diaristica, di chi è ospitato negli alberghi della costa forniscono un ritratto dolente di una condizione che solo apparentemente è meno difficile di quella di chi è rimasto in città. Si legga, per es., il diario di Anna Ventura, sfollata a Montesilvano, capace di ritrarre con toni intensi la quieta disperazione alla quale la sua condizione la costringe:
Ora è un mese che è successo il disastro, e niente sembra cambiato. Tutti sembrano indifferenti; tutto è immobile. […] Vivo una vita puramente vegetativa, una lunga stupida vacanza di cui comincio ad annoiarmi, e di cui non vedo lo sbocco.
Queste annotazioni sono datate maggio e tre mesi più tardi la situazione non sembra essere cambiata:
12 agosto, martedì, sempre (e solo) Montesilvano. La sequela dei giorni, qui, è così insignificante, che fare un diario non ha senso. L’Aquila è ormai remota, sepolta in un’attesa che si prevede infinita.
Anna si costringerà tuttavia a tornare a L’Aquila perché era arrivato il tempo e scrive:
mettere un po’ di ordine, buttare i cocci, riappropriarmi di quello che si è salvato. Da troppo trascuro la realtà aquilana, arroccata come sono nel rifugio marino, timorosa di incrinare un equilibrio che, bene o male, si sta ricreando in un mondo e in un modo tanto diversi» (A. Ventura, Tra domenica e lunedì: 6 aprile – 21 novembre 2009, 2011, pp. 49, 74-75).
Ma si leggano anche le Cronache costiere di Luisa Nardecchia, testi che la stessa autrice definisce ‘nomadi’, in parte perché frutto dei suoi viaggi fra la costa – dove alloggiava – e L’Aquila; in parte perché essi hanno vissuto a lungo – anche in forma anonima – in rete, replicati e condivisi, talvolta addirittura firmati da qualcun altro che se ne era appropriato. Questi percorsi molteplici e polimediali hanno infine conosciuto uno sbocco duplice, da un lato su riviste e siti giornalistici on-line, che li hanno talora rieditati a seconda delle proprie esigenze formali; dall’altro sono stati riadattati e musicati da Animammersa, un gruppo di musica tradizionale che ha raccontato L’Aquila fondendo le canzoni popolari con gli scritti ‘nomadi’ del web. Il racconto di Nardecchia è un accumulo di istantanee della memoria che ben descrive la perdita di punti di riferimento a cui rimanda anche il titolo che, ispirato alle Cronache Marziane di Ray Bradbury, voleva «suggerire lo straniamento che quella situazione comportava, mi sentivo uscita da me, strappata alla mia vita e scrivere era l’unico mezzo che avevo per riprendermela e rientrarci» (Giuliani 2012, p. 85). Un percorso di recupero dell’identità individuale che si sovrappone fino a confondersi con quella della città di cui la scrittrice non vuole dimenticare neppure il freddo, quasi a negare quel «L’Aquila non pervenuta» delle previsioni metereologiche che, nei suoi ricordi infantili, la contrassegnava e che sembra ora una metafora della città terremotata.
Il processo di dislocazione avviato con le politiche emergenziali della Protezione civile proseguirà nei mesi successivi con il piano di ricostruzione varato dal governo e riassunto nello slogan «dalle tende alle case». L’ipotesi di creare rapidamente nuove abitazioni invece che ripristinare le vecchie era stata lanciata già la sera del 6 aprile quando, in un collegamento telefonico con “Porta a porta”, il capo del governo diceva di ritenere possibile
fare qualche cosa che sia straordinario dal punto di vista dei tempi. […] Nel piano casa, che prevede la possibilità di costruire accanto a tutti i capoluoghi di provincia delle new towns, delle nuove città dimensionate secondo le esigenze delle famiglie che non hanno la casa in ciascuna provincia italiana, […] io pensavo di cominciare a fare la prima nuova città da consegnare in tempi rapidissimi, 24 o 28 mesi, di farla appunto di fianco al capoluogo dell’Aquila.
Il giorno successivo Berlusconi aggiungerà, in una conferenza stampa poi mandata in onda il 9 aprile nella trasmissione “Anno Zero”, di garantire personalmente «che le ricostruzioni saranno fatte in tempi rapidi e soprattutto certi». Dunque, quando viene annunciato per la prima volta il progetto non è ancora esecutivo e sembra essere inscritto in un più generale ‘piano case’ a livello nazionale. L’ipotesi suscitava una vasta eco sulla stampa: dagli interventi degli urbanisti a quelli degli uomini di cultura a vario titolo legati all’Abruzzo, la maggioranza dei commentatori riteneva che una ‘new L’Aquila’ avrebbe compromesso la memoria e l’identità del capoluogo regionale. Inoltre, il 9 aprile l’urbanista Pier Luigi Cervellati ricordava che «il furore costruttivo può essere più dannoso di quello distruttivo del terremoto» (Per carità, non facciamo una new L’Aquila, «La Repubblica», 9 apr. 2009) se invece di occasione per ripensare gli assetti urbani e territoriali si trasforma in un ulteriore consumo di suolo. Nonostante le diffuse perplessità, tuttavia, il progetto governativo andava perfezionandosi: dopo aver affermato in una intervista concessa a “La vita in diretta” il giorno dei funerali che il piano sulla new town era stato equivocato, e che esso sarebbe stato solo l’«accelerazione di qualche cosa che potrebbe avvenire anche altrove», il 23 aprile Berlusconi, al termine di un Consiglio dei ministri tenutosi a L’Aquila, mostrava una serie di renderings in cui erano illustrati degli edifici poggianti su lastre di cemento sopraelevate. Erano i piani delle new towns, che iniziavano ora a essere declinate al plurale perché il capo del governo affermava che erano state individuate già 15 aree adatte: come nota Erbani, il progetto era ora «definito, strutturalmente e architettonicamente», «una sfida visionaria di lungimirante follia» come lo definiva il presidente del Consiglio (Erbani 2010, pp. 80, 82).
Del resto, due giorni prima la Protezione civile aveva emesso l’ordinanza nr. 3757 che consentiva al commissario per la ricostruzione di servirsi di società scelte «a carattere fiduciario» per la progettazione dei moduli abitativi, l’individuazione degli spazi dove costruirli e perfino la direzione dei lavori e i collaudi: dunque era possibile assegnare già l’incarico e la società prescelta sarebbe stata la fondazione European centre for training and research in earthquake engineering (Eucentre), nata senza scopo di lucro nel 2003 con la partecipazione dell’Università di Pavia, dell’INGV (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia) e della Protezione civile, che già nell’ordinanza del 15 aprile nr. 3755 aveva ricevuto dei contributi in relazione «ai maggiori oneri sostenuti e da sostenere per […] l’avvio della ricostruzione nelle zone terremotate». Così, a partire dalla fine di aprile iniziava un processo che in pochi mesi avrebbe portato dalla discussione intorno su una ipotetica new town alla costruzione di diciannove new towns, per un totale di 4449 appartamenti capaci di ospitare circa 13.000 persone. Non si trattava di vere e proprie città ma di palazzine condominiali indicate con l’acronimo CASE (Complessi Antisismici Sostenibili ed Ecocompatibili), che tuttavia, per collocazione e tipologia, finivano per creare veri e propri quartieri satellite. Infatti, la scelta della localizzazione era ricaduta su aree periferiche, vicino a quartieri già esistenti come Coppito, zone industriali come Bazzano, o frazioni anche molto lontane dalla città come Camarda. Questa scelta avrebbe innescato processi di disgregazione dell’identità sociale e urbana che già allora venivano previsti dal Comitatus aquilanus, un gruppo di urbanisti e studiosi fondato subito dopo il terremoto che richiamava nel nome il mito fondatore della città. Basandosi solo sui progetti e sulla discussione pubblica, il Comitatus individuava infatti i principali limiti del progetto CASE nel ridurre «l’urbanistica all’edilizia», nell’appiattire «la complessità della città alla banalità della palazzina», nell’abolire «il governo della forma della città [incentivandone], all’opposto, la crescita incontrollata e informe»:
un gruppo di CASE – concludeva – non potrà mai diventare una città se pensato per sopperire esclusivamente a esigenze funzionali individuali, senza alcun riferimento al contesto territoriale e sociale, e anzi, per certi versi, in contrasto con essi (Comitatus aquilanus 2009, pp. 34-36).
In realtà, secondo l’analisi di Antonello Ciccozzi, un antropologo dell’Università dell’Aquila che ha dedicato grande e critica attenzione allo sviluppo di questo progetto sin dal suo avvio, le CASE stavano solo accelerando «una tendenza generale, sommessamente già in atto anche all’Aquila da almeno trent’anni: la dissoluzione della città storica in un sistema urbano diffuso» (Ciccozzi 2011, p. 15). In questo senso, dunque, il progetto, per quanto deciso in sede governativa, aveva finito per essere adattato dall’amministrazione cittadina alle ipotesi di sviluppo urbano che erano già presenti, per es. individuando le aree da edificare, in accordo con la società incaricata della realizzazione del progetto, lungo le linee direttrici di espansione previste dal piano regolatore cittadino. In questa scelta, in ogni caso, il criterio seguito sembra essere stato prevalentemente quello legato alla sicurezza sismica, senza considerare affatto, invece, sia l’impatto paesaggistico che la destinazione d’uso dei suoli la quale, nel circondario de L’Aquila, era rimasta stabile per secoli, in alcuni casi fin dal medioevo. Il risultato è, a cinque anni dal sisma, «un embrione di città diffusa entro un territorio estremamente eterogeneo da un punto di vista della geografia fisica […] e della specificità culturale dei luoghi», tanto che la costruzione delle CASE può essere definita un «evento (ri)fondativo a bassissima reversibilità» (Ciccozzi 2011, pp. 14-15).
In effetti è opinione diffusa che le CASE non siano state semplicemente un elemento della ricostruzione, ma una vera e propria costruzione ex novo da cui, in futuro, l’assetto urbanistico, sociale e perfino identitario non potranno prescindere. Del resto, sin dalla definizione delle CASE come «moduli abitativi destinati a una durevole utilizzazione», il processo di ricostruzione era stato caratterizzato da una certa ambiguità semantica perché ‘durevole’ «si colloca a metà strada, grosso modo, tra “provvisorio” e “definitivo”» (Erbani 2010, p. 10). Si aggiunga che questo acronimo rinvia, in modo esplicito, a «un valore immediatamente comunicabile e comprensibile: la casa, parola semplice, però potente e suggestiva, subito contrapposta alle macerie». Da un lato, riconducendo «la vita […] alla dimensione dell’abitare», si rassicura chi la casa l’ha appena persa; dall’altro, però, si intercetta «la sensibilità diffusa di un’opinione pubblica più generale, che potrebbe apprezzare lo sforzo di chi garantirà una casa e non un prefabbricato» (Erbani 2010, pp. 92-93). L’acronimo tuttavia echeggia anche il linguaggio della tecnica, dominante nell’«età del rischio» (U. Beck, Weltrisikogesellschaft, 2007; trad. it. Conditio humana. Il rischio nell’età globale, 2008): questa egemonia, presente anche nella stampa (cfr. Dominici 2010), ha giocato un ruolo chiave nel normalizzare la complessità emotiva, psicologica e sociale, della situazione postsisma. Si pensi per es. all’efficientismo dell’organizzazione imposta dalla Protezione civile nelle tendopoli, che settori critici dell’opinione pubblica hanno accusato di produrre un processo di ‘ospedalizzazione’ degli sfollati, limitandone fortemente la capacità di partecipazione ai processi decisionali (cfr. A. Puliafito, Protezione civile S.p.A., 2010). Un processo di spersonalizzazione che è stato osservato anche da alcuni studi di geografia sociale secondo i quali il modello organizzativo della Protezione civile ha preso
il sopravvento sulla realtà e sull’ordine reale. Scompare lo spazio pubblico, non vi è più la possibilità di vivere la città come luogo concreto; non è più possibile camminare, parlare, fermarsi, sedersi; nulla è più possibile che non sia legato al circolare in macchina o al chiudersi in tenda e, in un secondo momento, nelle abitazioni rimaste integre. Tutto si rispecifica in funzione della sola possibilità/necessità di spostarsi e di far circolare i beni […]. I centri commerciali, i campitenda, la città puntellata si precisano come spazi in cui gli abitanti si incrociano ma non necessariamente entrano in relazione (Territorio e democrazia, 2012, p. 113).
Anche il linguaggio tecnico, così, sostituendo i termini usuali con gli acronimi finiva per spogliare di senso le cose stesse rendendo ancora più difficile la ricostruzione di un’identità, come sembrava voler dire un cartello appeso alle transenne che delimitavano la zona rossa:
All’Aquila, la parola “casa” non si usa più.
(fa troppo male…)
Usiamo acronimi e sinonimi
CASE (Costruzioni Antisismiche Sostenibili Ecocompatibili)
MAP (Moduli Abitativi Provvisori)
MUSP. (Moduli ad Uso Scolastico Provvisorio)
CAS (Contributo Autonoma Sistemazione)
Il testo, ritratto in molte fotografie, sembrava quasi la metafora della frammentazione dell’identità cittadina. Ma, allo stesso tempo, la sua implicita accusa e il fatto di essere appeso, insieme a decine e decine di mazzi di chiavi, foglietti, cartelli e appunti alle barriere che impedivano l’accesso al centro, lo rendevano anche il segno di una voglia diffusa di riappropriarsi di quegli spazi, reali e simbolici, mostrando come a L’Aquila la scrittura fosse diventata dopo il sisma una risorsa identitaria e uno strumento di sopravvivenza. Si usavano, come ha ricordato Nicoletta Bardi, «tutti i mezzi a disposizione […] per fermare i pensieri che si frantumano» e per opporsi alla «dissoluzione della comunicazione ordinaria, quella che era fatta anche di sguardi, pause, silenzi» (Libri come pietre mille sguardi, «Legendaria», 2010, 81, pp. 16-17): nuovi strumenti, dunque, ma anche un nuovo linguaggio perché, come è stato scritto, «bisognava dire l’indicibile e allora ci siamo attrezzati» (I gigli della memoria, 2012, p. 195).
All’annuncio del piano CASE era seguito quello dello spostamento dell’imminente G8 dalla Maddalena, in Sardegna, all’Aquila: si sarebbe tenuto dall’8 al 10 luglio tra imponenti misure di sicurezza che avrebbero trasformato la città nel «luogo globale della tragedia e del dolore» (Felice 2010, p. 12) ma anche, allo stesso tempo, un ‘non luogo’ perché tutti gli elementi della sua identità e di quella dei suoi abitanti erano stati relegati in secondo piano, innanzitutto dai media. Infatti l’organizzazione del summit internazionale, evento secondario rispetto al terremoto ma dal forte impatto politico, aveva occupato quasi interamente la sfera pubblica mediatizzata. Allo stesso tempo si era attivato un processo di «routinizzazione dell’eccezionale […] sia sul piano organizzativo-redazionale […] sia – soprattutto – sul piano retorico-narrativo» (Oltre il terremoto, 2010, p. 103), che, per così dire, aveva normalizzato il tema del sisma con una conseguente riduzione della copertura giornalistica. Alla fase dell’‘impatto della notizia’ esauritasi in poche settimane, era seguito un lungo periodo in cui la stampa era stata attenta soprattutto alla ‘risposta istituzionale’, spostando il proprio interesse dalle condizioni di vita degli sfollati al dibattito sulla ricostruzione, con un’attenzione particolare per la sfera politica. Con l’autunno, poi, ci sarebbe stato il definitivo ritorno alla normalità che avrebbe fatto uscire di scena il terremoto, nonostante l’attenzione con cui alcuni quotidiani avrebbero continuato a seguire i ritardi e le ambiguità della ricostruzione, o l’emergere di un sentimento di protesta fra gli aquilani. In televisione queste stesse fasi si erano succedute più rapidamente: passata la Pasqua, che aveva offerto una serie di ridondanze emotive immediatamente sfruttate dai programmi televisivi più inclini alla topica del sentimento, le trasmissioni di infotainment mattutine e pomeridiane avevano derubricato rapidamente il sisma a evento secondario, riservando quasi interamente la loro attenzione ai fatti di costume. L’attenzione dei programmi di approfondimento era maggiore, ma in questo caso il racconto del sisma veniva sostituito dalla discussione politica sul sisma: il sistema politico, insomma, aveva riconquistato rapidamente il centro della scena, forte anche dei due veri e propri eventi mediatici costituiti dai funerali e dallo stesso G8. «Il successo della campagna d’immagine per la popolarità e il consenso condotta dal governo cavalcando l’emotività e la visibilità legata ai fatti» era maturato proprio in questa fase (Oltre il terremoto, 2011, p. 119), nonostante a partire da maggio la politica governativa avesse iniziato a essere messa timidamente in discussione dal sindaco dell’Aquila che lamentava l’esautoramento degli amministratori locali nel processo decisionale e la scarsità di risorse. Questa strategia d’immagine, tuttavia, faceva diventare «L’Aquila, suo malgrado, un’icona pop», come scriveva Ilvo Diamanti su «La Repubblica» il 2 agosto 2009: una
investitura [che] comporta dei rischi. Uno, in particolare. Quando si spengono le luci della ribalta, quando le telecamere cambiano obiettivo e i microfoni tacciono. Allora […] i protagonisti finiscono nel retroscena, insieme al loro scenario.
In effetti quello che la televisione raccontava poco o per nulla era il contemporaneo montare dell’insofferenza degli aquilani: per es. quando a metà giugno c’era stata una manifestazione davanti al Parlamento, il TG1 non aveva parlato della protesta ma aveva mandato in onda un servizio sull’inaugurazione di una nuova casa dello studente donata dalla Regione Lombardia. In realtà il malessere si era manifestato già a metà maggio, quando un gruppo di cittadini aveva organizzato una manifestazione per rientrare nella ‘zona rossa’ ma era stato allontanato dalle forze dell’ordine; e poi, ancora, a fine mese, prima con una contestazione contro il governo alla caserma della Guardia di finanza di Coppito, centro operativo della Protezione civile, quindi, il giorno successivo, con un corteo attraverso il centro storico. Il centro storico sarebbe stato attraversato ancora una volta la notte del 6 luglio, con la prima fiaccolata in memoria delle vittime: un modo, affermavano gli organizzatori, il Comitato 3e32, per «riappropriarci del nostro lutto […] per ricostruire insieme il senso e il futuro delle nostre comunità, messi in crisi dalla violenza del sisma, prima, e dall’arroganza del potere, poi» (Cittadini in piazza: «No alle parate», «La Repubblica», 6 luglio 2009). Dunque i comitati cittadini, che avevano iniziato a formarsi subito dopo il sisma, incanalavano e organizzavano la tensione crescente fra gli aquilani che avrebbe trovato la sua manifestazione di maggior impatto mediatico con la grande scritta Yes, we camp sulla collina di Roio. Sovrastando l’autostrada proveniente da Roma, lo slogan – una vera e propria opera di land art – era stato studiato per essere visto dai ‘potenti della terra’ nel momento in cui entravano in città e si sarebbe imposto rapidamente all’attenzione della stampa internazionale. Esso deformava lo slogan «yes we can» che aveva accompagnato la campagna elettorale di Barak Obama, ironizzando su quanto aveva incautamente affermato il presidente del Consiglio alla televisione locale AbruzzoLive Tv, l’8 aprile: la permanenza in tenda avrebbe dovuto essere vissuta dagli aquilani come qualcosa di «assolutamente provvisorio… ecco, bisogna prendere questo come un camping da fine settimana». Il motto sarebbe diventato anche il titolo di un documentario del 2009 di Alberto Puliafito che, nato da una collaborazione con Repubblica.it, raccontava «in forma diaristica il dopoterremoto all’Aquila, come non è mai stato fatto vedere in televisione», come spiegava il blog della casa di produzione IK Produzioni. Nato sul web e distribuito in modo indipendente, il lavoro di Puliafito si pone all’incrocio tra le produzioni mainstream e grassroot, ed è un esempio di come a L’Aquila, in quegli stessi mesi, stesse nascendo una narrazione ‘dal basso’ alternativa a quella ufficiale.
Come abbiamo visto, il web è stato sin dai primi momenti successivi al sisma un importante strumento di coordinamento degli aiuti e di diffusione delle informazioni, per poi trasformarsi in un luogo virtuale di organizzazione dal basso degli aquilani sia attraverso i social network, sia attraverso i siti dei comitati. Al fondo c’era l’idea che attraverso la rete potesse esprimersi una «intelligenza collettiva» che, per usare le parole di Manuel Castells, «trascende le preferenze individuali ma, al contempo, influenza le pratiche delle persone», in particolare dei prosumers di Internet (M. Castells, La Galaxia Internet, 2001; trad. it. Galassia Internet, 2002, p. 45), ovvero di coloro che non limitandosi a essere consumatori passivi dei contenuti della rete, ne producono a loro volta. Si tratta, insomma, di un’intelligenza collettiva che ben si esprime nelle pagine wiki dedicate al terremoto del 2009, strumenti di consultazione generati collettivamente e su base volontaristica in cui vengono raggruppate informazioni, notizie, link utili per muoversi nell’‘altro’ terremoto, «ambienti social in cui il contributo del singolo, individuale, viene fornito con l’intenzione precisa di ricostruire qualcosa che sarà oggetto o parte della memoria collettiva» (O.R.ES.TE., 2012, p. 162). Allo stesso tempo il web, meta-medium narrativo (cfr. L. De Carli, Internet, memoria e oblio, 1997), è il luogo dove convergono frammenti di racconti, testuali e audiovisivi, che danno vita a una magmatica e proteiforme narrazione del terremoto. Inizialmente essa aveva avuto soprattutto una funzione documentaria e commemorativa: molti sono i video postati su Youtube che mostrano le conseguenze del terremoto, i primi soccorsi, le prime peregrinazioni – anche clandestine – nella zona rossa, o i primi rientri nelle case pericolanti. Altrettante sono quelle in cui si commemorano le vittime del terremoto, omaggi sentiti – per quanto spesso ingenui – che, forse proprio per l’uso dilettantesco della grammatica audiovisuale che sembra rifarsi al motto «broadcast yourself», rappresentano l’espressione più pura del contenuto user generated.
Rapidamente, però, i video postati su Youtube avevano iniziato a configurare una contronarrazione del racconto egemonico che abbiamo visto provenire dall’ambito televisivo e la cui capacità di penetrazione era agevolata dalle caratteristiche del consumo mediale italiano. Nel 2009, infatti, la televisione (compresa quella digitale e satellitare) costituiva il medium principale per il 97,8% della popolazione italiana mentre solo il 34,5% degli italiani leggeva abitualmente i quotidiani. In questo panorama, inoltre, il 26,4% della popolazione aveva una ‘dieta mediale’ esclusivamente audiovisiva, ovvero si informava solo attraverso la televisione. Nello stesso anno, tuttavia, c’era stato un aumento dei fruitori di Internet, pari al 47% degli italiani, mentre i dati relativi all’uso di social network e siti di video sharing erano più contraddittori: se Facebook e Youtube erano ben conosciuti (rispettivamente dal 61,6 e dal 60,9% della popolazione), venivano usati solo dal 25,9 e dal 30,9%; inoltre, solo il 3,5% degli utenti Facebook usava il social network per informarsi (Censis-Ucsi, I media tra crisi e metamorfosi, 2009). Due anni più tardi, tuttavia, il panorama sarebbe apparso ampiamente trasformato: se i telegiornali continuavano a essere la principale fonte informativa degli italiani (usata dall’80,9% della popolazione), il loro primato era ormai stato messo in crisi dalla fuga del pubblico più giovane (solo il 60,9% dei giovani fra i 14 e i 29 anni li usava come principale mezzo informativo) che si rivolgeva principalmente a Internet (il 49% usava siti Internet di informazione, il 23,9% i quotidiani on-line e ben il 61,5 Facebook). La rete, infine, conquistava il primato della credibilità come fonte di informazione, mentre la televisione era ultima, superata anche da radio e giornali (cfr. Censis-Ucsi, I media personali nell’era digitale, 2011).
È proprio la scarsa credibilità della televisione uno dei temi ricorrenti dei video postati su Youtube che hanno per tema il terremoto del 2009. Si pensi, per fare un solo esempio, a un frammento del TG1 del 7 aprile 2009 in cui la conduttrice elencava per un lunghissimo minuto i dati di ascolto registrati dal notiziario il giorno precedente: su Youtube la clip viene ripresa almeno da una decina di diversi utenti e visualizzata decine di migliaia di volte. Tale appropriazione e il riutilizzo di frammenti del flusso televisivo sono una delle caratteristiche peculiari di Youtube: è chiaro che il senso di queste ‘schegge’ televisive cambia nel caso in cui esse vengano rimontate con l’inserimento di un testo, oppure accostandole ad altri frammenti, secondo le logiche sperimentate sin dall’inizio degli anni Novanta dal programma di Rai 3 “Blob”, l’unico peraltro a criticare il modello narrativo televisivo del sisma sin dai giorni immediatamente successivi, come nelle puntate intitolate “Cemento DisArmato” o “Share sismico”, dell’8 e del 9 aprile.
Anche il semplice isolamento di un frammento televisivo, come nel caso citato, ne comporta la risignificazione: questo processo viene chiamato «redazione» ed è «una forma di produzione senza riduzione del testo» (J. Hartley, Television truths: forms of knowledge in popular culture, 2008, p. 112) che decontestualizza il frammento per poi ricontestualizzarlo attraverso l’aggiunta di elementi paratestuali richiesti dal sistema (il titolo, il commento, le tag identificative ecc.). I video così prodotti vengono successivamente reimpiegati in altri contesti (blog, siti, social network), che ne moltiplicano esponenzialmente la visibilità e contribuiscono a modificarne ulteriormente il senso: in questo modo ciò che potrebbe venire inghiottito dal flusso televisivo e rapidamente dimenticato rimane invece nella memoria collettiva, con un senso che muta a seconda del contesto in cui è collocato. Allo stesso tempo, però, il riutilizzo di frammenti del flusso televisivo su Youtube mostra il rapporto sinergico, per quanto asimmetrico, fra la sfera della comunicazione mainstream e quella narrowcast e grassroot: quest’ultima, infatti, controlla la prima e ne critica la scarsa attendibilità o la parzialità; a sua volta i media mainstream osservano quelli user generated, traendone informazioni e notizie da inserire nei propri circuiti. Talora il contatto fra le due sfere avviene con modalità oppositive: riferendosi all’incauto elenco dello share del giorno del sisma fatto dal TG1, per es., Giuliani ha raccontato di «un fatto piccolo ma straordinario che accadde giovedì 9 aprile 2009» quando
sul portale Internet del telegiornale in questione apparve per molte ore una scritta al centro del monitor, che invitava cortesemente a non mandare più e-mail di protesta dal momento che, diceva, “il messaggio è stato recepito” (Giuliani 2012, p. 11).
Per quanto sia difficile verificare un episodio volatile come questo, esso tuttavia mostra l’attenzione con cui la sfera della comunicazione mainstream guarda a quella grassroot. Un interesse che talvolta la porta a riutilizzare i materiali diffusi in rete: si pensi all’effetto moltiplicatore che la lunga permanenza sulle pagine del sito Internet di “Fahrenheit” (RadioTre), nella sezione dedicata a “Un libro per l’Abruzzo”, ha avuto per il breve video Nota video di un terremutato, realizzato da Francesco Paolucci tra aprile e maggio 2009. Questo video può essere preso a esempio di un altro punto di contatto fra la sfera della comunicazione mainstream e quella user generated, perché si pone idealmente sulla scia dei primi videoracconti non televisivi del sisma: si tratta dell’iniziativa Registi tra le macerie che il quotidiano «La Repubblica» aveva pubblicato dall’8 al 12 aprile con cinque contributi di importanti registi italiani, in forma di articolo e video fatti uscire rispettivamente sul giornale e sul sito Internet. L’iniziativa del quotidiano presentava un nuovo tipo di narrazione audiovisiva che, pur utilizzando immagini simili a quelle della cronaca televisiva, usava un linguaggio profondamente diverso e molto personale che poteva assumere la forma del reportage come quella del videoclip: suo malgrado, questo modello narrativo avrebbe finito per costituire un nuovo ‘canone’, il racconto d’autore che, pur ancorato alla cronaca, è svincolato dalle sue esigenze e dal suo linguaggio elementare, e può adottare una grammatica narrativa più cinematografica che televisiva. Allo stesso tempo i video di «La Repubblica» possono essere considerati un’anticipazione del ruolo che le immagini avrebbero giocato nel racconto del terremoto aquilano e mostrano, anche, che il racconto del terremoto che prenderà forma in rete può in qualche misura rendersi autonomo da quello dei media egemonici.
Altrettanto indipendenti da quel modello narrativo, sia nella forma che nel contenuto, sono i cortometraggi che nascono e circolano in rete ma vengono finanziati da enti pubblici e media mainstream. Si tratta di un’altra narrazione ibrida che mostra il processo di convergenza fra media differenti, il cui esempio più interessante è stato From zero.tv (2009), nato da un’idea di Stefano Strocchi e realizzato da Davide Barletti, Alessia Deninno e Giotto Barbieri con il sostegno della Croce rossa italiana, della Banca dell’Adriatico, della Regione Abruzzo e, sul piano internazionale, della rete all news Al Jazeera. Si trattava di una web tv temporanea che, dalla tendopoli di Centi Colella, tra il 15 settembre e il 24 dicembre 2009, ogni giorno metteva in rete un video di tre minuti che raccontava piccole storie di ricostruzione e rinascita seguendo da vicino quello di cui non si parlava sui media tradizionali, la vita quotidiana di chi cercava di lasciarsi alle spalle l’emergenza.
Uno sguardo ad altezza d’uomo, dunque, che diventa la cifra distintiva di molti materiali user generated: si pensi ancora alla già citata Nota video di un terremutato in cui il registro del diario è usato per mescolare cronaca e annotazioni private, nel tentativo di mettere ordine nel convulso affastellarsi di emozioni che agitano l’autore, la paura, il dolore e la rabbia, ma anche la voglia di ricominciare. Benché la soggettività sia dominante, nel racconto è presente anche la comunità, pure essa ‘terre-mutata’ e in cerca della propria identità collettiva (cfr. Paolucci 2009). In realtà, questa ricerca è sottesa anche a materiali più vicini al linguaggio televisivo che a una cifra stilistica autoriale (come quella cercata da Paolucci o da Luca Cococcetta, un altro filmmaker aquilano che produce molto materiale sul terremoto) o prettamente amatoriale (che contraddistingue invece la maggior parte della produzione user generated): si vedano per es. i materiali prodotti dalle molte web televisions che iniziano a nascere a L’Aquila subito dopo il sisma. Abruzzo24oretv, Abruzzolive, Aquilatv.it, inabruzzotv, L’Aquila99 tv e le altre hanno avuto il grande merito di aggregare una città dove non esistevano più punti di riferimento […] la forza di intrufolarsi nelle piaghe della tragedia utilizzando le pieghe della rete. Hanno trovato il coraggio di dire anche ciò che non era conveniente dire (S. Secondi, Web Tv all’ombra delle macerie, «Legendaria» 2010, 81, p. 37).
Queste web tv sono riuscite a coinvolgere le persone e a raccontarle senza mediazioni. Partendo dalla percezione che il terremoto veniva descritto secondo schemi che non corrispondevano alla realtà, queste piccole emittenti sono state in grado di intercettare il desiderio di settori della popolazione di raccontare ciò che non veniva mostrato dalle telecamere dei media mainstream, spingendoli a trasformarsi in citizen journalists (attori non professionisti di un giornalismo ‘partecipativo’). In questo modo le web televisions aquilane sono state in grado di contribuire alla (ri)costruzione delle relazioni sociali. Il forte bisogno di condivisione emotiva, sia a livello individuale che collettivo […] ha trovato nelle web TV una possibilità di oltrepassare le rappresentazioni spettacolarizzate ed egemonizzate fornite dai media ufficiali e di scavalcare la monocorde architettura informativa imbastita dalla tv tradizionale (O.R.ES.TE., 2012, p. 167).
Si tratta di dinamiche che hanno trovato espressione anche attraverso i media più tradizionali: nei mesi successivi al terremoto, infatti, il bisogno di raccontare e raccontarsi ha fatto aumentare a dismisura la produzione libraria, soprattutto attraverso la piccola o piccolissima editoria locale. Così, tra il 2009 e il 2012, secondo un calcolo approssimato per difetto, sono stati pubblicati più di duecento titoli, oggi meritoriamente raccolti nella loro massima parte da due istituzioni preposte alla conservazione della memoria, la biblioteca provinciale Salvatore Tommasi e la Deputazione di Storia patria. Come nel caso della produzione narrativa user generated che viene veicolata attraverso Internet, anche questa produzione letteraria, che nella maggior parte dei casi potremmo definire minore e ‘spontanea’, è estremamente frammentaria, sia dal punto di vista della qualità che della tipologia. Tuttavia, ciò che qui interessa è rilevare come la gran parte dei testi, e in particolare quelli prodotti nel primo biennio postsisma, sia accomunata dal bisogno di raccontare il trauma del terremoto e, allo stesso tempo, di riannodare i fili della memoria, sia quella individuale sia quella collettiva. La forma che questa scrittura spesso assume, assomigliando in questo ai blog o alla successione degli status sulle pagine personali di Facebook, è il diario. Sia nel caso di diari personali sia in quello di diari ‘collettivi’ – si pensi a un volume curato da Angelo De Nicola che raccoglie le lettere spedite a «Il messaggero» ed è significativamente intitolato Il nostro terremoto (2009) –, scrivere diventa «una sorta di catarsi corale» che serve a «dare un senso a quanto ci è capitato». In entrambi i casi, tuttavia, i testi non sono altro che il prendere «atto definitivamente della tragedia che è stata, dei morti, di una città in ginocchio», a cui si accompagna un indebolimento dell’identità comunitaria perché quei «venti secondi hanno cancellato una memoria collettiva» (P. Aromatario, Ricomincio da zero anzi da 3,32, 2009, p. 135).
Di fronte a questa identità comune compromessa, alcuni cercano rifugio nella memoria letteraria. Errico Centofanti, per es., ha usato la scrittura di Gadda per rievocare una città idealizzata, un luogo della memoria ormai scomparso per sempre: i suoi articoli del 1934 su «La gazzetta del popolo» sono infatti, scrive, «il più prezioso ritratto letterario dell’Aquila che sia stato finora pensato [...], ma, ormai, anche l’ultimo possibile: perché di quell’Aquila lì, dopo il 6 aprile del 2009, resta poco più d’una sterminata spianata di ruderi» (La gran cornata, 2009, p. 17). La forte polarizzazione delle narrazioni del sisma spinge, in molti casi, a fare un uso politico della memoria storica dei terremoti che hanno interessato L’Aquila: accade con Ignazio Silone, di cui un utente del sito di photo sharing Filckr cita una frase a proposito di «brogli frodi furti camorre truffe malversazioni d’ogni specie», della «ricostruzione edilizia per opera dello Stato» che poi verrà spesso ripresa (l’utente si chiama Sibemolle99 e la foto, che ritrae i ruderi di una casa dove i nonni erano stati sfollati dopo il terremoto del 1915, si trova all’indirizzo http://www.flick.com/photos/sibemol;le99/3419876905). Ma accade anche con le cronache del terremoto del 1703 di cui, come si è visto, vengono spesso colte le similitudini con quello attuale: ancora Centofanti, per es., abbandonate le evocazioni letterarie, scrive che
nel 1703, L’Aquila non volle morire. Per quanto di modesta levatura e autorevolezza […] i reggitori del Comune furono all’altezza della loro funzione di esempio e guida per la comunità […] tennero saldamente in mano le fila dell’emergenza, interloquirono notte e giorno con i concittadini, fecero muro contro la pretesa governativa di rifare L’Aquila altrove, mantennero unita la comunità e viva la città. […] Il terremoto del 2009 s’è manifestato in modo non troppo dissimile. Non troppo dissimile quanto all’evento sismico in sé. Purtroppo le somiglianze finiscono qui, perché dopo la Cornata delle Tre e Trentadue della breve notte fra il 5 e il 6 d’Aprile è venuta la Gran Cornata della lunga notte che tuttora dura e durerà (La gran cornata, cit., pp. 25-26).
La stessa equazione, ma con segno inverso, verrà evocata da Paolo Vercesi in un articolo su «Il messaggero» del 17 maggio intitolato La paura, gli errori e la ricostruzione: ma mentre Centofanti sottolineava la distanza fra le due gestioni dell’emergenza, il giornalista definiva il Marchese della Rocca «l’esperto della protezione civile» paragonandolo, anche nell’aspetto fisico, a Bertolaso. Tuttavia, al di là dei suoi usi retorici, questa memoria storica sembra essere stata molto labile in città. Lo racconta con un breve, significativo passaggio il diario di Dante Bellini. Dopo tre mesi di scosse passate a farsi domande alle quali non sa dare risposte sul terremoto, l’autore scrive esasperato, il 29 marzo:
Ma cosa ne so io di tutto questo!? Mi ricordo qualche leggero terremoto da bambino e so che ce ne fu uno terribile nel 1703. Morire oggi per un fatto naturale anche se catastrofico pare a tutti un’idea balzana (Chiuso per terremoto, 2009).
Del resto, come ha sottolineato Rita Salvatore,
benché la storia della città fosse contrassegnata da ripetuti terremoti distruttivi, la memoria storica e quella sociale sembrano non aver giocato alcun ruolo. Ho vivo il ricordo di quando a metà degli anni Ottanta il territorio aquilano fu colpito da un breve sciame sismico… nessuno dei miei conoscenti, dei miei parenti, dei miei vicini si sarebbe azzardato a dormire in casa se non ci fossero stati chiari segnali di una stabilizzazione del fenomeno. […] Che cosa ci è successo a distanza di poco più di un ventennio? (O.R.ES.TE., 2012, pp. 211-12).
La memoria collettiva del rapporto che la città ha con il terremoto, con le sue componenti storiche, letterarie e finanche leggendarie, sembra dunque essere andata scomparendo, ulteriore segnale di un progressivo indebolimento dell’identità cittadina che la dispersione della popolazione e la chiusura del centro storico in una zona rossa presidiata militarmente avrebbero contribuito ad aumentare. Da questo punto di vista, però, il sisma è sembrato avere anche un effetto positivo, costringendo gli aquilani a ricostruire da zero le proprie memorie individuali e, contemporaneamente, quelle comunitarie fino a ripensare l’identità cittadina. Paradossalmente, anche la riproposizione di stereotipi identitari sugli aquilani sin dai primi giorni dopo il sisma finirà per aiutare questo processo. Allo stereotipo più noto, l’abruzzese forte e gentile, si affianca quello dell’aquilano fiero. Entrambi sono immediatamente presenti nelle cronache giornalistiche e nelle trasmissioni televisive: già il 7 aprile, per es., in un programma pomeridiano di Rai 2, “Italia allo specchio”, si afferma che gli abruzzesi
sono un popolo fortissimo di antiche tradizioni contadine pastorali, abituato a reggere l’urto degli elementi […] non sono persone che stanno lì ad aspettare che arrivi da qualche parte un segnale risolutivo.
Benché l’abbondanza di stereotipi di questo genere risponda all’esigenza semplificatrice dell’infotainment, il loro uso finisce per appiattire la complessità della realtà trasformando il terremoto in un fondale di macerie, una quinta scenica di fronte alla quale l’attenzione si sposta su quelli che si sono definiti ‘fatti secondari’. Allo stesso tempo, però, i luoghi comuni servono a rafforzare alcuni caratteri di un’identità ‘terre-mutata’ e tutta da ricostruire: «forti e gentili sì, ma fessi no» affermava per es. uno striscione esibito durante una delle prime proteste, trasformando uno degli stereotipi più banali in un nuovo generatore di identità. Lo stesso accade per il dialetto, che inizia a essere usato negli sms, nei post su Facebook, e nelle scritture ‘nomadi’ della rete, aumentando la loro somiglianza a una ‘voce popolare’. Si pensi, tanto per fare un esempio, alla poesia in dialetto “Ju tarramutu”, attribuita a Fulvio Giuliani, versi che, da un lato, esorcizzano la paura del sisma ma, dall’altro, riaffermano un’identità comunitaria, riscoprendo un dialetto che è stato definito ‘nascosto’.
È come se allo spazio fisico distrutto o alterato dal sisma […] – hanno notato due linguisti dell’Università de L’Aquila – si fosse sostituito lo spazio linguistico. La comunità, di fronte al rischio del “non esserci”, ha attuato una scelta esibita […] in favore del dialetto, divenuto una fondamentale forma di aggregazione e di percezione di quella identità collettiva minacciata e in parte “fisicamente” sgretolata (Avolio, Giammaria 2011).
Questa caratteristica contraddistingue anche alcuni brevi video di grande successo in rete che ironizzavano sul terremoto e sull’identità aquilana, i ‘dice che’. Realizzati da Paolucci e Mauro Montarsi, questi sketches dall’effetto spesso irresistibilmente comico sono stati costruiti con le ‘chiacchiere’ della gente, quelle voci sempre più incontrollate che giravano in città subito dopo il terremoto. Modellati su un registro ironico molto diffuso in rete, essi svelavano ritardi, paradossi e disfunzioni del ‘miracolo aquilano’, mettendo al centro della scena, attraverso i due personaggi che le davano voce, la comunità aquilana. La quale, a sua volta, si riconosceva in queste ‘chiacchiere’, nonostante spesso venissero usate con affilata ironia per metterne in evidenza i difetti: probabilmente questo processo di identificazione si è realizzato, in parte, per l’appartenenza degli autori alla stessa comunità, ma anche perché vedere i ‘dice che’ era un modo per vedere se stessi da un’altra prospettiva e riconoscersi in una ‘città di parole’ che rispecchiava, magari anche deformandola, la ‘città di rovine’. L’alterazione della realtà attraverso l’ironia e il paradosso, del resto, era forse anche un modo per sopportare la trasformazione della vita quotidiana seguita al sisma e, in qualche modo, è stata l’equivalente di un’altra forma di ‘resistenza’ alla riorganizzazione forzata degli spazi individuali e collettivi operata nella fase emergenziale, la ‘controinformazione’.
Con la consegna delle prime case, la narrazione incentrata sul ‘miracolo’ toccava il suo punto più alto. Ancora una volta, il canale attraverso cui veniva diffusa era la televisione: il 15 settembre una puntata speciale di “Porta a porta”, intitolata L’Aquila e tutto il resto, celebrava l’imminente consegna dei primi lotti di CASE e il giorno successivo “Unomattina” raccontava l’ingresso dei cittadini di Onna nelle nuove abitazioni costruite con il contributo della Provincia autonoma di Trento. Ai toni trionfalistici dei programmi televisivi si contrapponevano gli articoli più attenti della stampa: «il Centro», per es., dava conto delle proteste di gruppi di cittadini che chiedevano di «ricostruire L’Aquila dal basso» e si domandavano – come recitava uno striscione che accoglieva Berlusconi – «L’Aquila riparte con i cittadini sparsi da ogni parte?», mentre «La Repubblica» descriveva, con i reportages di Jenner Meletti, la situazione di «quell’Abruzzo rimasto al 6 aprile». Tuttavia era soprattutto il web a dare forma a una narrazione radicalmente alternativa a quella televisiva, proseguendo il percorso di controinformazione che aveva intrapreso già nelle prime settimane successive al sisma. Si pensi, per fare un solo esempio, al post del 15 settembre di Miss Kappa intitolato “Berlusconi a Onna” in cui Colasacco raccontava il ‘dietro le quinte’ di ciò che era andato in onda durante i telegiornali: una sola ‘casetta’ pronta per la consegna, preparata come un set televisivo, e circondata da cittadini che protestavano, tenuti a distanza dalla polizia. «Non so cosa si riuscirà a vedere in televisione della nostra protesta. Probabilmente poco o nulla. Ma c’è stata», concludeva.
La crescente indignazione di una parte degli aquilani era sostenuta dalla percezione che il racconto televisivo, e in particolare quello delle due emittenti più viste, Rai 1 e Canale 5, fosse sempre più distante dalla realtà: «prima terremotati poi… ostaggi mediatici. Grazie Vespa», recitava per es. uno striscione esposto durante la consegna delle case di Onna, che rimproverava al giornalista aquilano di non aver fatto parlare i propri concittadini durante la sua trasmissione. Ma era soprattutto il TG1, diretto dal maggio 2009 da Augusto Minzolini, a essere oggetto di critiche: veniva accusato di non raccontare gli eventi, o di deformarli in modo da mettere in una luce positiva l’operato del governo, tacciando di ingratitudine e disfattismo quegli aquilani che lo criticavano. Si pensi al silenzio sulla manifestazione del 16 giugno 2010 in cui migliaia di cittadini, insieme ai rappresentanti della provincia e dei comuni di differenti appartenenze politiche, avevano invaso per protesta l’autostrada A24. Così, nel corso del 2010, l’informazione mainstream veniva sempre più spesso contestata, come sarebbe accaduto a Maria Luisa Busi inviata all’Aquila per un servizio di Tv7. Criticata da un folto gruppo di cittadini, la giornalista si difenderà dissociandosi dalla «intera linea editoriale del Tg1 dopo il terremoto»: «posso solo dire – aggiungerà – che quello che ho visto con i miei occhi è assai più grave di come talvolta è stato rappresentato» (M.L. Busi, Brutte notizie, 2010, p. 30). Come era capitato alla giornalista, in quei mesi chiunque andasse a L’Aquila per la prima volta dopo il terremoto faticava a trovare le tracce del ‘miracolo’ raccontato sugli schermi. Giuseppe Caporale ha ben descritto la differenza fra il suo sguardo e quello di Walter Nanni, un giovane regista con cui aveva appena iniziato a lavorare al documentario Colpa nostra (2010):
Ricordo il suo smarrimento, la sua incredulità, la sua rabbia: quello che aveva visto in tv era diverso. Ricordo la differenza dei nostri sguardi. Il mio, stanco di guardare quelle macerie e con tanta voglia di dimenticare. E il suo, avido di capire, di sapere» (Caporale 2011, p. 125).
Saranno proprio i documentari a colmare il divario tra la narrazione del ‘miracolo’ e la realtà cittadina: se alcuni erano già usciti nel 2009, la maggior parte verrà prodotta nel 2010 e alcuni di essi, grazie all’apertura del mercato dopo il successo di Draquila, saranno ospitati nei festival e trasmessi su emittenti satellitari. Il conflitto tra rappresentazione e realtà sarà uno dei fili conduttori che accomuneranno documentari anche molto diversi tra loro: si pensi a L’Aquila immota manet di Rosita Rosa e Alessandro Galassi (trasmesso su un canale satellitare nell’ottobre 2010) e Ju Tarramutu di Paolo Pisanelli (2010). Se il primo usa in modo quasi didascalico il racconto televisivo del sisma come filo conduttore, contrapponendogli il punto di vista di una giornalista locale, il secondo si concentra invece sulle storie individuali lasciando la televisione e la sua narrazione in secondo piano, quasi come un rumore di fondo che interferisce appena con la ripresa della vita quotidiana: non è un caso, infatti, che spesso le televisioni siano inquadrate in campo lungo, in spazi vuoti o quasi, come se il chiacchiericcio che producono fosse destinato al vuoto. Due modi diversi per raccontare la «città più mistificata d’Italia», per usare il claim di lancio del film di Pisanelli, che tuttavia hanno contribuito a mettere in crisi la narrazione fino ad allora dominante. Tuttavia sono stati soprattutto il web e i media partecipativi a dare forza e visibilità a un altro punto di vista: per es. era possibile trovare su Youtube tutti gli episodi negati alla cronaca dai telegiornali grazie a una fitta rete di citizen journalists, più o meno occasionali. Alcuni blog, come Verso L’Aquila, richiamavano sin dal titolo «la distanza tra il terremoto e l’informazione» e i social network, infine, sembravano essere diventati il provvisorio sostituto dei luoghi d’incontro reali e sulle loro pagine andava organizzandosi la riconquista degli spazi cittadini da cui gli abitanti erano stati a lungo esclusi. Dopo la fiaccolata notturna di luglio, ha raccontato Giusi Pitari,
l’8 dicembre allestimmo un grande albero di Natale e ognuno portava una decorazione e le foto dei parenti e degli amici morti. La notte di capodanno accendemmo 308 fiaccole, una per ogni vittima. Per il 14 febbraio avevano pensato a una manifestazione in cui ci saremmo vestiti da fantasmi. Cittadini fantasma per una città fantasma (Erbani 2010, p. 51).
La manifestazione però non si sarebbe mai realizzata perché il 12 febbraio i quotidiani pubblicavano un’intercettazione telefonica fra due imprenditori edili in affari con la Protezione civile, Francesco Maria De Vito Piscicelli e il cognato Pierfrancesco Gagliardi:
Gagliardi: Oh, […] occupati di ‘sta roba del terremoto perché qui bisogna partire in quarta subito… non è che c’è un terremoto al giorno…
[…]
Piscicelli: Eh certo, io ridevo stamattina alle tre e mezzo dentro al letto.
Gagliardi: Io pure… vabbuò, ciao (Caporale 2011, p. 75).
Come ha scritto Erbani, questo episodio «strappa il velo di solidale pietà che avvolge il terremoto abruzzese» (2010, p. 32) svelando, per usare le parole degli investigatori, un «sistema gelatinoso» di corruzioni e affari illeciti
che vede interagire un gruppo ristretto di imprenditori per sopperire alle più varie esigenze di alcuni dirigenti della Protezione civile e del Ministero delle Infrastrutture.
Come contropartita, gli imprenditori potevano godere di rapporti privilegiati con i funzionari, con particolare riferimento ai lavori finanziati nell’ambito dei Grandi Eventi, che allora erano di competenza della Protezione civile (Caporale 2011, p. 83).
La mobilitazione dei cittadini aquilani era stata immediata: dapprima virtuale, sui social network, per es. con il gruppo Facebook chiamato Quelli che all’Aquila alle 3.32 non ridevano, e poi con una manifestazione, il 14 febbraio, che invadeva il centro storico, riappropriandosi degli spazi comuni a lungo negati. Inizialmente si sarebbe dovuto trattare solo di
una passeggiata, un momento per incontrarci. Per abbracciarci. Per confrontarci. Per dire no agli sciacalli che sono venuti a speculare sulla nostra disgrazia. – ha raccontato Anna Colasacco – Poi la rabbia è montata. […] E abbiamo forzato le transenne ed il posto di blocco (miskappa.blogspot.it, 15 febbr. 2010).
Era la prima volta che i cittadini si riappropriavano della loro città: nelle settimane successive, con il passaparola, i gruppi Facebook, gli sms, il movimento, iniziato spontaneamente, si strutturava e domenica 21 febbraio veniva indetta una manifestazione chiamata ‘delle mille chiavi’, «quelle delle nostre abitazioni, da appendere alle transenne che ci vietano l’ingresso in centro storico», scrive ancora la blogger in un post intitolato “Le mille chiavi della nostra vita”. Cominciava allora il cosiddetto movimento delle carriole che, per alcune domeniche successive, avrebbe ripulito il centro storico dalle macerie che ancora ne ostruivano le strade: era, come mostrano decine di video in rete, un momento di grande partecipazione collettiva, con lunghe file di donne, bambini, anziani, uomini, giovani, che si passano di mano in mano i secchi pieni di frammenti della città che sembrava essere tornata viva dopo quasi un anno di abbandono. Soprattutto, il movimento era partecipato ‘dal basso’ e si attivava grazie al passaparola e agli SMS. Scriveva un giornalista del quotidiano «Il centro»:
“Sallustio t’aspetta alle 9.30. Non arriva’ tardi che ce sta da lavora’, ma ce sta pure lo magna’”. Il messaggino lo ricevi puntuale sul telefonino dopo ora di cena, quasi come una convocazione per la partita della domenica. Le carriole non si fermano, in una città che riscopre settimana dopo settimana gli stimoli per ritrovarsi in piazza [...] e alla mobilitazione si aggiunge oggi un presidio permanente nel tendone di piazza Duomo (F. Iuliano, Carriole e musica, il popolo insiste, 14 marzo 2010).
E tuttavia, come ha notato Erbani, il «punto dolente» è che la parola partecipazione si era trasformata velocemente in «una specie di feticcio politico-lessicale»: «quando si chiede di strutturarla, dandole qualche regola per farla funzionare, Protezione civile, sindaci, assessori, consiglieri comunali, presidenti di Regione e consulenti tecnici prendono il volo» (2010, p. 52). In effetti, questa forma di ‘democrazia partecipativa’ metteva radicalmente in discussione il modello di gestione della ricostruzione seguito fino a quel momento, che aveva trascurato – se non addirittura volutamente emarginato – la partecipazione cittadina preferendo il government, ovvero un «modell[o] istituzional[e] vertical[e] basat[o] sulla gerarchia delle competenze», a una governance caratterizzata invece da
dispersione del potere pubblico entro e oltre i confini dello Stato, […] depotenziamento della centralità della legge e del carattere autoritativo delle amministrazioni pubbliche in favore della negoziazione e della concertazione, […] crescita del “diritto delle reti” e della plurisoggettività degli attori (Mantini 2010, p. 19).
Un modello che era stato applicato anche sul piano amministrativo, in cui «la scena è stata largamente dominata dai poteri speciali dell’emergenza, di connotazione autoritaria»: e se questa scelta era comprensibile nella fase iniziale di gestione dell’emergenza, in seguito, durante la fase della ricostruzione, sarebbe stato più utile «giovarsi di forme adeguate di partecipazione dei cittadini e delle associazioni ai procedimenti amministrativi» (Mantini 2010, p. 30). Anche la fase della ricostruzione non riuscirà a uscire da questo ‘fastidio della partecipazione’, com’è stato chiamato: in realtà, anzi, la fase emergenziale sembrerà prolungarsi nella gestione commissariale che inizierà il 1° febbraio 2010 con la nomina del presidente della Regione Gianni Chiodi a commissario speciale per la ricostruzione. In un primo tempo il processo di ricostruzione sarà condotto in una sorta di diarchia con il sindaco Cialente, che apparteneva a un altro partito, e le divergenze fra i due finiranno per avere esiti paralizzanti. Non sorprende dunque che, due anni più tardi, il passaggio a una governance partecipata, accompagnata da una semplificazione normativa, sarebbe tornato a essere raccomandato nello studio dell’OECD (Organizatin for Economic Cooperation and Development) intitolato Policy making after disasters: helping regions become resilient – The case of post-earthquake Abruzzo. Tale passaggio, infine, sarebbe stato alla base dell’azione che il ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca avrebbe avviato, dal gennaio 2012, per far finalmente partire la ricostruzione.
Sul piano delle rappresentazioni pubbliche, però, il 2010 avrebbe segnato una svolta, ben rappresentata dall’analisi che il Censis dedicava a L’Aquila nel suo rapporto del 2009 sulla situazione sociale del Paese: il centro studi riconosceva infatti l’efficacia dell’azione statale nella fase di emergenza ma, allo stesso tempo, non mancava di sottolineare che la ricostruzione era ancora tutta da iniziare, smentendo così implicitamente la narrazione del ‘miracolo’. Nel corso dei mesi questo tipo di rappresentazione inizierà a dissolversi, sottoposta a critiche concentriche: dapprima il movimento delle carriole, poi il primo anniversario, riporteranno la stampa quotidiana a interessarsi della città che, come scriverà «Il messaggero», si troverà di fronte a «un’istantanea che avremmo potuto scattare 365 giorni fa» (L. Ermini, Alla ricerca della normalità un anno dopo il sisma, «Il messaggero», 5 aprile 2010). Ma si legga anche quanto scriveva «La stampa», quotidiano che si era sempre caratterizzato per una posizione poco connotata politicamente e molto attenta ai drammi umani:
Ci siamo dimenticati dell’Aquila, o almeno abbiamo pensato che da quelle parti le cose andassero, se non bene, molto meglio. Abbiamo visto in tv la consegna delle casette antisismiche, la gente sorridente, abbiamo sentito la canzone che dice domani è già qui, e di nuovo la vita sembra fatta per te. Così ci siamo distratti. Ma L’Aquila è una città fantasma, e il domani chissà quando arriverà (M. Brambilla, L’Aquila viaggio nella città morta, «La stampa», 21 marzo 2010).
In realtà, negli anni successivi l’attenzione della stampa quotidiana non avrebbe smesso di essere intermittente, attivandosi soprattutto con l’avvicinarsi dell’anniversario del sisma o in occasione dei processi che la procura aquilana andava portando avanti, ma la sua narrazione, già critica nei confronti del ‘miracolo’, avrebbe completamente cambiato di segno: si pensi agli articoli di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella (L’Aquila tre anni dopo: tutto uguale, «Corriere della sera», 7 marzo 2012) oppure agli interventi di Salvatore Settis (Un futuro per L’Aquila preda dell’indifferenza, «La Repubblica», 10 maggio 2013). Anche in televisione la retorica del ‘miracolo’ si sarebbe indebolita: si pensi, per es., alla puntata che “Porta a porta” dedicava all’Aquila il 6 aprile 2010, in cui alcuni cittadini accusavano Vespa di essere poco informato, lamentando la mancata ricostruzione. Lo scontro mostrava in diretta due diverse idee di ricostruzione, da un lato quella puramente edilizia e, dall’altro, quella fondata sulla rinascita di una comunità; allo stesso tempo, la polemica che la trasmissione avrebbe innescato su Internet rivelava che i due media iniziavano a confrontarsi alla pari. L’anno successivo, infatti, quando in una trasmissione pomeridiana di intrattenimento una concorrente racconterà di una città ormai completamente ricostruita, verrà prontamente smentita attraverso la protesta montata in rete, e da lì passata ai quotidiani on-line e a quelli cartacei, che sveleranno infine come tutta la storia fosse solo un copione (Sangiovanni 2013, pp. 137-38). Del resto, accanto ai programmi di approfondimento capaci di raccontare con sensibilità e attenzione il postsisma come “Presadiretta”, nuove informazioni sulla realtà aquilana arrivavano da trasmissioni che utilizzavano un linguaggio nuovo, nato dalla fusione di quello tipico dei video user generated con quello televisivo: si pensi alle cinquantesima puntata di “Tolleranza Zoro” di Diego Bianchi, andata in onda all’interno di “Parla con me”, programma di Rai 3 di Serena Dandini, che raccontava con ironia, ma anche con partecipazione e rabbia, una città in gran parte in rovina, in cui una comunità disgregata stava cambiando lentamente anche le abitudini di vita quotidiana. Di fronte a una convergenza mediatica sempre più evidente, i linguaggi si sarebbero ibridati: si prenda come esempio l’esperimento del «Corriere della sera» intitolato Le (r)esistenti in cui si fondono linguaggio giornalistico, televisivo e narrowcast per raccontare, come dice Nicoletta Bardi, le «donne che si sono fatte carico di famiglie, oggetti, case. E della città»; o, ancora, ai tanti videoreportages realizzati per le versioni on-line dei principali quotidiani.
Del resto, come rilevava il Censis, l’uso di Internet si stava diffondendo sempre di più: se nel 2011 veniva usato dal 53,1% della popolazione, l’anno successivo questa percentuale sarebbe salita al 62,1%. Il 66,6% dei fruitori di Internet aveva una pagina Facebook e il 61,7% usava Youtube, costruendosi una propria ‘dieta mediale’ autonoma e trasversale: in particolare, per quanto riguarda il profilo informativo, il Censis affermava che su dieci italiani, la metà usava tutte le fonti informative disponibili, da Internet ai quotidiani, tre utilizzavano solo i media tradizionali, uno guardava solamente la televisione e l’ultimo non si informava affatto (Censis, Rapporto sulla situazione sociale del paese, 2011, 2012).
Dunque fra il 2010 e il 2011 la narrazione diffusa cambiava di segno, mentre cresceva la consapevolezza che a L’Aquila non c’era stata ancora la ricostruzione ma, più che altro, una vera e propria costruzione che aveva definitivamente disarticolato un assetto territoriale e sociale già fortemente compromesso. A essa, tuttavia, non corrispondeva quella stagione di rinascita civile che il risveglio della partecipazione popolare era sembrata annunciare: le elezioni amministrative del 28 e 29 marzo 2010 erano state un segnale inequivocabile del ripiegamento delle speranze delle settimane precedenti. Si votava per il presidente della provincia e Stefania Pezzopane, del Partito democratico, che aveva gestito con dignità e competenza la fase dell’emergenza e che sembrava destinata a vincere, veniva sconfitta dal candidato del centrodestra, pur risultando prima a L’Aquila città: la conferma, l’anno successivo, del sindaco Cialente non avrebbe cambiato la situazione di generale ripiegamento, di cui il lento progresso della ricostruzione sembrava essere una spia significativa. Del resto, è probabile che in questa situazione abbiano pesato anche le tradizionali rivalità fra le diverse circoscrizioni amministrative della regione e il dualismo fra L’Aquila e Pescara, l’una capoluogo istituzionale e l’altra centro commerciale e politico della regione, ma entrambe sede di uffici amministrativi regionali.
Anche sul piano delle narrazioni sembrava esserci una certa stasi: molti materiali user generated sembravano dividersi tra le funzioni di commemorazione e di rammemorazione, ma in entrambi i casi non sembravano essere in grado di elaborare la memoria della città. Allo stesso tempo si assisteva a una rarefazione dell’attività di alcuni fra i più attivi produttori di narrazioni grassroot: I ‘dice che’, per es., cessavano nel 2011 perché, come hanno raccontato gli autori, erano diventati un tormentone fine a se stesso, smarrendo l’iniziale forza di denuncia, di rivelazione di un modo di essere (cfr. Giuliani 2012). Nello stesso anno anche Colasacco diluiva i suoi interventi sul blog fino a scrivere, il 4 aprile:
Il blog è fermo da tempo. Troppo. Il silenzio è voluto. Voluto perché nulla c’è da raccontare. Se non piccole cose di piccoli uomini. […] Voluto perché la mia vita, le nostre vite sono ancora sospese. Come due anni fa. […] La popolazione sbandata, sfiduciata, sempre più disgregata, accetta la realtà che vede come ineluttabile. Si adatta, pur soffrendo. […] Questa comunità, per ora, all’inizio del terzo anno della nuova non vita, nella quale ha scelto di relegarsi, non merita di essere raccontata.
Il percorso tracciato dai titoli dei tre libri che Parisse ha dedicato al terremoto appare emblematico di questo processo di disillusione: il primo, Com’era bella la mia Onna, pubblicato nel 2009, rappresenta il momento del lutto e della memoria; Il secondo terremoto, pubblicato nel 2010, descrive lo sgretolamento sociale e territoriale che era seguito alla ‘ricostruzione’; il terzo, del 2012, s’intitola L’Aquila tradita e traccia il profilo delle speranze disilluse di una ricostruzione, sociale oltre che materiale, partecipata. La città, infatti, non è stata ‘tradita’ solo dallo Stato e dal modello di ricostruzione governativa, ma anche e soprattutto dall’insipienza dei suoi amministratori, dalle loro «piccole furberie e infine dall’individualismo e dall’arte di arrangiarsi» dei suoi stessi cittadini,
miserie che hanno attecchito all’interno stesso di una comunità aquilana che troppo spesso, e senza averne sempre titolo, si è autodefinita “orgogliosa” di sé: (Cavalieri 2012, p. 5).
Anche in quest’ultimo tornante del lungo percorso della città verso la ricostruzione emergono narrazioni differenti. Da un lato c’è la persistenza della memoria, il desiderio tenace di continuare a raccontare se stessi e la città: alcune produzioni grassroot sottolineano come essa, ancora vuota e abbandonata, non sia popolata da fantasmi ma da voci che possono ancora risuonare per chi le sa ascoltare (cfr. Ianni, Paolucci 2013). È lo stesso sentimento che muove alcuni testi di memorie, che non si fermano al ricordo del terremoto ma cercano di essere espressione anche della ‘seconda vita’ degli aquilani: Patrizia Tocci, per es., ha costruito un «racconto collettivo» con le memorie delle prime 12 ore della nuova vita di cinquantacinque persone che ha fuso con le memorie nascoste della città, rappresentate dai gigli di ferro che adornavano i palazzi aquilani e che, secondo la scrittrice Laudomia Bonanni, erano stati messi «a testimonianza e gratitudine per essere scampati al disastro» del 1703.
Quei gigli – commenta Tocci – sono ormai l’anima della città, la memoria della città. […] Memoria stratificata nelle memorie dei luoghi, nella consuetudine delle usanze, nella topografia della memoria, nell’ubicazione dei quartieri, nella storia delle famiglie. […] La memoria degli odori, delle luci, dei profumi, dei rumori, delle voci di una città che non c’è (I gigli della memoria, 2012, p. 7).
Da un altro lato, invece, c’è chi ritiene che sia ora di andare oltre, che non ci sia più «bisogno di ricordare, di sfogliare le antiche cartoline dell’Aquila […]. Ora è il tempo di cambiare, di voltare pagina, […] di far lievitare idee nuove […] di dire con chiarezza quale città vogliamo» (Cavalieri 2012, pp. 5-6). Sembra andare in questa direzione, per es., l’industria editoriale che, dal 2011, si orienta sempre di più verso la saggistica, cronaca e analisi del mutamento sociale e antropologico da un lato, ma anche, dall’altro, ipotesi e progetti di una città futura. Del resto, è in questa direzione che sembra andare la candidatura della città a capitale europea della cultura per il 2019, sostenuta da una serie di siti che cercano di coniugare la storia della città con un’idea di sviluppo futuro. Eppure queste due linee non sono completamente divergenti e trovano un punto di incontro in un progetto che vive sul web ed è stato realizzato da Google, dal comune e dall’Università dell’Aquila, dall’Associazione nazionale delle famiglie emigrati e dall’architetto Barnaby Gunning: Noi L’Aquila. Si tratta di una mappa della città, basata su Google Maps, che chiunque può arricchire con i propri ricordi, testuali, fotografici o video, ma anche proponendo modelli di ricostruzione degli edifici attraverso un programma di modellazione 3D: è un progetto che unisce attività professionali (come la modellazione in 3D o alcune interviste realizzate dallo staff del sito) e user generated, presupponendo l’esistenza di una comunità virtuale che, attraverso la condivisione dei propri ricordi, può contribuire a ricostruire la memoria della città distrutta e a prefigurarne il futuro. Questo sito, così come la campagna per L’Aquila 2019 (arenatasi però alla fase di preselezione), mostra anche un attivismo istituzionale del tutto nuovo, ma ancora interamente da interpretare: per es. un video molto curato che l’assessorato alla ricostruzione del comune ha realizzato in occasione dei tre anni dal sisma, tutto centrato sul rapporto fecondo fra la memoria della città e la prefigurazione del suo sviluppo futuro, sembra essere stato più che altro il frutto di una campagna d’immagine che sfruttasse i primi passi della ricostruzione del centro.
Se a cinque anni dal terremoto del 2009 la narrazione pubblica ha ormai cambiato segno, riconoscendo i limiti del progetto di ricostruzione voluto dal governo allora in carica, sembra allo stesso tempo aver perso di vigore. Del resto, è difficile dire quanto sia restato nella memoria diffusa della narrazione del ‘miracolo’: si ha la sensazione che lo scontro fra le due narrazioni sia stato interpretato da alcuni settori dell’opinione pubblica come un aspetto del confronto politico e che la loro polarizzazione non sia perciò venuta del tutto meno. Certo è che le narrazioni ‘dal basso’ che avevano minato la narrazione del miracolo sembrano essere più episodiche, anche se continua il lavorio dei siti di informazione, alcuni dei quali con una spiccata propensione alla ‘controinformazione’. Quel fermento che animava la rete, tuttavia, pare essersi esaurito, o forse solo rintanatosi nel flusso bidirezionale dei social network: si pensi al gruppo Facebook Per non dimenticare L’Aquila che si propone di «seguire l’andamento della ricostruzione, le problematiche attraverso le notizie dei media, con commenti, critiche e proposte», ma è un gruppo ‘chiuso’, a cui, cioè, si può accedere solo su invito. È chiaro che in questo ‘riflusso’, per così dire, un ruolo importante è giocato dalla nuova quotidianità che si è andata affermando; allo stesso tempo esso pare essere il riflesso della delusione per una stagione di democrazia partecipata che sembra aver prodotto risultati inferiori alle aspettative; e, infine, è probabilmente conseguenza di una crisi politica, sociale ed economica che, come mostrano i rapporti del CRESA (Centro Regionale di Studi e Ricerche Economico Sociali), era preesistente al terremoto del 2009.
Il sisma e la soluzione edilizia che gli è stata data sembrano, per il momento, aver prodotto una frattura che la memoria fatica a ricomporre: simbolico appare, da questo punto di vista, un gruppo chiuso di Facebook dedicato a L’Aquila immagini e ricordi che non accetta «immagini post-terremoto». Del resto, le narrazioni e le memorie del sisma sono state così frammentate e contrapposte che, probabilmente, sarà difficile produrne una condivisa e unitaria, se non altro perché, per larghi tratti, hanno insistito su fratture politiche e ideologiche che continueranno a riprodursi. Addirittura, per ora, la possibilità stessa della memoria sembra essere messa in discussione in un video di Paolucci, che pure aveva raccontato con grande attenzione il sisma e le sue conseguenze: «E se fosse stato tutto un sogno?», si chiede il protagonista della storia sul lettino di uno psicanalista, elencando le molte e contraddittorie storie del dopoterremoto. Eppure, conclude, «quello di cui più sento la mancanza sono le luci arancione dietro le finestre delle case del centro storico, e le ombre delle persone che camminavano all’interno delle case» (Paolucci 2013), ovvero la memoria di una quotidianità che era anche una delle anime della città, e che potrebbe essere un punto da cui ripartire: una conclusione provvisoria per una storia che è ancora da scrivere.
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Tutte le pagine web si intendono visitate per l’ultima volta il 16 settembre 2014.