SENECA, L. Anneo
Secondogenito di L. Anneo Seneca il Vecchio, nato a Cordova alcuni anni a. C. (verso il 4 a. C. secondo l'opinione comune, ma forse più probabilmente verso l'8), fu portato ancora bambino da una zia materna a Roma, dove seguì i corsi di grammatica e di retorica. Ma l'insegnamento grammaticale inteso alle forme esteriori più che ai concetti, a trattare questioni aride e oziose in confronto dei problemi della vita umana e della natura, non poteva appagare l'intelligenza e l'anima di lui che deplora il tempo perduto in tali studî, e non risparmia la critica neanche all'insegnamento della retorica e agli esercizî di declamazione, sebbene il suo temperamento esuberante dovesse subirne un influsso che appare evidente nello stile soprattutto dei primi suoi scritti. Suoi maestri di retorica probabilmente furono Mamerco Emilio Scauro, L. Giunio Gallione, Musa, Giulio Basso, e molto poterono certamente su lui anche l'ambiente di famiglia e il consiglio e gusto paterno. Ma l'apprendimento di queste artes liberales non ha per lui valore se non come preparazione al vero studio, quello della filosofia (Ep. 88,1-2), la quale, allora specialmente intesa come direzione delle coscienze e predicazione di morale pratica più che esposizione dommatica, ebbe una parte decisiva nella formazione del suo spirito. S. stesso ci dice con quale assiduità e devozione frequentava i suoi maestri di filosofia, seguaci della scuola neostoica dei Sestii, e tra essi ricorda con maggiore compiacenza l'alessandrino Sozione, da cui fu indotto a diventare vegetariano secondo i principî del pitagorismo; Attalo il più fine e abile parlatore tra i filosofi d'allora; Papirio Fabiano che, già declamatore reputatissimo, prediligeva come argomento delle sue arringhe l'analisi delle passioni e la predicazione morale.
Di salute cagionevole, soggiornò a Pompei e in Egitto. Raggiunta, pare nel 31 o nel 32, la questura, S. iniziava la sua carriera pubblica, mentre veniva acquistando fama come scrittore e riusciva ad emergere tra gli oratori contemporanei così da suscitare la gelosia di Caligola che aveva pretese letterarie e specialmente oratorie e che lo avrebbe messo a morte in seguito a una difesa assai eloquente da lui pronunziata in senato alla presenza del principe, se una favorita di corte non gli avesse fatto osservare che S. era ormai all'ultimo stadio della tisi e non valeva la pena di uccidere un uomo che aveva così poco da vivere. S. rinunziò all'avvocatura e, rimasto libero di sé con la morte del padre verso il 39, riprese gli studî letterarî e filosofici; e probabilmente risalgono a quest'epoca i suoi primi scritti, tra i quali una biografia del padre e fors'anche la Consolatio ad Marciam e i primi due libri del De ira. Dopo l'assassinio di Caligola e l'avvento di Claudio, si avvicinò alle sorelle di Caligola che alla corte di Claudio formavano una specie di circolo ostile all'influenza di Messalina; ma coinvolto nell'accusa di adulterio mossa da questa a Giulia Livilla, S. fu relegato in Corsica (autunno 41). La pena veniva a colpirlo nel momento in cui gli si schiudeva la vita più attiva. Per quanto egli come filosofo proclami che tutte le cose esteriori, e tra queste l'esilio, non possono toccare il saggio, sentì profondamente il dolore di lasciare la famiglia sua e la vita di Roma, e desolante è la pittura che ci fa della Corsica. Dopo il primo abbattimento riprende forza nella lettura e meditazione delle massime stoiche in riguardo al contenere il dolore e nel pensiero della madre per la quale compone nel 42 o forse nel 43 lo scritto Ad Helviam matrem de consolatione a conforto di lei e suo e insieme per mantenere vivo a Roma il ricordo di sé e la sua reputazione, nella speranza del richiamo. Ma questo non avveniva, e S. inviò, probabilmente poco prima del trionfo britannico di Claudio che fu nel 44, al potente liberto Polibio lo scritto Ad Polybium de consolatione, anche questo senza effetto. Solo quando Messalina fu uccisa, S. poté tornare a Roma, nella primavera del 49; ottenne subito la pretura, con l'appoggio dell'imperatrice che contava sul consiglio di lui per le sue trame politiche; e mentre egli si preparava a partire per Atene a scopo di studio, Agrippina, sua protettrice, gli fece affidare l'educazione del figlio dodicenne che ella aveva avuto dal primo marito Domizio Enobarbo e che, adottato da Claudio, divenne erede del trono col nome di Claudio Nerone. Su questa educazione mancano dati precisi: S. era un maneggiatore di anime e dovette volgere il suo insegnamento non tanto alla filosofia, per la quale Nerone aveva già due altri precettori, quanto all'eloquenza e alla poesia, e il suo ufficio di educatore a preparare l'uomo e il principe. In ciò ebbe a collega il retto e virtuoso Afranio Burro, prefetto del pretorio; di fronte a entrambi stava l'invadenza di Agrippina, di cui S. non doveva ignorare, ma non poteva impedire gl'intrighi per assicurare il trono a Nerone, ai danni di Britannico. Nella notte dal 12 al 13 ottobre del 54 Claudio morì avvelenato da Agrippina, e con l'avvento di Nerone, non ancora diciassettenne, al trono si consolidò la potenza di S. che pare raggiungesse il consolato. Egli e Burro come aiuti indispensabili del nuovo sovrano ebbero nelle loro mani le sorti dell'impero, e nei primi cinque anni di regno (il quinquennium Neronis) furono attuati saggi provvedimenti secondo le direttive di S. che si proponeva di ridurre lo stato a un'armonica collaborazione tra il principe e il senato. Ma il favore di lui e di Burro si avviava al tramonto. Nerone, insofferente di moderazione, piegava verso un rapido pervertimento, che giunse fino all'assassinio di Agrippina, tra lo sgomento di Burro e di S. il quale avrebbe tracciato il messaggio di Nerone al senato per giustificare il matricidio (Tac., Ann., XIV, 11). La morte di Burro (primo semestre del 62) spezzò la potenza di S. già scossa. Contro di lui s'iniziò da parte degli avversarî una coperta campagna di denigrazione presso Nerone, il quale, sebbene S. si appartasse in un ritiro fecondo di attività spirituale e mantenesse una prudenza piena di dignità, nutriva contro di lui un odio segreto, fomentato da Tigellino, da Poppea e dagli altri nemici del filosofo, e dapprima avrebbe tentato di fargli apprestare un veleno (Tac., Ann., XV, 45), poi, in seguito alla denunzia di Antonio Natale, gli mandò l'ordine di uccidersi come presunto partecipe della congiura capeggiata da G. Calpurnio Pisone per assassinare il sovrano (Tac., Ann., XV, 56). Così una fine drammatica (Tacito, ibid., 60-64) chiudeva nell'aprile del 65, in età di 70 anni compiuti, la vita di S., che fu scrittore fra i più fecondi e multiformi dell'antichità e una delle figure più in vista della sua epoca. Egli, pur attraverso debolezze ed errori nel duro contrasto fra l'ideale e la necessità, sicché poté apparire meno rigida la coerenza tra i suoi atti e la dottrina da lui sinceramente professata e divulgata negli scritti con fervore di apostolo e con le geniali audacie di uno stile personalissimo, aveva però saputo spogliarsi della potenza e grandezza quando vide l'inevitabile naufragio dell'opera sua presso il principe, e nella sventura fu grande e sereno in conformità dei suoi precetti.
Le tragedie. - L'opera poetica di S. ci è soprattutto documentata dalle nove tragedie di argomento leggendario greco, ma profondamente imbevute di spirito romano: Hercules (furens), Troades (Hecuba nello Pseudoprobo), Phoenissae (Thebais nella reeensione A), Medea, Phaedra (Hippolytus nella recensione A), Oedipus, Agamemnon, Thyestes, Hercules (Oetaeus). Nel fondamentale cod. Laurenziano XXXVII, 13 o Etrusco, dove esse sono disposte in quest'ordine, l'autore Anneo Seneca è designato con due prenomi Marco Lucio, e si è molto discusso sull'attribuzione di tutte o di parte di queste tragedie a S. filosofo, la cui paternità però, in base agli accenni degli antichi (il solo Sidonio Apollinare, carme 9, 232 segg., distingue S. filosofo dal tragico) e alle evidenti affinità di pensieri e di forma con gli scritti filosofici e ad altri argomenti, oggi è ammessa dai più, tranne i dubbî recentemente ribaditi a riguardo dell'Hercules Oetaeus. Questi drammi, destinati, secondo l'opinione prevalente, alla lettura, sono gli unici sopravvissuti di tutta la produzione tragica romana, del resto rappresentata solo da frammenti, malgrado la sua ricca e brillante fioritura nel periodo migliore e la sua non interrotta vitalità anche dopo di esso. In questa perdita, a cui dovette contribuire, oltre a condizioni esteriori e intrinseche, anche l'ingiusta presunzione che la tragedia romana non avesse pregio di originalità ma fosse solo un pallido riflesso degli esemplari greci, è preziosa la conservazione delle tragedie di S. il quale tra la materia leggendaria della grande tragedia greca e di quella romana a lui anteriore presceglie quanto può fornirgli argomento a uno studio profondo della passione umana e, alieno dall'imitazione pedissequa, cerca di guadagnare a quella materia nuovi aspetti secondo la propria concezione morale e la propria virtù creativa e secondo l'indole del tempo e del pubblico.
Controversa è la cronologia delle tragedie. Era opinione assai diffusa che fossero state composte da S. nella solitudine dell'esilio in Corsica, e anche recentemente si è fatta iniziare l'attività tragica di S. nel 43 col Tieste e si è ritenuta abbastanza sicura la composizione della Medea poco dopo il 44; ma pare più probabile che il corpo delle tragedie appartenga al periodo in cui S. fu a corte, anzi il Tieste, secondo alcuni, sarebbe posteriore al suo ritiro dalla corte. In questo dramma sembra che S. abbia avuto presenti varie fonti che avevano trattato la fosca e terribile leggenda, come Ovidio e il Tieste di Vario e soprattutto l'Atreus di Accio che a sua volta dovette avere a modello la tragedia di Sofocle contaminandola con particolari di Euripide. L'ombra di Tieste appare nel prologo di un'altra tragedia, l'Agamennone, a ricordare tutti i delitti degli Atridi e a presagire la prossima uccisione dell'eroe, reduce da Troia, per mano di Egisto, proprio figlio, e di Clitemnestra. Il dramma molto discusso e validamente difeso rispetto alla genuinità, conserva lo sfondo dell'omonima tragedia eschilea, ma ne varia i particolari sino a farne una cosa quasi affatto nuova, e forse S. ha avuto presente anche un altro modello greco di poeta più recente.
L'Agamennone costituisce una specie di continuazione di un'altra tragedia di S., le Troiane, la quale si conclude col duplice sacrificio di Polissena e di Astianatte e fonde gli argomenti dell'Ecuba e delle Troiane euripidee ma con somma libertà e con richiami epici, specialmente virgiliani, così da riuscire un'opera profondamente diversa, forse anche per influsso dei due drammi perduti di Sofocle, le Prigioniere di guerra e Polissena. L'Ercole furioso poi ci presenta il noto episodio della lotta di Giunone contro Ercole, il quale in un accesso di pazzia furiosa provocata dall'implacabile dea fa strage della moglie e dei figli e, al risveglio, vorrebbe uccidere sé stesso, ma ne è distolto dal padre Anfitrione e cede all'invito di Teseo di andare ad Atene a purificarsi. La tragedia sarebbe o un adattamento assai libero dell'omonimo dramma euripideo o una creazione quasi ex novo sulla trama del tragico greco con spunti da Virgilio, Orazio e Tibullo. Un'altra parte della leggenda di Ercole, la morte e l'apoteosi dell'eroe, forma argomento dell'Ercole sull'Eta, il quale secondo alcuni sarebbe strettamente legato col dramma precedente, secondo altri non sarebbe nemmeno opera di S. Esso appare una contaminazione delle Trachinie col Filottete sofocleo e contiene un alto significato, la redenzione che va dalla catastrofe verso la rinascita, ma nel riguardo dell'arte è giudicato macchinoso, pesante ed è molto discusso rispetto alla genuinità o negata o ammessa in parte o difesa con riserve, o meno, sulla sua compiutezza.
Al ciclo tebano appartengono l'Edipo che segue da vicino l'Edipo re di Sofocle con differenze in alcuni particolari ed è nell'insieme inferiore ad esso, e le Fenicie, rispetto al quale dramma, privo di cori, si discute se sia l'unione di due frammenti che apparterrebbero a due tragedie diverse aventi a base l'una l'Edipo a Colono di Sofocle, l'altra le Fenicie euripidee, oppure sarebbero due suasorie sceneggiate o estratti dalla tragedia originale o reliquie di una tragedia incompiuta o semplici scene abbozzate, o se invece si tratti di un'opera in sé compiuta e una. Fra tutte le tragedie di S. si segnalano poi per potenza e originalità la Fedra e la Medea. La prima si stacca dal superstite Ippolito Coronifero di Euripide in varî e notevoli particolari che conferiscono alla protagonista tratti profondamente umani e non privi di nobiltà e hanno rispondenza di contenuto nei frammenti dell'anteriore Ippolito velato dello stesso Euripide e della Fedra di Sofocle e anche in motivi della quarta Eroide di Ovidio. Come nella Fedra la divorante fiamma di un amore impuro, così la terribile sete di vendetta di una donna ripudiata dal proprio consorte beneficato forma il motivo della Medea, nella quale S. ebbe certamente dinnanzi soprattutto il capolavoro di Euripide, ma tuttavia mostra nella concezione drammatica, nell'economia dell'azione, nei caratteri dei protagonisti, nelle mosse e negli atteggiamenti del coro notevolissime differenze da quello, dovute presumibilmente in gran parte all'innovazione sua originale e all'influsso di altri modelli oltre alla tragedia euripidea, del poema di Apollonio Rodio sulla spedizione degli Argonauti, della Medea ora perduta di Ovidio e della 12ª Eroide dello stesso. Sicché la Medea nel suo complesso ci dà una giusta nozione dell'indipendenza del teatro di S. riguardo agli esemplari per effetto del temperamento artistico del poeta e della sua penetrazione psicologica e in armonia col gusto dell'uditorio a cui le tragedie erano destinate e anche, ma non eccessivamente, con la tendenza retorica allora predominante. Questa originalità, che è l'espressione di un'anima nuova, dagl'intrecci dell'azione e dalla pittura dei caratteri si estende alla metrica e tecnica e al contenuto dei cori che generalmente sono veri e proprî intermezzi lirici svolgenti le idee filosofiche e morali dell'autore. Sotto il nome di S. ci resta anche l'unica tragedia praetexta superstite, l'Octavia, conservataci nei codici della recensione A. Essa suscitò dubbî rispetto alla paternità di S. sia perché manca nel codice Etrusco sia perché vi appare come attore lo stesso S., e per un complesso di altre controverse argomentazioni relative alla sostanza e alla forma e all'epoca della composizione; ma anche la tesi della genuinità non manca di sostenitori.
Epigrammi e satira. - La tradizione manoscritta ha conservato una settantina di epigrammi attribuiti a S., e dei tre che recano il suo nome e sono sicuramente autentici, due riguardano la Corsica descrittavi con fosche tinte. All'esilio si riferiscono anche altri sette della raccolta tramandata dal cod. Vossiano Q 86 (V) e parzialmente dal Salmasiano (Par. 10318), rispetto alla quale, dopo molte discussioni a cominciare dal sec. XVI, si propende a ritenere che, fatte singole eccezioni, l'insieme di questi epigrammi, accennanti non di rado a circostanze della vita di S. o a suoi concetti morali e conformi alla sua arte, possa essere opera di lui.
Come l'amarezza per l'esilio ispira varî di questi epigrammi e altri sono piuttosto liberi e leggieri nello scherzo, così lo sfogo dell'animo poco dopo la morte del principe che era stato l'autore della sua relegazione porge lo stimolo a un'arguta e originale caricatura di esso nella satira menippea, l'Apocolocyntosis, composta nel 54 o nel 55. Il titolo, che deriva da Cassio Dione (LX, 35) e probabilmente risponde più al vero che quello dato dai mss. Divi Claudii 'Αποϑέωσις per saturam o Ludus de morte Claudii, secondo la comune ma non sicura interpretazione significherebbe "trasformazione in zucca o assunzione tra le zucche"; da alcuni invece è inteso assai diversamente e messo in connessione con la morte di Claudio per funghi avvelenati somministratigli come purga o con un lubrico castigo degli adulteri. È una delle più originali e spiritose satire politiche e, di contro ai dubbî sulla sua autenticità oggi non condivisi dai più, risponde al temperamento e all'ingegno di S. e non disdice alle sue maniere lessicali e stilistiche.
Scritti filosoflci. - Tra le opere di contenuto prevalentemente filosofico di S. vanno annoverate anzitutto le prose morali che tradizionalmente si raccolgono sotto il titolo complessivo di Dialogorum Libri XIII, pur essendo sostanzialmente monologhi dell'autore, solo qua e là interotti da obiezioni, che egli immagina avanzate dalla persona a cui è dedicato lo scritto, o da altri. L'argomento può dedursi dai titoli dei singoli scritti: Ad Lucilium quare aliqua incommoda bonis viris accidant, cum providentia sit (o De proevidentia = Dial., I); Ad Serenum nec iniuriam nec contumeliam accipere sapientem (o De constantia sapientis = Dial., II); Ad Novatum de ira libri tres (Dial., III-V); Ad Marciam de consolatione (Dial., VI); Ad Gallionem de vita beata (Dial., VII), Ad Serenum de otio (Dial., VIII); Ad Serenum de tranquillitate animi (Dial., IX); Ad Paulinum de brevitate vitae (Dial., X); Ad Polybium de consolatione (Dial., XI); Ad Helviam matrem de consolatione (Dial., XII). Separati da questa silloge dei Dialogi sono invece: Ad Neronem Caesarem de clementia libri tres; Ad Aebutium Liberalem de beneficiis libri septem; Ad Lucilium naturalium quaestionum libri octo. Massima importanza hanno, infine, le Epistolae morales ad Lucilium, silloge di 124 lettere, divise in 20 libri (ma altri dovevano seguire, citando Aulo Gellio il libro ventiduesimo).
Nella considerazione tradizionale, S. appartiene come filosofo alla storia dello stoicismo, costituendo con Epitteto e Marco Aurelio la triade dei massimi rappresentanti della cosiddetta ultima stoa. Ma dei tre è in fondo il meno sistematico: romano come Marco Aurelio, e quindi portato ad accentuare quella valutazione di ogni teoria dall'angolo visuale della pratica che era già implicita come tendenza nella tradizione cinico-stoica, egli non ha d'altronde alle spalle il rigore speculativo di un Epitteto. È perciò un rappresentante dello stoicismo solo nel senso che prevalentemente stoico è il contenuto delle dottrine che egli accoglie come presupposti, per giungere da esse a quelle esortazioni morali che soprattutto gli stanno a cuore. S'intende quindi come accanto a motivi propriamente stoici s'incontrino in lui non solo elementi platonici e peripatetici (la fusione di stoicismo e platonismo era del resto caratteristica della media stoa, il cui massimo rappresentante, Posidonio, influì fortemente sul pensiero di S.) ma anche epicurei, in tutti quei casi in cui le estreme conclusioni etiche dell'epicureismo venivano praticamente a coincidere, nonostante la diversità del punto di partenza, con quelle della tradizione cinico-stoica.
Questo carattere della mentalità di S. risulta già dall'idea generale che egli si forma dell'ufficio della filosofia. A proposito del quale è stato notato come S. per un verso accolga il concetto cinico-stoico del primato della pratica (v. p. es., Epist. 20, 2: "facere docet philosophia, non dicere"; ibid., 5: "quid est sapientia? semper idem velle atque idem nolle") e per altro verso ponga alla pari la contemplazione e l'azione (De otio, 5,1: natura nos ad utrumque genuit, et contemplationi rerum et actioni"; Epist. 95, 10: "philosophia autem et contemplativa est et activa: spectat simul agitque") o addirittura consideri la filosofia che studia la natura tanto superiore alla filosofia che studia l'uomo quanto la scienza del divino è superiore alla scienza dell'umano (Natur. quaest., I, init.). Ma non si tratta in realtà di una contraddizione, in cui egli incorra tentando di risolvere il grande problema che nella precedente storia del pensiero greco era stato dibattuto fra i sostenitori del primato della vita contemplativa e quelli del primato della vita attiva. Tale problema, nella forma in cui era stato posto nell'età socratica, platonica e aristotelica e in cui si era cristallizzato nell'antitesi di Teofrasto a Dicearco, è infatti sostanzialmente ignoto a S., che anche quando valuta, o sopravvaluta, la contemplazione, non la considera propriamente come un ideale per cui si debba rinunciare agl'ideali pratici, ma come un rifugio, sia pur di natura superiore, in cui è dato porsi al riparo dalle miserie terrene. La contemplazione non è per S. (in ciò assai affine a Cicerone) che uno dei tanti remedia che la filosofia fornisce all'uomo perché egli possa sfuggire ai mali.
Nel senso, più compassionalmente doloroso che moralisticamente severo, del male umano è di fatto la caratteristica precipua della mentalità di S., la quale si distacca dal freddo rigore dell'etica cinico-stoica assai più per tale suo tono generale che per le particolari divergenze di dottrina (come p. es. il platonismo della tripartizione, del resto già posidoniana, dell'anima e delle sue facoltà). Il male non è per S. tanto errore quanto dolore: così egli non desume dallo stoicismo la rigorosa contrapposizione della saggezza dei buoni alla follia dei cattivi, ma piuttosto la considerazione cosmopolitica dell'universale eguaglianza e fratellanza degli uomini, che sono più da aiutare che da rimproverare (v. p. es., Epist., 48, 2: "in commune vivitur... alteri vivas oportet, si vis tibi vivere". Questa esperienza lo porta in primo luogo a dispregiare ogni discussione filosofica che non serva a migliorare l'uomo o a sollevarlo dai suoi dolori (tipica a questo proposito p. es. la lettera 48, 6 segg., in cui l'ironizzazione dei cavilli logici dello stoicismo classico è ormai comune allo stoicismo tardo, ma è particolarmente accentuata da S., insofferente di ogni discussione troppo teorica: e cfr. la lettera 117, per la distinzione stoica della sapientia dal sapere), in secondo luogo, a vivere con rinnovato ardore il desiderio platonico della morte come nascita verace e rivelazione dell'eterno (v. p. es. Epist. 102, 21-30, che è forse la più bella pagina filosofica di S.); in terzo luogo, a invertire quasi il classico sentimento greco della perfezione, distaccando e in certa misura opponendo il suo ideale etico al suo ideale eudemonistico: il senso del valore morale indifferente ai beni di fortuna lo porta infatti a concepire la divinità stessa come priva di tali beni (v. per es., Epist. 31, 10: "parem autem deo pecunia non faciet: deus nihil habet, praetexta non faciet: deus nudus est": dove si vede come motivi inizialmente cinico-stoici tendano a svolgersi in senso analogo a quello seguito dall'inversione cristiana della teologia classica). Si comprende quindi come, per tutti questi motivi, sia potuta nascere la leggenda dei rapporti di S. con San Paolo, e sia stato creato il carteggio apocrifo tra lui e l'Apostolo. Tale leggenda, se non ha alcun valore come testimonianza di un influsso che il pensiero di S. abbia effettivamente subito da parte del primo cristianesimo, ha comunque significato storico come indizio degli elementi di affinità che i lettori cristiani di S. avvertivano tra la loro morale della sofferenza, della compassione e della fuga dal mondo e il modo in cui S. interpretava e sentiva i motivi affini dell'etica cinicostoica e platonica.
Seneca nel Medioevo e nel Rinascimento. - Apocrifi. - Per gli scrittori cristiani, S. era il "venerabile Seneca"; S. Girolamo, che non esita ad annoverarlo tra i santi, lo cita largamente, e compone la sua epistola Ad Iovinianum dal libro senechiano De Matrimonio, peraltro perduto. La corrispondenza (14 lettere) fra S. e S. Paolo, inventata da un cristiano, divulgata secondo alcuni nel sec. IV e già nota a S. Girolamo e a S. Agostino, fu secondo altri composta dopo il sec. VI. Queste lettere, che presentano S. come un cristiano che inizia Nerone alla conoscenza della propria religione mediante la lettura delle epistole di S. Paolo e s'appresta a propagare l'evangelo, sono, almeno a giudicare dalle tarde redazioni rimasteci, scadentissime sotto ogni riguardo, ma hanno efficacemente contribuito alla conservazione degli scritti genuini di S.
Sotto il titolo di Notae Senecae, attestato da Isidoro di Siviglia (Etym., I, 22, 2), ci resta una raccolta di sei elenchi di abbreviature stenografiche con le relative spiegazioni. Anche questa raccolta è interamente apocrifa; invece riflettono, in misura assai difficile a stabilirsi, scritti di S. perduti i trattati De copia verborum, De quattuor virtutibus o Formula vitae honestae (quest'ultimo di Martino da Braga, morto nel 580), Ad Gallionem fratrem de remediis fortuitorum, manuale composto probabilmente al principio del Medioevo secondo l'omonimo trattato di S. ricordato da Tertulliano, Apolog., 50. Il De quattuor virtutibus ebbe larga diffusione anche attraverso traduzioni francesi e provenzali: cfr. per es. Dits e moralités des philosophes di Alardo di Cambrai; il poemetto occitanico Aysso es libre de Senequa, ecc.
Infine i florilegi:1. Liber de moribus, una raccolta di 145 sentenze morali, che già esisteva, a quanto pare, nell'anno del Concilio di Tours, 567, sotto il nome di S. e probabilmente è un estratto di un'altra silloge più estesa, un importante frammento della quale sarebbe la serie di Monita Senecae; 2. estratti sotto il titolo De paupertate dal vol. I delle Lettere a Lucilio; 3. proverbia o sententiae Senecae, silloge di 149 sentenze in prosa, in ordine alfabetico, provenienti in massima parte dal liber de moribus e aggiunte a completare le sentenze di Publilio Siro da N a Z in una redazione che conteneva solo quelle da A a N.
Poco per volta, lungo la tradizione medievale, S. è assurto a valore di modello: egli è "Seneca morale" (Dante), è lo scrittore etico per eccellenza, che appagava una larga zona della cultura medievale. Anche la sua morte era esemplare, interpretata come un episodio del martirologio cristiano: la Leggenda aurea di Iacopo da Varazze, il Roman de la Rose e il Novellino (novella 71) narrano la fine drammatica di S. Va anche avvertito che per tutto il Medioevo Seneca il Vecchio e il Giovane sono una sola persona.
Con l'incipiente umanesimo e con la divulgazione sempre più diffusa del pensiero antico attraverso al lavorio dei traduttori, alcune opere di S. si leggono integralmente, a preferenza delle raccolte frammentarie, interpolate e mistificate del Medioevo: specialmente le Epistole a Lucilio e il trattatello De providentia, che per tramite d'una versione francese ebbero anche veste toscana, a principio del Trecento. La conoscenza critica di S. è ancora malcerta presso il Boccaccio e presso lo stesso Petrarca, che però gli aderiva con maggiore rispondenza spirituale. Echi numerosi ebbe nella Spagna, che lo sentì come autore nazionale: Fernán López de Guzmán, il vescovo Alonso de Cartagena, il re Alfonso V, il contestabile Pedro de Portugal lo tradussero, commentarono, imitarono. Ma quando con il Rinascimento il problema artistico e stilistico prevalse sugl'interessi puramente moralistici, il poeta "tragico" sopravviveva allo scrittore "morale", e S. contribuiva all'esperienza tecnica del dramma classicheggiante. Documenta la fortuna di S. nel Cinquecento la traduzione di L. Dolce.
Edizion1: 1) Tragedie: se ne possono dividere le edizioni, riguardo alla costituzione critica del testo, in tre periodi iniziati rispettivamente dall'ed. princeps, Ferrara 1484; dall'ediz. del Gronov, Leida 1661; da quella di R. Peiper e G. Richter, Lipsia 1867; 2ª ed., 1902; a cui seguirono la fondamentale di Fr. Leo, Berlino 1878-79; e più recentemente le edizioni di U. Moricca nel Corpus Paravianum, nn. 12, 39 e 45 e di L. Herrmann in due volumi della Società "Les belles Lettres" Parigi 1924-26, e edizioni di singole tragedie.
2) Epigrammi: Baehrens, Poetae latini Minores, IV, pp. 55-87; Haase, Seneca: supplem.: I-IX; Riese, Anthol. Lat., I.
3) Apocolocyntosis: di Fr. Haase, in Seneca: supplem.; di F. Buecheler, in Symbola philol. Bonn., ecc., Lipsia 1864-67, pp. 40-89; di A. P. Ball, New York 1902; di A. Marx, Karlsruhe 1907.
4) Scritti filosofici: Dialoghi, a cura di H. Hermes, Lipsia 1905; Ad Neronem e Ad Aebutium, a cura di C. Hosias, Lipsia 1914; Ad Lucilium, a cura di A. Gercke, Lipsia 1907; Epistulae morales ad Lucilium, a cura di A. Beltrami, nell'edizione nazionale dei classici, Roma 1932.
5) Apocrifi: Corrispondenza con S. Paolo: Fr. Haase, op. cit., pagine 74-79; F. Kraus, in Tübinger Quartalschr., IL, 1867, p. 609 segg. - Liber de moribus, in Haase, op. cit., pp. 60-65. - Monita Senecae a cura di Ed. Woelfflin, Erlangen 1878; De paupertate, in Haase, op. cit., pp. 56-59. - Proverbia nelle ed. di Publilio e specialmente in quelle di E. Woellflin, Lipsia 1869 e di W. Meyer, Lipsia 1880.
Bibl.: Opere su S. in generale: P. Pompilio, Vita Senecae, ecc., Roma 1490; G. Lipsio, De vita et scriptis L. Annaei Senecae, premessa alla sua ediz, di Anversa 1605; E. F. Gelpke, De Sen. vita et moribus, Berna 1848; A. Martens, De Senecae vita ecc., Altona 1871; P. Hochart, Études sur la vie de Sénèque, Parigi 1885; A. Diepenbrock, L. Annaei Sen. philos. cordub. vita, Amsterdam 1888; V. Cucheval, Histoire de l'éloquence romaine depuis la mort de Cicéron, ecc., II, Parigi 1893, p. 73 segg.; C. Pascal, Seneca, Catania 1905; J. Martha, La vie et les øuvres de Sénèque, in Revue des cours, ecc., XVI-XVII, Parigi 1907-1909; R. Waltz, Vie de Sénèque, Parigi 1909; Ch. Favez, L. Annaei Sen. ad Helv. matrem de consol., ecc., Losanna-Parigi 1918, introd.; C. Marchesi, Seneca, Messina 1920; 2ª ed., ivi 1934; K. Münscher, Senecas Werke, in Philol. Supplementb., XVI (1922), fasc. 1°, pp. 1-84; E. Bodrero, Seneca, in La letteratura latina nell'età imperiale, I, Roma 1935, p. 23 segg.
Sulle tragedie: Ed. di Fr. Leo, I; A. Pais, Il teatro di L. A. S., Torino 1890; O. Ribbeck, Gesch. der röm. Dichtung, III, Stoccarda 1892; O. Rossbach, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., I, col. 2244 seg.; U. Moricca, Le tragedie di S., in Riv. di filol. cl., 1918, pp. 345 segg. e 411 segg.; 1920, p. 74 segg.; 1921, p. 161 segg.; C. Marchesi, op. cit.; E. Cesareo, Le tragedie di S., Palermo 1932; gli studî di C. Marchesi sul Tieste (1908), di I. Hillebrand sull'Agamennone (1859), di K. Liedloff sulle Troiane e sull'Agamennone (1902), di W. Braun (1870) e A. Pais (1888), di A. Balsamo (1902) e A. Cima (1904) sulle Troiane, di O. Edert (1909) e A. Morpurgo (1929) sull'Ercole Eteo, di L. Castiglioni sulla tragedia di Ercole in Euripide e in S. (1926), di A. Cima (1904) e U. Moricca (1917) sulle Fenicie, di C. W. Swan (1857) e V. Crivellari (1889) sulla Fedra, di P. Rajna (1872) e A. Cima (1904) e Her. L. Cleasby (1907) e Th. Vente (1909) sulla Medea, ecc. Sulla metrica e sui cori cfr. M. Hoche, Die Metra des Tragikers S., Halle 1862; Fr. Leo, op. cit., I, pp. 135-146; id., Die Composition der Chorlieder Senecas, in Rhein. Mus., LII (1897), p. 509 segg.; G. Michaut, Le génie latin, Parigi 1900, p. 328 segg.; G. Przychocki, Die metrische und lyrische Kunst in den Tragödien Senecas (cfr. Bull. de l'Ac. Polon. des sciences et des lettres, dicembre 1932, p. 198), e altri. Sui rapporti, in genere, delle tragedie di S. con i modelli greci e con i romani cfr. R. Schreiner, S. als Tragödiendichter in seinen Beziehungen zu den gr. Originalen, Monaco 1909; Fr. Strauss, De ratione inter Senecam et antiquas fabulas romanas intercedente, Rostock 1887, e altri.
Sugli epigrammi: Stauber, De L. A. S. phil. epigrammatum auctore, Würzburg 1920; Münscher, op. cit., p. 25 segg.; E. Herfurth, De Senecae epigrammatis quae feruntur pars prior, Jena 1910, e altri. - Sulla satira: O. Ribbeck, op. cit., p. 38 segg.; C. Marchesi, op. cit., p. 41 segg.; N. Terzaghi, Storia della lett. lat. da Tiberio a Giustiniano, Milano 1934, p. 81 segg.; O. Weinreich, Senecas Apocolocyntosis, Berlino 1923; H. Wagenvoort, in Mnemosyne, 1934, pp. 4-27. - Sulla corrispondenza apocrifa con S. Paolo: O. Bardenhewer, Gesch. der altkirchl. Litt., I, Friburgo 1902, pp. 467-471; C. Pascal, Letter. lat. medievale, Catania 1909, pp. 123-140; P. Faider, Études sur Sénèque, Gand 1921, p. 89 segg., altri. - Sui proverbî: C. Pascal, Proverbio Senecae, in Riv. di filologia classica, 1918, pp. 63-69. Sulla fortuna: A. Graf, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medioevo, 2ª ed., Torino 1915; C. Pascal, Contributi alla storia della fortuna di S. nel Medioevo, in Letteratura latina medievale, Catania 1909, pp. 119-154.