L'altra notte mi venne una gran tosse
Secondo sonetto della tenzone tra D. e Forese, primo (replicativo) di Forese. Le riprese, in esso evidenti, di locuzioni e movenze del sonetto dantesco (Chi udisse: " Udite "; La tosse: " una gran tosse "; l'altra mala voglia: " L'altra notte "; merzé del copertoio c'ha cortonese: " perch'i' non avea che tener a dosso ") e la diretta rispondenza tematica (Zingarelli: " alla figura comica della moglie trascurata sta in riscontro quella del padre egualmente trascurato ") rendono plausibilissima la contiguità dei due sonetti, un tempo contestata (da V. Rossi e da A.G. Massera) a favore di Va, rivesti San Gal prima che dichi, quarto nell'ordine invalso.
Facendo le viste di non aver colto, o di non attribuire alcun peso, alle allusioni equivoche dell'amico, Forese assume in proprio i guai della moglie: la tosse, la scarsa copertura notturna che ne è causa (il che implicitamente ribatte l'accusa di nottambulo disertore del letto coniugale) e lo stato di estrema indigenza, per avviarsi a narrare una strana avventura occorsagli, non è molto, alle prime luci dell'alba (" incontanente che fu dì "), uscito di casa per tentar la fortuna. Andava sognando perle e fiorini fiammanti: e s'imbatté, tra le fosse di un cimitero, nell'ombra inquieta del padre di D. che, stretto nel nodo inestricabile di " Salamone " (Tommaseo, Dizionario: " un certo lavoro a guisa di nodo, di cui non apparisce né il capo né il fine "), lo supplicò: " Per amor di Dante / scio'mi ". Ma egli non poté trovar modo e tornò a casa, dando termine all'infausta sua corsa.
È il sonetto forse più controverso dell'intera tenzone: specialmente il " nodo " (v. 9), che ne è la chiave, ha dato la stura a una serie d'interpretazioni congetturali, che il Barbi sfoltì passandole al vaglio di un'indagine esemplare per acutezza ed equilibrio, senza tuttavia eliminare ogni residuo, di oscurità o d'incertezza nell'esegesi di accenni cronachistici che resistono a ogni industria ermeneutica.
Le " fosse " del v. 8 indicherebbero, secondo M. Chini e il Salvadori, che Alighiero fu in prigione per debiti; confermerebbero invece, secondo il Torraca, che egli morì scomunicato per eresia e fu quindi seppellito ai margini della città, senza gli onori di rito; il Rossi vi colse una possibile taccia di usura; e il Barbi corresse: nessuna taccia, e spiegò: " fra le tombe, tra' morti, in camposanto ": tombe e cimiteri ai tempi di D. erano in vicinanza immediata delle chiese " e ci si poteva capitare molto facilmente. Né Forese dice di esserci andato apposta ". Quanto al " nodo ", scartate con altre le ipotesi del Chini e del Torraca, che non hanno appoggio in alcun documento, il Barbi lasciò in campo due tesi: quella proposta dal Rossi, e da lui sostanzialmente preferita, di " usura da restituire " e l'altra, di " ingiuria sofferta " (da vendicare), di cui sarebbe testimonianza nei vv. 2-4 del sesto sonetto l'allusione al cambio " de l'aguglin ". Si tratterebbe, in quest'ultimo caso, di grave inadempienza da parte di D. di un dovere filiale di vendetta, che a norma di diritto e di costume impegnava la sua onorabilità e senza il cui adempimento l'ombra del padre da tanti anni defunto non poteva trovar requie nel sepolcro (cfr. in If XXIX 18-36 il gesto minaccioso di Geri del Bello). Ma in che consistesse l'offesa subita da Alighiero non è dato sapere. Laddove l'interpretazione ‛ usuraria ' è resa verosimile dal fatto che la Chiesa considerava l'usura peccato gravissimo, tanto che a scioglierne l'anima " non bastava la semplice assoluzione, ma si esigeva la riparazione del danno o dall'interessato stesso o dagli eredi, con restituzioni o donazioni in base a esplicite garanzie " (Mattalia), e ben si adatta ad Alighiero, che risulta prestatore di denaro (come suo padre e il fratello Brunetto) da documenti pratesi del 1246-47 nonché da un atto rogato a Montemurlo il 20 ottobre 1257 (donna Bencia dichiara di aver ricevuto un mutuo di lire 2 soldi 80 di denari pisani da Alighiero fu Bellincione da Firenze) e da un altro del 1283, con cui il poeta vende un credito ipotecario ereditato dal padre. Una supplica di prestazione pecuniaria (si suppone non tenue) rivolta da Alighiero, in nome del figlio, a quello squattrinato randagio di Forese che D. ha appena finito d'irridere per la sua miserabilità, verserebbe un po' di umor comico nella trama dell'avventura altrimenti assai stenta e dispersiva.
Nell'un caso come nell'altro, Forese mirò a ferire la suscettibilità dell'amico senza probabilmente tener conto, osserva lo Zingarelli, che " forse anche in quei tempi meno permalosi non si rideva coi morti "; certo, senza prevedere quale suggestiva potenza di metafore si sarebbe sprigionata nella ritorsione di D. da quel primo cappio, da lui alla bell'e meglio ideato in cerca d'improperi.
Il sonetto, che il Maggini ritenne con gli altri di Forese " non molto al di sotto di quelli di Dante " e in cui il Mattalia rileva un " serrato estro polemico ", è giudicato dal Russo " una di quelle fantasie polemiche che nascono nei cervelli mediocri e negli spiriti deboli "; dal Contini " un ricorso narrativo, aneddotico, che, com'è nettamente antilirico, così è poco spiritoso "; dall'Apollonio " di andamento disinvolto, anche se inefficiente ".
A differenza di non poche corrispondenze in versi, qui la replica non è " per le rime ". Un giuoco di assonanze si rileva nelle quartine.
Circa la tradizione manoscritta, v. alla voce TENZONE.