Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Sulla natura dell’anima il pensiero medievale ha sviluppato una complessa articolazione di posizioni oscillanti tra l’aristotelismo dei commentatori, il neoplatonismo greco-arabo e il pensiero di Agostino. Concetto che esemplifica la percezione dell’uomo di essere qualcosa di più del mondo, l’anima nel Medioevo è principalmente intesa come sostanza spirituale. La pluralità delle sue definizioni è dovuta ai diversi tentativi di spiegarne i rapporti con Dio, con l’intelletto e con le parti sensibili.
Alessandro di Afrodisia
Poiché in tutte le cose che sono generate e costituite secondo natura e in cui c’è una materia, da una parte c’è, in quel dato genere che si prende in considerazione, una materia (e questa è ciò che è in potenza tutte le cose comprese in quel genere) e dall’altra c’è un agente che fa sì che si realizzino nella materia quelle determinazioni che è atta a ricevere, sembra necessario che anche nel caso dell’intelletto ci siano queste differenze. E poiché c’è un intelletto materiale bisogna che ci sia anche un intelletto agente che viene a essere causa dell’abito dell’intelletto materiale. Questo sarà la forma in senso proprio e massimamente intellegibile e tale è quella che è separata dalla materia. In tutti i casi, infatti, ciò che possiede in massimo grado e in senso proprio una qualche proprietà è causa anche alle altre cose del possedere esse tali proprietà. Ciò che è massimamente visibile (e tale è la luce) è causa dell’essere visibile anche per gli altri oggetti visibili; ma anche ciò che è massimamente e in senso primo bene è causa anche per gli altri beni di essere tali: infatti gli altri beni sono giudicati in ragione del loro contributo a questo. Dunque è ragionevole che anche ciò che è massimamente e per la propria natura intellegibile sia causa dell’intellezione degli altri intellegibili. Ma se ha una natura tale, dovrà essere l’intelletto agente [...]. E siffatto intelletto è separato e impassibile e non mescolato ad altro: tutte proprietà che esso possiede perché è separato dalla materia. È separato, infatti, ed esiste di per sé per questa ragione: perché nessuna delle forme congiunte a una materia è separabile, o lo è soltanto concettualmente, dato che la separazione dalla materia comporta la loro corruzione. Ma è anche impassibile perché ciò che patisce è in ogni caso la materia e il sostrato. Essendo impassibile e non commisto ad alcuna materia è anche incorruttibile perché è atto e forma senza potenzialità e materia. Ora, Aristotele ha dimostrato che tale è la causa prima, che è anche in senso proprio intelletto: perché la forma priva di materia è l’intelletto in senso proprio. Perciò, inoltre, questo intelletto ha maggior pregio di quello che è in noi, ossia dell’intelletto materiale, perché ciò che agisce ha in ogni caso maggior pregio di ciò che patisce e ciò che è privo di materia di ciò che è congiunto alla materia.
in P. Accattino e P. L. Donini, Alessandro di Afrodisia, L’anima, Roma-Bari, Laterza, 1996
Agostino d’Ippona
La verità è dentro l’uomo
La vera religione, cap. XXXIX
Cosa impedisce all’anima di ricordare l’originaria bellezza perduta, quando essa può farlo a partire dai suoi stessi vizi? Così, infatti, la sapienza di Dio si estende con forza da un confine all’altro. Così, per mezzo suo, il sommo artefice ha concesso ordinatamente le sue opere verso l’unico fine della bellezza. Così la sua bontà, dalle creature più alte fino a quelle più basse, non ha negato una qualche bellezza, che da lui solo poteva venire, tanto che nessuno si può allontanare dalla verità e non essere afferrato da qualche segno di essa.
Cerca che cosa avvince nel piacere del corpo: non troverai nient’altro che l’armonia. Giacché, se i contrasti producono dolore, gli accordi producono piacere. Riconosci quindi quale sia l’armonia perfetta.
Non andare fuori di te, ritorna in te stesso. La verità dimora nell’uomo interiore. E se scoprirai che la tua natura è mutevole, trascendi anche te stesso. Ma ricorda, quando trascendi te stesso tu trascendi un’anima razionale. Tendi pertanto là donde si accende il lume della ragione.
Dove giunge, infatti, ogni buon ragionatore se non alla verità? Poiché la verità non raggiunge se stessa tramite il ragionamento, ma è ciò cui tendono coloro che ragionano. Vedi lì, un’armonia che non ha pari e congiungiti ad essa. Riconosci che tu non sei ciò che essa è; appunto perché non cerca se stessa; invece tu sei giunto ad essa cercandola, non di luogo in luogo, ma con l’appassionato movimento della mente, affinché l’uomo interiore si congiunga a ciò che abita in lui con un piacere non infinito e carnale, ma sommo e spirituale.
Agostino d’Ippona, La vera Religione, a cura di O. Grassi, Milano, Rusconi, 1989
Tommaso d’Aquino
L’anima in atto e l’anima in potenza
La Somma contro i Gentili, Cap. LXXVII
Forse a qualcuno potrà sembrare assurdo che un’unica e identica sostanza, ossia la nostra anima, sia in potenza a tutti gli intellegibili, il che spetta all’intelletto possibile, e insieme li renda attuali, compito che spetta all’intelletto agente; poiché niente agisce in quanto è potenza, bensì in quanto è in atto. Perciò potrà sembrare che l’intelletto agente e quello possibile non possano trovarsi insieme nell’unica sostanza dell’anima.
Ma se si guarda bene, non ne segue nulla di assurdo e di difficile. Infatti niente impedisce che una realtà rispetto a una data cosa sia sotto un aspetto in potenza e sotto un altro aspetto in atto, come si riscontra nel mondo fisico. L’aria per esempio è umida in atto e secca in potenza; per la terra invece è vero il contrario. Ebbene, questo rapporto esiste pure tra l’anima intellettiva e i fantasmi. Infatti, l’anima intellettiva ha in atto qualcosa cui i fantasmi sono in potenza; ed è in potenza a qualcosa verso cui i fantasmi sono in atto. La sostanza dell’anima, cioè, possiede l’immaterialità e perciò ha una natura intellettiva: perché ogni sostanza immateriale è intellettiva. Ma per questo motivo essa non ottiene la somiglianza di questa o quella cosa determinata, il che è richiesto affinché la nostra anima conosca le cose in modo determinato: poiché ogni conoscenza si ha secondo la somiglianza dell’oggetto nel conoscente. Perciò, l’anima intellettiva rimane in potenza alle immagini delle cose che da noi sono conoscibili, quali sono le nature delle cose sensibili. Ebbene, queste nature delle cose sensibili sono presentate a noi dai fantasmi. Questi non hanno però ancora un essere intellegibile, essendo immagini o somiglianze di cose sensibili secondo le loro condizioni materiali, che sono proprietà individuali, e si trovano in organi materiali. Perciò non sono intellegibili in atto. E tuttavia, poiché nell’uomo di cui rappresentano le immagini si riscontra una natura universale denudata di tutte le condizioni individuanti, i fantasmi di lui sono intellegibili in potenza; cosicché essi hanno in potenza l’intellegibilità e in atto la determinazione dell’immagine o somiglianza delle cose – il contrario di quanto abbiamo riscontrato nell’anima intellettiva. Perciò nell’anima intellettiva deve esserci una facoltà che è in potenza alle immagini determinate delle cose sensibili; e tale potenza è l’intelletto possibile.
T. d’Aquino, Somma contro i Gentili, trad it. a cura di T. S. Centi, Torino, Utet, 1975
Guglielmo di Ockham
Ordinatio
Riguardo a un incomplesso ci può essere una duplice conoscenza: una può essere detta astrattiva, l’altra intuitiva. Non mi preoccupo del problema se gli altri vogliano chiamare intuitiva questa conoscenza incomplessa, dal momento che mi preme soprattutto dimostrare che la mente può avere due conoscenze incomplesse, specificatamente distinte.
Si deve sapere che la conoscenza astrattiva è di due tipi: c’è una conoscenza astrattiva in rapporto a qualche cosa di astratto da molte cose singolari, e la conoscenza così intesa coincide con la conoscenza di un universale, che si può astrarre da più cose [...]. C’è poi un altro tipo di conoscenza astrattiva, che prescinde dall’esistenza e dalla non esistenza e dalle altre condizioni che si accompagnano come accidenti contingenti di una cosa o che di essa si predicano. Non si verifica che con la conoscenza intuitiva sia colto qualcosa che non è conosciuto con quella astrattiva, ma la stessa identica cosa è colta interamente e sotto ogni medesimo rispetto da entrambe le conoscenze. La distinzione tra esse è la seguente: la conoscenza intuitiva di una cosa è quella conoscenza in virtù della quale si può sapere se una cosa esiste o non esiste, di modo che, se una cosa esiste, subito l’intelletto la giudica esistente e conosce con evidenza che essa è, a meno che non ne sia impedito dall’imperfezione di quella conoscenza. Allo stesso modo, se si desse una conoscenza intuitiva perfetta, che per virtù dell’onnipotenza divina si conserva anche quando la cosa non esiste, in forza di quella conoscenza incomplessa l’intelletto saprebbe con evidenza che quella cosa non esiste. Parimenti, la conoscenza intuitiva è tale che quando si conoscono due cose di cui l’una inerisce all’altra, o dista dall’altra spazialmente, o ha una qualche relazione con l’altra, in forza di tale conoscenza incomplessa di quelle cose si sa immediatamente se la cosa inerisce o non inerisce, se dista o non dista e lo stesso circa le altre verità contingenti (a meno che quella conoscenza non sia troppo debole e non ci siano altri impedimenti). Per esempio: se Socrate è realmente bianco, è chiamata conoscenza intuitiva quella conoscenza di Socrate e della bianchezza in virtù della quale io so con evidenza che Socrate è bianco. E in generale si chiama conoscenza intuitiva ogni conoscenza incomplessa del termine o dei termini (oppure della cosa o delle cose) in virtù della quale si può conoscere una qualche verità contingente, soprattutto riguardante il presente.
Si chiama invece astrattiva quella conoscenza in virtù della quale non si può sapere con evidenza di una cosa contingente se esiste o non esiste. In questo senso, la conoscenza astrattiva prescinde dall’esistenza e dalla non esistenza, poiché per mezzo di essa non si può sapere con evidenza di una cosa esistente se esiste, né di una cosa non esistente che non esiste, in opposto alla conoscenza intuitiva. Similmente, mediante la conoscenza astrattiva non si può conoscere alcuna verità contingente, soprattutto riguardo al presente. Questo si può chiaramente desumere dal fatto che quando in loro assenza si conoscono Socrate e la bianchezza, in virtù di tale notizia incomplessa non si può conoscere che Socrate esiste o non esiste, né che è bianco o che non è bianco, né che dista o meno da un certo luogo, e così a proposito delle altre verità contingenti.
in Scritti filosofici, a cura di A. Ghisalberti, Firenze, Nardini, 1994
Che sia imprigionata nella materia o che trovi in essa la sua possibilità di realizzazione, l’anima deve le proprie definizioni alla natura dei suoi rapporti con il corpo. Se una prima concezione di psyché come sostanza autonoma e indipendente è opera di Platone, è al suo discepolo Aristotele che si deve, almeno in parte, il superamento del dualismo: forma e principio determinatore del corpo, l’anima non può mai darsi separatamente da esso, perché “certamente corpo non è, ma è qualcosa del corpo” (Aristotele, De Anima, II 414 a). Essa costituisce la determinazione degli esseri viventi, l’entelechia che li rende tali; e così come piante e animali hanno una loro attività vegetativa e sensitiva, l’uomo è caratterizzato da una forma sua propria: l’intelletto. La distinzione che Aristotele introduce tra intelletto passivo e intelletto produttivo mostra tuttavia una serie di complessità esegetiche circa la vera natura del nous poietikos, facoltà che conosce in atto le forme universali prodotte per astrazione dalle immagini sensibili delle cose. Dopo averne affermato l’autonomia dal corpo, l’incorruttibilità e l’eternità, Aristotele non chiarisce infatti in quale misura tale intelletto sia individuale, inaugurando così un secolare dibattito sull’eventuale immortalità di almeno una parte dell’anima di ciascuno.
Padre della disputa è Alessandro di Afrodisia (II-III secolo), il quale, non riscontrando alcuna contraddizione tra ilemorfismo aristotelico e teoria dell’intelletto produttivo, afferma che quest’ultimo è forma pura, immortale e incorruttibile perché di natura divina e, dunque, esterna all’uomo. L’anima individuale, in quanto forma che non eccede ma realizza le capacità, dynameis, del corpo muore invece necessariamente con esso. Su una linea diversa si muovono gli ultimi commentatori di Aristotele dell’antichità, i quali tendono piuttosto a evidenziare gli aspetti di continuità tra neoplatonismo e filosofia aristotelica sostenendo l’immortalità dell’anima individuale alla quale inerisce l’intelletto agente, come si evince dai commenti di Temistio e di Giovanni Filopono, primo commentatore cristiano dello stagirita che opera ad Alessandria d’Egitto.
Se dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente i Commentarii si diffondono in Oriente e nel mondo arabo per incontrare il cristianesimo latino solo alla fine del XII secolo, l’alternativa platonica del dualismo tra anima e corpo trova con Agostino una sua prima e chiara collocazione all’interno della dottrina cristiana. Diversamente da Tertulliano che ancora avvalorava la tesi stoica della corporeità dell’anima, e discostandosi dalla teoria plotiniana dell’anima come ipostasi dell’Uno, Agostino trasmette alla cristianità una concezione dell’anima come sostanza creata da Dio, immortale, autosufficiente, indipendente dal corpo e tuttavia destinata a reggerlo. ““Mi sono rivolto a me stesso e mi sono chiesto: ‘Tu chi sei?’ ‘Un uomo’. Ecco qui: corpo e anima, l’uno esterno l’altro interiore [...]. Quello interiore è migliore”” (Confessioni X 6,9).
Nell’itinerario dal mondo esterno dei corpi a quello interno dell’anima, l’uomo avverte di essere qualcosa di più che semplice materia: attraverso l’introspezione e la concentrazione in se stesso egli diviene consapevole di sé e della propria attività percettiva, perché all’anima non sfugge nulla (non latet) di ciò che accade al corpo e la conoscenza diviene l’esito dell’attenzione (intentio) della mente sugli oggetti sensibili che vengono così appresi direttamente. È dunque grazie alla consapevolezza della propria natura spirituale, sempre presente alle modificazioni del corpo, che l’uomo può incontrare Dio nel profondo dell’anima, perché in interiore homine habitat Veritas (De Vera Religione XXXIX 72). Del resto, per Agostino, ricerca di sé e ricerca di Dio non costituiscono due indagini distinte ma due processi conoscitivi illuminati dalla luce divina che si richiamano reciprocamente fino a rivelare l’anima come specchio analogico del mistero della Trinità. Essa è infatti al medesimo tempo mens, notitia e amor, tre sostanze distinte eppure pensabili solo in relazione reciproca (De Trinitate IX 5). Identificando l’anima con l’interiorità e articolandola in memoria, intelligenza e volontà, Agostino inaugura così una delle fondamentali correnti dell’antropologia occidentale che vede nelle azioni del corpo lo specchio delle motivazioni custodite nell’anima.
Per tutto l’alto Medioevo le riflessioni sull’anima risentono principalmente della filosofia di Agostino e del suo neoplatonismo rielaborato in maniera originale. Di Aristotele si conoscono unicamente le opere logiche dell’Organon e i commenti inaugurati dal controverso passo del De Anima trovano un vivido sviluppo solo nel mondo arabo che, con al-Kindi e al-Farabi, tende ad approfondire l’interpretazione di Alessandro di Afrodisia sulla natura del rapporto tra intelletto e anima come forma del corpo.
I commenti destinati a suscitare intensi dibatti e, in alcuni casi, anche agguerrite diatribe dottrinali nell’Occidente cristiano sono soprattutto quelli di Ibn-Sina (Avicenna) e Ibn Rushd (Averroè). Entrambi si rifanno all’interpretazione alessandrina giungendo però a esiti differenti: se la sintesi neoplatonica di Avicenna non ravvisa contraddizioni tra la nozione di intelletto attivo e l’immortalità dell’anima individuale, che da esso dipende, la posizione di Averroè verte sull’unicità dell’intelletto per sua natura divino e separato dall’anima dell’uomo. L’originalità dell’argomentazione del commentatore sta tuttavia nel ritenere unico per tutti gli uomini non soltanto l’intelletto attivo ma anche l’intelletto possibile, che viene a identificarsi con una semplice disposizione all’astrazione degli intelligibili attivata unicamente dall’illuminazione dell’intelletto agente. In questo modo, mentre l’anima individuale partecipa della conoscenza come di un habitus solo fino alla morte del corpo di cui è forma, rimane all’intelletto comune la prerogativa dell’immortalità: perché se la conoscenza del singolo muore con l’individuo, la scienza acquisita dall’umanità è eterna come Dio, da cui tutto dipende.
Sul finire del XII secolo, grazie alla diffusione delle traduzioni in Spagna e nell’Italia meridionale, l’Occidente cristiano viene a conoscenza di quasi tutta l’opera di Aristotele e dei Commentarii arabi; e anche se l’ingresso ufficiale dei libri naturali dello Stagirita nel programma di studi delle università avviene solo oltre la metà del Duecento, il De Anima e le problematiche gnoseologiche innescate dai diversi aristotelismi diventano fin da subito oggetto di studio dei teologi e dei maestri delle Arti. Alcuni di essi, tra cui Domenico Gundisalvi, traduttore del De Anima avicenniano, e John Blund, autore di uno dei primi trattati sull’anima nel mondo latino, vedono in Avicenna il proprio principale interlocutore e giungono a identificare l’intelletto attivo con un’intelligenza angelica. Altri, come il maestro in teologia e vescovo di Parigi, Guglielmo di Alvernia, operano una conciliazione tra aristotelismo avicenniano e agostinismo, sostenendo che la conoscenza umana non necessiti dell’intervento di un intelletto ab extra per passare all’atto, dal momento che le forme universali vengono apprese dall’uomo direttamente grazie all’illuminazione divina. Del resto, il confronto con gli aristotelismi diventa in quegli anni una tappa che caratterizza in maniera decisiva anche le maggiori correnti dottrinali. E se l’innesto della teoria dell’illuminazione di Agostino nell’alveo della terminologia aristotelica trova nell’ordine francescano il luogo del suo più intenso e florido sviluppo, è con la scuola domenicana che si verifica la decisiva integrazione di Aristotele nella dottrina cristiana, nel momento in cui l’intelletto, tanto attivo quanto possibile, diventa parte integrante dell’anima individuale dell’uomo – posizione peraltro già assunta da Temistio nella tarda Antichità.
Facendo propria la concezione agostiniana dell’homo viator che dal mondo esterno dei visibilia risale a quello interiore degli invisibilia, il ministro generale dell’ordine francescano Bonaventura da Bagnoregio delinea tre tappe fondamentali dell’itinerario dell’anima verso Dio: dalla conoscenza del mondo esterno (sensibilità), l’anima passa alla conoscenza di sé come spirito per poi giungere, come mente che trascende se stessa, alla conoscenza di Dio, ragione dell’esistenza di ogni sostanza e luce che infonde direttamente nell’anima i principi che sono alla base di ogni conoscenza. Il processo conoscitivo, che pur si configura nei termini aristotelici come astrazione degli intelligibili dalle rappresentazioni sensibili delle cose, viene così inserito in una prospettiva teologica che, agostinianamente, vede nella percezione un’azione dell’anima e nell’anima il luogo della luce della Verità e la sede della volontà (che Bonaventura chiama sinderesi, coscienza o apice della mente). La componente singolare delle riflessioni bonaventuriane deriva inoltre dalla tesi della pluralità delle forme la quale, coniugando l’ileomorfismo universale di stampo aristotelico con il dinamismo agostiniano di tutto il creato, ritiene che ciascun composto vivente possa ricevere forme sostanziali diverse in un itinerario verso la perfezione. In questo senso, dal momento che tutto, tranne Dio, è il composto di materia e forma, l’uomo possiede più forme sostanziali, la più perfetta delle quali è l’anima intellettiva: essa è forma e insieme sostanza (forma et hoc aliquid); forma ulteriore di un corpo già formato.
Su una linea diversa si muove il domenicano Alberto Magno che, plasmando l’antropologia aristotelica secondo la dottrina cristiana, considera l’anima intellettiva unica forma sostanziale del corpo e, allo stesso tempo, forma pura. Mentre le facoltà vegetativa e sensitiva esercitano la propria attività in dipendenza dal corpo, l’intelletto ne è indipendente perché procede per emanazione diretta da Dio, causa prima. Esso non è tuttavia unico per tutti gli individui come sosteneva Averroè, ma inerente all’anima dell’uomo perché individuato dall’intelletto possibile, sostrato che pur essendo incorporeo svolge la stessa funzione individuante della materia.
Tale orientamento viene sviluppato ampiamente da Tommaso d’Aquino il quale, opponendosi alla teoria della pluralità delle forme, considera l’anima intellettiva unica forma sostanziale del corpo recante in sé le funzioni inferiori. L’argomentazione dell’Aquinate verte sulla natura dell’intelletto inerente all’anima individuale, il cui fine non è essere forma del corpo, ma conoscere in atto i sensibilia: essendo l’anima indipendente dal corpo ma destinata a realizzare in esso le sue finalità, la conoscenza parte sempre dalla sensazione per poi giungere, con l’astrazione, alla produzione intellettuale del verbum mentis, concetto che esprime a livello intenzionale la quidditas della cosa conosciuta e che permette l’articolazione della conoscenza in enunciati. Creata direttamente da Dio nel corpo (ex nihilo), l’anima viene così a configurarsi come un principio attivo di conoscenza intellettiva che dà l’essere al corpo (forma dat esse) del quale è forma ma che al medesimo tempo trascende. L’anima ha infatti delle attività sue proprie, come la conoscenza di tutti i corpi, la conoscenza degli universali e l’autocoscienza, che si realizzano indipendentemente dal corpo e che la rendono pertanto forma sussistente. L’immortalità dell’anima individuale, da secoli oggetto di dibattito dei commentatori di Aristotele, viene così giustificata e rilanciata in opposizione al cosiddetto averroismo latino che si diffonde proprio in quegli stessi anni nelle università parigine. Principale sostenitore della corrente è Sigieri di Brabante, il quale nelle Quaestiones in tertium de anima afferma l’unicità dell’anima intellettiva, identica per tutto il genere umano, che completa il corpo senza tuttavia costituirne la forma sostanziale. Pur esprimendo una posizione che non esclude e non nega la libera iniziativa dell’uomo e il ruolo dell’illuminazione divina, il monopsichismo diviene ben presto oggetto di feroci dibattiti.
La disputa più celebre è appunto innescata da Tommaso, il quale, oltre a criticare la negazione dell’immortalità all’anima individuale, accusa l’averroismo di non rendere ragione dell’esperienza interna di ciascun individuo che ritiene di essere il protagonista delle proprie attività conoscitive (De Unitate Intellectus contra averroistas). Nonostante la riformulazione del suo pensiero in termini più moderati, la posizione di Sigieri finisce, insieme ad alcune proposizioni tomiste, nel novero delle tesi ritenute pericolose per la fede e condannate dal vescovo di Parigi Étienne Tempier nel 1277.
Verso la fine del XIII secolo, il problema della conoscenza affrontata in termini agostiniani caratterizza gli sviluppi della scuola francescana, che contesta a Tommaso la definizione di anima come unica forma sostanziale del corpo e l’attribuzione di uno spazio eccessivo all’intelletto a scapito della volontà e dell’azione di Dio.
Su tale linea si muove Matteo d’Acquasparta, che alla facoltà intellettiva dell’anima affianca l’illuminazione divina, unica luce in grado di produrre gli universali garantendo la conoscenza. I dati sensoriali diventano così solo una condizione necessaria al conoscere, che viene a configurarsi come la risultante dell’illuminazione divina e dell’attività dell’anima che apprende gli oggetti direttamente nella loro individualità, e non per mezzo di una categoria universale che li rappresenta.
Da tali considerazioni parte l’originale sintesi di Giovanni Duns Scoto il quale, distinguendo due generi di conoscenza, vede nell’apprensione diretta (notitia intuitiva) degli individuali la condizione peculiare della certificazione dell’esistenza e nell’astrazione intellettuale (notitia abstractiva) la possibilità della conoscenza degli universali. Egli considera infatti fondamento della conoscenza e della realtà esistente la natura comune, principio che ora si universalizza nella conoscenza astrattiva della mente, ora si contrae nell’irriducibile individualità del reale. Sviluppando la tesi di Bonaventura sulla pluralità delle forme, Scoto sostiene inoltre che il corpo come tale possieda una propria realtà in atto (forma corporeitatis) che, pur predisponendolo all’unione con l’anima, lo determina nella sua esistenza indipendentemente da essa – perché, anche se morto, il corpo continua a esistere. L’anima intellettiva è dunque nella vita terrena, pro statu isto, una forma sostanziale del corpo e per volontà divina, pro statu naturae, sostanza autonoma e sussistente. La sua immortalità diventa così mera materia di fede.
Esiti particolarmente innovativi nella riflessione sull’anima vengono raggiunti con Guglielmo d’Ockham, il quale sviluppa la distinzione scotiana tra notitia intuitiva e abstractiva coniugandola con l’assunto, già sostenuto da Enrico di Gand, che per spiegare la conoscenza non occorre ammettere l’esistenza reale delle specie intelligibili, dal momento che nelle cose (in re) non esistono universali, nemmeno in potenza. Viene in questo modo liquidato il ruolo dell’intelletto agente e annullata la sua distinzione dall’intelletto possibile. Del resto, costituendo la conoscenza intuitiva degli individuali l’unica attestazione di esistenza, Ockham relega a materia di fede non soltanto l’immortalità dell’anima (come già aveva fatto Scoto), ma anche la realtà stessa dell’anima intesa come sostanza incorruttibile e soggetto delle azioni spirituali. Essa si identifica piuttosto con le attività intellettive e volitive, nella loro singolarità e nelle loro relazioni reciproche, di cui si ha esperienza (habitus) e, quindi, apprensione diretta (notitia intuitiva). È inoltre la stessa esperienza a mostrare come la volontà sia ben distinta dall’intelletto e non da esso determinata. L’uomo verifica infatti quotidianamente in se stesso come egli sia libero di rifiutare ciò che la ragione gli comanda, ora volendo una cosa, ora non volendola.
Quasi negli stessi anni, accanto al filone albertino-tomista e a quello francescano, il domenicano Meister Eckhart sviluppa un’originale mistica speculativa che vede nell’anima il luogo della nascita di Dio e che diviene ben presto oggetto di censure e condanne ecclesiastiche. Allievo di Teodorico di Friberg, che in aperto contrasto con Tommaso aveva sviluppato una lettura fortemente neoplatonizzante di Alberto Magno, Eckhart vede nel fondo dell’anima (scintilla o sinderesi) la pura unità dell’uomo con Dio, spogliata di ogni nome e forma, perché solo rinunciando a tutto ciò che è particolare e finito e operando un distacco da sé l’uomo può ricongiungersi a Dio vedendolo come puro nulla.
Tale via negativa si affaccia con brillante vigore filosofico anche in un’opera letteraria come il Miroir des simples âmes (1269-1306) di Margherita Porrete in cui l’autrice, mistica che finirà al rogo per eresia, mette in scena una allegoria dell’Anima nei suoi rapporti con Amore e Ragione. Liberandosi di se stessa e degli attributi che la individualizzano, l’anima come entità spirituale intraprende un percorso d’amore che, scandalizzando la ragione, la trasforma in luogo di unione con Dio. Perché è annullando la propria volontà che l’anima trova nel fondo di se stessa l’amore senza desiderio e la percezione di essere niente. Un niente da cui tuttavia si ricava il tutto, “senza alcun perché”.