Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Dal secondo dopoguerra gli oceani e l’Antartide sono oggetto di un imponente processo di appropriazione che tuttavia assume modalità differenti. Mentre nel primo caso si ha una vera e propria estensione della giurisdizione degli Stati costieri su porzioni di mare immense, nel caso dell’Antartide è lo sfruttamento delle risorse del continente a essere al centro di un processo di irregimentazione alquanto esclusivo a opera del cosiddetto “club antartico”, una scelta che suscita reazioni forti da parte degli esclusi.
Uno dei tanti effetti perversi del comportamento predatorio dell’uomo nei confronti della natura è il grave depauperamento delle risorse biologiche del mare. Nell’arco del Novecento, l’incremento della popolazione terrestre unito a uno straordinario sviluppo della tecnologia applicata alla pesca – dall’impiego di sistemi assai sofisticati per localizzare i banchi di pesce alla costruzione di autentiche fabbriche galleggianti che permettono di lavorarlo durante la navigazione – ha finito per rendere quasi sterili aree un tempo eccezionalmente generose. Le “guerre del pesce” si contano ormai a decine: celebre quella dell’ippoglosso – uno dei più grandi pesci piatti d’Europa che vive nell’Atlantico del Nord – che ha coinvolto Canada e Spagna, e di riflesso l’intera Unione Europea, nel 1995. La concezione groziana del mare libero, aperto al transito ma anche allo sfruttamento, declina dunque con l’affermarsi della percezione che le risorse del mare possono facilmente essere sfruttate oltre la loro capacità di reintegrazione e che la sostenibilità è una scelta che comporta costi talvolta considerevoli in termini economici e sociali.
È in realtà dagli anni Sessanta che il mare si trova al centro di un interesse politico nuovo e più intenso rispetto all’epoca in cui era concepito quasi esclusivamente come uno spazio liquido, straordinaria via di comunicazione e specchio sul quale far risplendere il proprio potere armando flotte imponenti e temerarie. Intorno alla metà del secolo scorso si fa largo una consapevolezza senza precedenti che investe varie questioni: le zone più pescose liberamente accessibili appaiono vieppiù esposte ai rischi di comportamenti guidati dalla logica del profitto immediato, emerge il valore economico dei giacimenti di noduli polimetallici, la tecnica consente di estrarre gas e petrolio offshore utilizzando piattaforme progressivamente più lontane dalla terraferma, nuovi sottomarini rendono minacciose le profondità degli oceani. Non stupisce dunque che gli anni Ottanta siano caratterizzati da un imponente processo di “appropriazione” del mare che corrisponde a una notevolissima riduzione degli spazi di proprietà comune.
Sino al 1958, quando si conclude UNCLOS I (United Nations Conference on the Law of the Sea), la maggior parte degli Stati esercitava la propria sovranità su una fascia di mare antistante la costa pari a tre miglia marine (in passato la sua ampiezza era determinata dalla gittata dei cannoni), benché fosse già presente una tendenza all’ampliamento di questo spazio. Un primo passo in direzione dell’appropriazione del mare era rappresentato dalla conclusione della Convenzione sulla piattaforma continentale che riconosceva a ciascun Paese il diritto di sfruttare il fondo e il sottofondo del mare antistante le proprie coste sino a una profondità di 200 metri o anche oltre se questo fosse stato tecnicamente possibile. Il grande cambiamento avviene però soltanto nel 1994, quando entra in vigore la normativa sottoscritta durante UNCLOS III. Oltre a fissare il confine delle acque territoriali a 12 miglia, essa introduce una nuova figura giuridica: la “zona economica esclusiva”. Questa si estende per 200 miglia nautiche dalla costa e comprende l’intero ambiente marino (superficie, massa acquea, fondo e sottofondo, e tutte le risorse che vi sono contenute) sul quale ciascun Paese esercita la piena giurisdizione. Nell’arco di 50 anni, la porzione di mare soggetta a giurisdizione nazionale, con effetti estremamente importanti per lo sfruttamento delle risorse e le politiche di tutela dell’ambiente, passa quindi dalle 3 miglia del mare territoriale alle duecento della zona economica esclusiva, crescendo più di 60 volte. La sostenibilità delle attività dell’uomo che ruotano attorno al mare – non soltanto il prelievo di risorse, ma anche l’immissione di inquinanti – è dunque oggi più che mai affidata alla cooperazione internazionale, per una gestione integrata delle aree di pertinenza statuale e per una congiunta di quelle comuni, che sono l’alto mare e la porzione di fondo e sottofondo corrispondente.
Proprio per sottrarre a uno sfruttamento indiscriminato i fondi marini (deep seabeds), nel 1970 una risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU li dichiara infatti “patrimonio comune del genere umano”. Benché lo scopo di questa decisione sia esclusivamente quello di garantire un’equa distribuzione dei profitti derivanti dalla commercializzazione dei minerali depositati sul fondo dell’alto mare – nel rispetto dei principi di solidarietà internazionale che all’epoca sostengono il tentativo di varare un nuovo ordine economico – è opportuno che sia proprio questa logica a guidare le politiche pubbliche internazionali per il mare, ampiamente previste dagli accordi quadro per l’ambiente e affidati alla conclusione di trattati ad hoc necessari per affrontare problemi specifici e locali. Una parte considerevole della popolazione mondiale, soprattutto in Asia, conta essenzialmente sulle proteine che derivano dai prodotti ittici per il proprio sostentamento. E qui l’acquacultura, che ha conosciuto una crescita importante soprattutto grazie alla Cina, è fondamentale, ma non si può dimenticare che in molti Paesi in via di sviluppo la pesca artigianale è l’unica fonte di reddito per tante famiglie e un’importante, insostituibile, fonte di approvvigionamento di cibo soprattutto in situazioni critiche, determinate da eventi naturali o conflitti. Vale la pena di sottolineare che la nozione di “patrimonio comune del genere umano” unisce generazioni presenti e future imponendo l’adozione di un’ottica di lungo periodo, cruciale per garantire la sostenibilità dello sviluppo in tutti i suoi aspetti.
Pure l’Antartide, eccezionalmente inospitale per l’uomo con il suo clima gelido e apparentemente povero di risorse appetibili, nel corso degli ultimi decenni si è trovato al centro di un contestato processo di “appropriazione”, seppure di genere diverso rispetto a quello che ha interessato gli oceani, da parte di un ridotto numero di membri della comunità internazionale. Per disinnescare il contenzioso sorto a seguito delle pretese, avanzate da taluni Stati, di affermare la propria sovranità su porzioni del continente e stabilirne l’uso pacifico, al termine dell’Anno Geofisico Internazionale 1958, viene siglato da 12 Paesi il trattato di Washington. Entrato in vigore nel 1961, l’accordo congela le rivendicazioni di sovranità, mette al bando qualsiasi attività di carattere militare e si propone, come scopo principale, di promuovere la cooperazione per la ricerca. Per prendere parte al processo decisionale, una volta ammessi, occorre manifestare un “interesse attivo” per l’Antartide, testimoniato dalla conduzione di costose e tecnicamente complesse attività di ricerca: un criterio di per sé assai selettivo che non mancherà di suscitare aspre critiche nei confronti dei membri originari che lo hanno stabilito. Le parti contraenti istituiscono infatti un meccanismo di consultazioni periodiche allo scopo di scambiarsi informazioni, discutere materie di interesse comune, formulare e raccomandare ai propri governi misure utili a promuovere i principi e gli obiettivi del trattato, fra i quali sono esplicitamente comprese la tutela e la conservazione delle risorse biologiche. Sarà proprio un’interpretazione estensiva di questa disposizione a consentire l’evoluzione dell’accordo nella direzione, non originariamente prevista, di una gestione complessiva dell’area.
Benché all’epoca il termine non fosse ancora entrato a far parte del lessico internazionalistico, attorno al continente di ghiaccio era stato così creato il “regime internazionale”. Privo di una struttura materiale (elemento che lo distingue dalle organizzazioni internazionali), un regime favorisce informalmente la continuità della cooperazione attraverso l’istituzionalizzazione di principi, norme e procedure decisionali che alimentano reciproche aspettative di affidabilità fra i partner. Una formula, questa, che si rivelerà particolarmente efficace in relazione ai problemi ambientali. Questi ultimi non si prestano infatti a essere affrontati una volta per tutte, attraverso un singolo accordo cioè, ma richiedono una costante attività di adeguamento delle norme alle condizioni dell’ecosistema che si propongono di tutelare.
Dopo un lungo periodo di relativo disinteresse per questo estremo angolo di mondo, verso la metà degli anni Ottanta, complice l’intrecciarsi di due processi distinti e fra loro indipendenti, la “questione antartica” torna prepotentemente alla ribalta. Nell’agenda internazionale, il problema entra su pressione degli esclusi, fra i quali risultano particolarmente attivi i non allineati e i membri dell’Organizzazione dell’Unità Africana, parecchi dei quali avevano tra l’altro acquistato soggettività giuridica con l’indipendenza, dopo che l’accordo era stato siglato. Costoro denunciano l’appropriazione, da parte dell’esclusivo “club antartico” che andava peraltro accogliendo sempre nuovi Paesi europei (dall’Austria all’Ungheria, dall’Italia alla Romania, incluse le due Germanie, la Grecia e l’Olanda e molti altri), non del continente in sé (giacché le rivendicazioni di sovranità restano sospese proprio in virtù dell’accordo), ma delle sue sorti e delle sue risorse.
Lo spirito iniziale del regime è infatti significativamente cambiato col tempo. La prospettiva dello sfruttamento delle risorse marine biologiche (disciplinato dalla Convenzione di Canberra, sottoscritta nel 1980) e minerarie (Convenzione di Wellington, conclusa nel 1988), progressivamente più significativa rispetto agli originari, nobili progetti di cooperazione per la ricerca, rende vieppiù intollerabile la struttura oligarchica del gruppo che si arroga il diritto di decidere chi abbia titolo a partecipare, discriminando i Paesi più deboli. Una percezione accentuata dal fatto che questo cambiamento avviene contestualmente all’affermarsi, nell’ambito del diritto internazionale, del principio che talune risorse – come i noduli polimetallici depositati sul fondo dell’alto mare – siano “patrimonio comune del genere umano”, e dunque i proventi dello sfruttamento delle medesime debbano essere ripartiti fra tutti i membri della comunità internazionale secondo principi di giustizia distributiva. La richiesta di un nuovo ordine economico internazionale che rifletta i bisogni e rispetti i diritti dei Paesi più deboli finisce insomma per scontrarsi con l’evoluzione del regime antartico che segue, nel medesimo periodo, una traiettoria evolutiva opposta.
Nella varietà delle circostanze, di fatto e di diritto, ciò che le condizioni del pianeta suggeriscono è che l’ingrediente necessario di qualsiasi ricetta per affrontare la crisi ecologica nei suoi molteplici aspetti è il senso di responsabilità, individuale e collettiva.