Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
A partire dalla fine del Quattrocento e per tutto il Cinquecento, a Roma e nelle corti italiane, si diffonde un vero e proprio fervore archeologico che porta alla comparsa di ricchissime collezioni antiquarie e spinge gli artisti a confrontarsi in modo nuovo con il retaggio classico e, talvolta, a trasformarsi in veri e propri archeologi.
L’apparizione di un’opera quale l’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, stampata a Venezia, con splendide illustrazioni, per i tipi di Aldo Manuzio nel 1499, testimonia quanto tale fervore fosse patrimonio dei circoli umanistici più attenti.In questo periodo si aprono nuove strade per l’archeologia e per il commercio di antichità. Da Mantova, Isabella d’Este, che svolge un ruolo trainante nelle mode culturali del periodo, in una lettera parla di "insaciabile desiderio nostro di cose antiche". Come consulenti e intermediari per l’acquisto di antichità, Isabella si avvale di artisti del calibro di Andrea Mantegna e Giancristoforo Romano; lo stesso Giancristoforo, insieme a Michelangelo Buonarroti, sarà uno dei primi ammiratori del Laocoonte che viene riportato alla luce nel 1506.
Il Laocoonte, nobilitato dalla puntuale citazione pliniana che ne permette l’immediata identificazione, trova immediatamente una consona sistemazione: già tre anni prima, infatti, Giulio II aveva incaricato Donato Bramante di sistemare la zona adiacente ai palazzi vaticani che diverrà il celeberrimo cortile del Belvedere.
La struttura bramantesca e la raccolta ospitata si arricchiscono e, nel corso del secolo, vengono alterate per iniziativa dei successivi pontefici, conoscendo anche episodi di relativa sfortuna, come dimostra lo sbrigativo giudizio sunt idola antiquorum ("non sono altro che idoli degli antichi"), pronunciato da Adriano VI negli anni Venti, o la dispersione minacciata nel 1566 da Pio V, con la motivazione che "non conveniva a chi era successore di Pietro tener simili idoli in casa". Nel cortile, tuttavia, trovano progressivamente posto i capolavori della statuaria antica più ammirati e studiati, dal Torso del Belvedere alla Venus felix, ospitati in nicchie e strategicamente disposti. Quella del Belvedere è la più importante collezione a cielo aperto di statuaria antica, ma certo non è l’unica, né la prima: sempre a Roma, nel 1500, il cardinale Cesarini espone nel suo giardino le sculture classiche della sua collezione; in seguito, molto rinomata è la collezione del cardinale Dalla Valle, di cui – grazie a un’incisione – possiamo oggi ricostruire l’aspetto.
Una serie di epigrafi ci tramandano le finalità che guidano l’allestimento della collezione, sottolineandone il valore d’incitamento all’emulazione degli antichi, l’utilità come raccolta di modelli per gli artisti contemporanei e il carattere pubblico della raccolta che viene così a essere ad amicorum iucunditatem civium advenarumque delectationem ("di godimento e diletto per gli amici, i concittadini e gli stranieri"). Anche in altre città fioriscono i "giardini all’antica" e le esposizioni di antichità nei cortili: grazie a una testimonianza di Machiavelli, sappiamo che nei fiorentini Orti Oricellari di casa Rucellai vengono esposte statue romane; Lomazzo ci tramanda il ricordo del cortile di Palazzo Archinto a Milano, dove sono disposte statue antiche proveniente da Roma; altri cortili adorni di statue sono ricordati a Bologna da Pietro Lamo.
Se per le statue la sistemazione in giardini e cortili appare particolarmente adatta, è tuttavia impensabile adottare gli stessi criteri per le opere di minori dimensioni, quali frammenti di sculture, bronzetti, cammei, medaglie e così via. Tali oggetti, come già accadeva nel Quattrocento, trovano la loro sistemazione in ambienti interni, quali gli studioli, favorendo il rapporto esclusivo e privato tra il collezionista e il suo tesoro. Ne è testimonianza (oltre al Ritratto di Andrea Odoni di Lotto) una celebre lettera di Pietro Bembo che, nel 1542, già cardinale a Roma, scrive: "Io non posso più portare oltre le mie medaglie e qualche altra cosa antica che sono nel mio studio costì [a Padova]. Perciò sarete contento di portarmi [...] le medaglie d’oro, tutte; [quel]le d’argento, tutte [...]. Il Giove, il Mercurio e la Diana di bronzo, e quello oltre a questo che a voi piacerà portarmi". Tra le collezioni romane di opere di minor formato, è celebre la collezione del cardinale Rodolfo Pio da Carpi, che ci viene descritta nel 1550 da Ulisse Aldrovandi. Situata nel palazzo cardinalizio al Quirinale, la raccolta è distribuita in cinque ambienti, e consta di busti, torsi, medaglie, bronzetti, epigrafi, e perfino placchette e lucerne.
Lo stesso Aldrovandi ci tramanda la descrizione della collezione del cardinale Cesi, che appare come una soluzione tesa a eliminare la rigida alternativa tra interno ed esterno, instaurando una continuità tra il giardino e il palazzo. La collezione è dominata dall’Antiquario, padiglione costruito nel giardino e destinato a ospitare statue e busti, con invenzioni inedite e spettacolari, quali le basi girevoli che permettono di ammirare da ogni punto di vista i gruppi statuari di Pan e Apollo, Venere e Cupido e il cigno.
È proprio l’Antiquario Cesi il prototipo della "galleria", tipologia architettonica che si impone nella seconda metà del secolo, destinata a raccogliere statue antiche disposte secondo un allestimento ordinato e razionale: ne è un esempio la galleria fatta costruire a Roma da Ferdinando I de’ Medici dopo il 1576, per ospitare le sculture della citata collezione Dalla Valle che ha acquistato.
A partire dall’episodio di Michelangelo ventenne che scolpisce un Cupido, lo interra per qualche tempo – per conferirgli una patina di antichità – e poi lo presenta come un pezzo antico, i rapporti tra gli artisti e la nuova archeologia del primo Cinquecento appaiono decisamente complessi. Il culto di Roma antica aveva permeato di sé gran parte della produzione artistica quattrocentesca, come dimostra il classicismo umanistico fiorentino, nell’ambito del quale lo stesso Buonarroti si era formato. Tuttavia, a partire dall’ultimo decennio del XV secolo, il fervore archeologico che coinvolge le corti italiane porta a una grande differenziazione degli atteggiamenti possibili nei confronti dell’antichità.Le imprese romane di Raffaello danno la misura del nuovo classicismo cinquecentesco. Sorretto da una profonda comprensione delle vicende storiche della classicità romana e dalle ambizioni di Giulio II, l’urbinate (insieme ai pittori della sua équipe) mette in atto, nei cantieri vaticani, una serie di derivazioni e trasformazioni di motivi classici che si traducono nella ripresa, più o meno fedele, di temi e figurazioni antiche: in un disegno per una Giuditta, ad esempio, è palese la derivazione dalla Venus genitrix; nella grande impresa decorativa delle logge, poi, non si contano le citazioni, da statue e sarcofagi romani la Creazione di Eva di Tommaso Vincidor e la formella in stucco di Giovanni da Udine riprendono il Dioniso di un rilievo ellenistico, noto attraverso copie romane.
Accanto al misurato classicismo raffaellesco, tuttavia, si afferma anche una corrente più sperimentale che, pur senza prescindere dall’ammirazione dell’antichità, affronta il repertorio figurativo classico con maggiore spregiudicatezza, tanto da essersi conquistata, nella critica moderna, l’appellativo di "anticlassica". Di tale corrente fanno parte, a vario titolo, pittori quali Amico Aspertini, che nelle sue rielaborazioni di schemi antichi sottopone i modelli classici a profonde trasformazioni, e Filippino Lippi, che trae dagli antichi le iconografie e i particolari antiquari più curiosi e inaspettati, rielaborandoli in composizioni molto personali; lo stesso Michelangelo Buonarroti, nelle sue opere cinquecentesche, appare assai più vicino alla tensione del Laocoonte che alla placida compostezza della Venus genitrix.
Negli stessi anni in cui si intraprendono gli scavi che portano alla luce il Laocoonte, il pittore bolognese Jacopo Ripanda, facendosi calare dall’alto in un cesto, riproduce per intero il fregio della Colonna Traiana, un monumento che a causa della sua altezza era conosciuto, e quindi poteva essere copiato e imitato, soltanto in piccola parte.
L’impresa di Ripanda mette dunque a disposizione degli artisti un immenso repertorio di composizioni e particolari antiquari che vengono fedelmente ripresi in importanti imprese decorative, quali la decorazione pittorica dell’episcopio di Ostia.
Oggetto di studio e di culto per tutto il secolo, il fregio viene infine pubblicato nei disegni di Girolamo Muziano che, a partire dal 1569, porta in un certo senso a coronamento la spericolata impresa di Ripanda.
Ripanda e Muziano, naturalmente, non sono gli unici esempi di artisti che si trasformano in archeologi. Il caso più emblematico è di nuovo quello di Raffaello, che nel 1515 riceve da Leone X l’incarico di ispettore alle antichità, finalizzato alla realizzazione di una carta topografica dell’antica Roma; il progetto si interrompe però alla morte dell’artista.
Anche Michelangelo si occupa spesso di consulenze che riguardano la collocazione delle statue ritrovate e il loro restauro. Altri artisti si vedono commissionare copie di statue antiche da inviare all’estero, come accade a Baccio Bandinelli per il Laocoonte (la copia, originariamente destinata a Francesco I, resta poi a Clemente VII).
Il più monumentale esempio cinquecentesco di commistione tra il mestiere dell’artista e quello dell’antiquario è quello di Pirro Ligorio, architetto ed erudito che, a partire dal 1553, oltre a disegnare mappe di Roma antica e moderna, raccoglie uno sterminato corpus di iscrizioni, copie da rilievi (sovente reinterpretando a modo suo i modelli), notizie e curiosità. Gli scritti di Pirro Ligorio, molto consultati anche nel secolo XVII, rappresentano il punto estremo dell’antiquaria cinquecentesca e al tempo stesso la sua crisi: non a caso tutta la sua erudizione non trova una via di sintesi.