L'alto Medioevo nelle isole britanniche e in Scandinavia
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
È nelle isole britanniche che si ritrova la maggior varietà di fonti di ispirazione artistica dell’Europa altomedievale, che si concretizzerà soprattutto nell’ambito della scultura monumentale, nell’oreficeria e nella produzione di codici miniati. Seppur più isolata, anche la Scandinavia riesce ad assimilare influenze di origine mediterranea e orientale, che si concretizzeranno in particolare nella creazione di oggetti di uso quotidiano e di gioielli.
Mondo celtico, mondo germanico, mondo mediterraneo: nessuna zona dell’Europa altomedievale, come le isole britanniche, conosce una così straordinaria varietà di fonti di ispirazione per la formazione del proprio linguaggio artistico. La cultura celtica, radicata in Irlanda e da qui esportata verso la Scozia e la Northumbria, si permea ben presto anche di formule di origine orientale, in particolare greche, egiziane e siriache. L’arte germanica invece, giunta nell’antica Britannia insieme ai nuovi conquistatori, gli Anglosassoni, riceve nuova linfa dalle invasioni scandinave del IX e X secolo. Gli influssi mediterranei a loro volta, arrivati da Oriente nell’Irlanda del VI secolo, irrompono nelle terre anglosassoni nel successivo, con un vento che spira però da Roma e dall’Occidente, grazie soprattutto alle missioni cristiane.
I primi missionari di religione cristiana, guidati da san Patrizio, giungono in Irlanda nel V secolo e organizzano la Chiesa locale in una fitta rete di monasteri. Questi primi edifici di culto non erano altro che modeste strutture per le piccole comunità monastiche, erette all’interno di un recinto circolare, destinato a proteggere le capanne dei monaci e una stele o una croce, luogo di riunione e di preghiera. Successivamente, un certo sviluppo architettonico si coglie intorno al VII-VIII secolo con la comparsa di alcune chiese molto semplici, a una sola navata, ma di dimensioni un po’ maggiori. Il VI è, invece, il secolo in cui prende avvio la cristianizzazione piena della Gran Bretagna: prima monaci irlandesi, guidati da san Colombano, fondano una serie di monasteri, soprattutto in Scozia e Northumbria, poi nel 596 giunge la missione di sant’Agostinodi Canterbury, seguita nel 601 da quella di Mellitus, entrambe volute da papa Gregorio Magno, per evangelizzare gli Anglosassoni. Tuttavia la natura conservatrice del monachesimo irlandese, ben radicatosi anche in Gran Bretagna, non poteva non scontrarsi con le pratiche della liturgia di importazione romana, così nel 664, con il concilio di Whitby, la Chiesa di Roma, imponendo la propria prassi liturgica, segna la sua affermazione sul territorio e riannoda i rapporti tra le comunità insulari e quelle continentali. Nascono così una serie di abbazie fortemente legate alla Chiesa romana, come quelle di Wearmouth (674) e Jarrow (681) – a opera di Benedict Biscop, formatosi a Lindisfarne ma culturalmente legato a Roma – che favoriscono gli scambi culturali, innescando un certo processo di romanizzazione.
L’espressione che meglio illustra la capacità dei popoli delle isole britanniche di creare un’arte specchio del proprio passato e insieme adatta alle esigenze del cristianesimo è la scultura monumentale. Le opere principali e più antiche che si siano conservate fino a oggi sono lastre funerarie, stele e croci monumentali, erette inizialmente nei recinti degli edifici religiosi. È probabile che l’idea di inserire dei monoliti verticali in un recinto sacro fosse in parte ispirata dalla tradizione celtica, ma, per il loro messaggio teologico, lastre e croci si ricollegano al mondo cristiano mediterraneo. Monumenti simili, nei primi secoli del culto cristiano, si vedono infatti in molti Paesi del Mediterraneo orientale e dell’Oriente cristiano, in particolare in Georgia e Armenia. La croce è all’origine il tema centrale della decorazione e, spesso, l’unico. I più antichi esempi di lastre e stele che si trovano in Irlanda si possono datare tra la fine del VI e il principio del VII secolo e recano una decorazione molto semplice, formata da spirali o da altri motivi cari alla tradizione celtica. Françoise Henry, studiosa di arte irlandese, pensa che verso la fine del VII secolo la stele irlandese si sia “trasformata”, come in un processo di progressiva monumentalizzazione, in una grande croce con l’asta rivestita da un’abbondante decorazione. Contestualmente si arricchisce anche il repertorio decorativo di questi monumenti, con la comparsa di crocifissioni incise (stele di Duvillaun), croci decorate da intrecci (croce di Fahan Mura), figure umane e animali (stele di Gallen).
A questo tipo di stele, comunque ancora elementare, fanno seguito ben presto croci monumentali con una decorazione molto più complessa: la superficie viene divisa in pannelli, ospitanti rilievi istoriati e ornamenti aniconici, ispirati all’arte dei metalli. Le scene figurate, pur rese con un rilievo molto debole e caratterizzate da forme decisamente schematizzate, risultano chiare e leggibili, dichiarando una dipendenza dal repertorio iconografico dell’arte cristiana mediterranea. Proprio in questo si annida lo straordinario lavoro degli artisti irlandesi, nell’aver innestato nell’iconografia mediterranea un monumento profondamente radicato nella cultura locale. È assai probabile che dall’Irlanda le croci siano giunte in Inghilterra, dove, tuttavia, seguono uno sviluppo del tutto autonomo.
La croce di Ruthwell, uno degli esempi più antichi, databile intorno alla metà dell’VIII secolo, mostra dieci rilievi, da cui le figure emergono monumentali, grazie ai volumi e agli ampi drappeggi. Nelle croci anglosassoni abbondano però anche le decorazioni puramente ornamentali, soprattutto sulle facce laterali. Le più remote origini di questi intrecci anglosassoni, a volte associati a motivi vegetali e zoomorfi, possono essere ricercate indubbiamente nel bacino mediterraneo, ma la loro diffusione deve aver ricevuto un forte stimolo dal mondo germanico continentale. Un crogiolo di influssi sovrintende anche a un altro eccezionale capolavoro della scultura in pietra sassone: lo scettro di Sutton Hoo, parte del corredo funebre della “nave-tomba”, verosimilmente costruita per re Redwald. Lo scettro, decorato alle estremità con una serie di testine umane dalla rude espressività e dalla forte tensione lineare, esplica nella varietà dei confronti possibili, dalla testa di Teodolinda di Milano fino a rilievi dell’Egitto copto, la pluralità e la ricchezza del linguaggio locale.
Accanto alla scultura in pietra, quella in metallo segue invece in quest’area un discorso privilegiato perché legato alla tradizione artistica propria di Celti e Germani, ovvero alla produzione di oggetti d’uso in metallo con una decorazione di natura essenzialmente ornamentale. Questa caratteristica, decisamente eversiva rispetto al linguaggio artistico della classicità, diventa in un certo senso emblema nell’alto Medioevo dell’ancestrale dualismo tra Nord e Mediterraneo. Una peculiarità usata e rimarcata peraltro tra Ottocento e Novecento con fini nazionalistici o, nell’ambito della critica storico-artistica, con lo scopo di rifuggire il mediterraneocentrismo nell’arte. Gli orafi irlandesi recano forte il segno della tradizione celtica, tanto che il loro programma decorativo, incentrato principalmente su un sistema di motivi curvilinei, si ritrova in pieno nel repertorio ornamentale dei monoliti in pietra e degli oggetti in metallo irlandesi dal III-II secolo a.C.
Alcuni capolavori dell’oreficeria irlandese, come la Fibula di Tara e il Calice di Ardagh, entrambi al National Museum of Ireland di Dublino, mostrano la complessità di questa produzione che, a partire dal VII secolo, comincia ad aprirsi anche a temi di origine mediterranea e germanica. In Inghilterra, invece, il retaggio celtico non sopravvive all’occupazione romana e poi a quella anglosassone, e ben presto lascia il posto agli influssi delle oreficerie delle tribù germaniche occidentali, inizialmente con il cosiddetto “primo stile zoomorfo” e, in seguito, sul finire del VI secolo, con l’affermazione del “secondo stile”. Uno degli esempi più sontuosi in tal senso è costituito da una fibbia aurea rinvenuta nella “nave-tomba” di Sutton Hoo. A partire dall’VIII secolo un massiccio afflusso di modelli mediterranei trasforma radicalmente i mezzi espressivi e il repertorio decorativo dell’oreficeria anglosassone, come attesta bene la Croce di San Ruperto, con i suoi eleganti quadrupedi e volatili. Di risposta una nuova impennata dello spirito germanico nelle arti suntuarie si verifica tra il IX e il X secolo, quando si installano in Inghilterra le popolazioni scandinave.
Un discorso a se stante merita in questa area la storia e lo sviluppo della miniatura, la cui corretta lettura è stata inficiata dalle convinzioni romantico-nazionaliste di un’assoluta originalità dell’arte irlandese, direttamente derivata dal sostrato celtico, e dall’errata datazione al VI secolo di alcuni codici. Oggi la miniatura insulare si mostra con chiarezza per quello che è: una straordinaria e unica sintesi di motivi celtici, germanici e mediterranei. Per questo la vecchia denominazione di miniatura celtica è ormai sostituita con quella più esatta di miniatura iberno-sassone, che unisce all’antico nome dell’Irlanda, Hibernia, la componente germanica degli Anglosassoni. Quando san Patrizio giunge nel V secolo in Irlanda per evangelizzarla, questa non ha ancora sviluppato una cultura scritta, che costituisce invece la base della religione cristiana, trasmessa proprio attraverso i testi sacri. Così dal continente giungono sull’isola libri, e nuovi se ne creano per i numerosi monasteri in cui era stata organizzata la Chiesa irlandese. Non si conserva purtroppo nessun codice che sia collegabile a questa fase della produzione irlandese, dato che i manoscritti più antichi, come il Cathach di san Colombano (Dublino, Royal Irish Academy, s.n.) o il frammento I dell’Evangeliario di Durham (Cathedral Library, mss. A. II. 10) sono databili al VII secolo. Questi evidenziano peraltro a livello decorativo un già avvenuto incontro tra le grandi componenti celtica, germanica e mediterranea.
Nel corso del VI e VII secolo mentre i monaci irlandesi emigrano verso la Gran Bretagna, fondando nuovi monasteri, come quello sull’isola di Iona in Scozia o quello di Lindisfarne in Northumbria, papa Gregorio Magno invia una missione guidata da sant’Agostino di Canterbury a evangelizzare gli Anglosassoni; al seguito del monaco arrivano numerosi libri, realizzati a Roma, tra cui probabilmente anche l’’ Evangeliario di sant’Agostino (Cambridge, Corpus Christi College, ms. 286), che, con la sua figura dell’evangelista Luca, intento a scrivere entro un colonnato, contribuirà indubbiamente alla diffusione di una struttura decorativa di ispirazione classica nell’isola. Richiamo alla tradizione antica che non manca nemmeno in quel codice che per lungo tempo è stato erroneamente visto come il simbolo del trionfo dell’astrattismo nordico sul classicismo mediterraneo, come la vittoria della potenza evocativa del segno sulla tradizione esplicitamente comunicativa dell’antichità: il Book of Durrow (Dublino, Trinity College, ms. A.IV.5). Realizzato probabilmente nell’isola scozzese di Iona, nella seconda metà del VII secolo, il codice incanta in primo luogo con le sue pagine-tappeto, dove una distesa di motivi ornamentali rapisce l’occhio dell’osservatore nella suggestiva forza evocatrice del segno-simbolo; qui spirali e riccioli dell’arte celtica si fondono con intrecci e motivi animalistici di matrice germanica, che trovano puntuali riscontri nella coeva oreficeria irlandese e anglosassone.
Tuttavia il magnetismo della tradizione classica non è del tutto sconfitto e, guardando oltre l’apparenza, nella figura di san Matteo, malgrado il corpo reso come una placca di smalto, si coglie la riscoperta della figura umana. Non bisogna infatti dimenticare che in seguito alla fondazione di monasteri romanizzati dopo il concilio di Whitby (664) e grazie all’opera di Benedict Biscop e del suo successore Ceolfrith i rapporti culturali con il continente aumentano progressivamente, con il conseguente scambio di oggetti liturgici e manoscritti, che contribuiscono alla diffusione nell’isola di modelli tardoantichi.
Proprio Benedict e Ceolfrith portano in Inghilterra una serie di codici antichi molto importanti, alcuni provenienti dallo scriptorium classico di Vivarium, in Calabria, come il famoso Codex Grandior di Cassiodoro. Per avere un’idea di quali modelli abbiano diffuso questi manoscritti si può considerare il Codex Amiatinus (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, ms. Am. 1), prodotto nei monasteri di Wearmuth-Jarrow al principio dell’VIII secolo, proprio copiando la Bibbia di Cassiodoro. Soffermandosi sulla figura di Esdra, si capisce come questa cerchi di ripetere lo stile plastico e pittorico del modello italiano e come abbia, quindi, contribuito all’assimilazione di questo linguaggio da parte dei miniatori insulari. Se si confronta, infatti, lo scriba Esdra con l’evangelista Matteo del Vangelo di Lindisfarne (Londra, British Library, ms. Cotton Nero D. IV), realizzato nell’omonimo monastero northumbriano intorno al 698, si vede come il referente tardoantico abbia fatto sentire la sua influenza; tuttavia le iniziali e le pagine-tappeto dello stesso codice, rese attraverso il più tipico repertorio ornamentale, mostrano anche come il miniatore non abbia rinunciato ai tratti distintivi e originali della propria arte.
Su questa linea si muove anche l’artista che produce a Iona sul finire del VII secolo i Vangeli di Echternach (Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. Lat. 9389), dove i simboli degli evangelisti, seppur ancora influenzati dalla maniera locale di costruire le immagini in modo lineare e astratto, si segnalano per una nuova visione organica del soggetto. Dopo il 700 la miniatura insulare si avvia su due diversi itinerari evolutivi, di cui uno, localizzabile nel sud della Gran Bretagna, si aprirà sempre di più in maniera totale ai modelli tardoantichi, mentre l’altro, diffuso nel nord dell’isola e in Irlanda, si rivolgerà alla corrente autoctona delle prime esperienze irlandesi.
Opera emblematica della prima corrente è sicuramente il Codex Aureus (Stoccolma, Kungliga Biblioteket, ms. A. 135), miniato a Canterbury nella seconda metà dell’VIII secolo, mentre il secondo filone produce uno degli indiscussi capolavori della miniatura europea, il Book of Kells (Dublino, Trinity College Library, ms. A.1.6). Scritto probabilmente a Iona, intorno all’800, il libro presenta, in una versione arricchita e fantasiosa senza precedenti, una rivisitazione di tutti i motivi ornamentali della tradizione locale celtico-germanica, che si snodano nella decorazione delle architetture, nelle pagine-tappeto e nelle iniziali. Con questo substrato indigeno si fonde straordinariamente il referente mediterraneo: nella pagina con la Vergine in trono con Bambino e angeli, mentre la cornice è un susseguirsi di linee, intrecci e bestie aggrovigliate di ispirazione locale, la figura della Madonna sembra quasi un’icona bizantina. Questa, insieme alla raffigurazione della Tavola dei Canoni e alle immagini degli evangelisti, tradisce palesemente lo studio da parte del miniatore del Book of Kells di una Bibbia di area mediterranea.
Non possiamo purtroppo indicare il prototipo preciso del codice insulare, data la lontananza tra quest’ultimo e i pochi manoscritti superstiti, ma, secondo alcuni studiosi, esso andrebbe individuato in un codice costantinopolitano o ravennate del VI secolo. Quello che resta è comunque l’eccezionale, unica e sorprendente capacità dell’autore del Book of Kells di fondere le due grandi culture che sono all’origine dell’arte medievale: il Nord e il Mediterraneo. Testimonianze effettive di questa affermazione sono le splendide iniziali decorate del codice. Prodotto dell’arte italiana del VI secolo, l’iniziale decorata o zoomorfa, figlia della valenza sacra e autoritativa che il testo scritto assume con il cristianesimo, viene rielaborata nell’area insulare in maniera autonoma e originale, con la creazione di lettere fortemente suggestionate dalla decorazione dell’oreficeria e dalle pagine-tappeto.
In questa Europa altomedievale, sempre più cristianizzata e latinizzata, un mondo a parte è costituito dalla Scandinavia, fortemente isolata in virtù della sua posizione geografica. Tuttavia le frequenti relazioni politiche, militari e commerciali con gli altri Paesi del continente consentono all’arte scandinava di assimilare elementi di origine mediterranea e orientale. Come per molte popolazioni del Nord, i campi d’azione privilegiati dell’opera artistica sono costituiti per gli Scandinavi, al di là dell’architettura, dagli oggetti del quotidiano e dai gioielli. Nell’enorme produzione di fibule, fibbie da cintura, scudi e bratteati, ovvero i piccoli pendenti rotondi da portare al collo tanto cari agli Scandinavi, si impone un procedimento ornamentale essenzialmente decorativo, dove anche la figura animale, tematica assolutamente consona agli orafi della Scandinavia, viene disintegrata e poi ricomposta, quasi in una funzione apotropaica.
L’inossidabilità dello spirito ornamentale dell’arte scandinava, nel susseguirsi di stili zoomorfi, è ben attestata dall’ornamentazione di epoca vichinga, quando viene realizzato il capolavoro di questa espressione: la “nave-tomba” di Oseberg (Oslo, Vikingskipethuset), sepolcro di una dama della nobiltà locale, forse addirittura una regina, della prima metà del IX secolo. Si tratta di una nave vera, solo successivamente utilizzata come sepoltura, dove la dama e la sua cameriera sono state deposte insieme a centinaia di oggetti di uso quotidiano e gioielli, destinati a garantire alla donna, secondo un’antichissima credenza primitiva, un’esistenza simile a quella condotta in vita anche dopo la morte. Tutta la decorazione degli oggetti rinvenuti a Oseberg, compresa quella della stessa nave, trae ispirazione dal terzo stile zoomorfo, sottoposto però a una intensificazione e a una rivisitazione dei modelli canonici. Riguardo alla figura umana, se le più antiche attestazioni si ritrovano già nei gioielli e negli oggetti, il campo d’azione privilegiato è senza dubbio quello delle stele funerarie, suggestivi segnacoli tombali o commemorativi. Le lastre più antiche si distinguono per una disposizione poco ordinata dei motivi decorativi e per una resa dei soggetti tramite linee incise molto sottili, ma dall’VIII secolo si verifica una radicale trasformazione, con la nascita delle stele istoriate con la storia di un eroe o di un mito. Qui il rilievo, benché debole, si fa più accentuato, dando risalto in modo più evidente ai personaggi, così da creare una vera e propria scena narrativa. Se nella stele di Lillbjärs (Stoccolma, Statens Sjöhistoriska Museum), uno dei primi esempi dell’VIII secolo, gli episodi risultano ancora privi di una separazione interna, nelle testimonianze più tarde, come la celebre lastra di Lärbro (Gotland), diventa più decisa la ripartizione tra episodi distinti, con la suddivisone della superficie in fasce orizzontali.