Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Indipendente dal 1920, seppur liberatasi già nel 1912 dalla secolare dominazione turca, origine della endemica condizione di arretratezza che ne fa a lungo uno dei Paesi più poveri d’Europa, l’Albania ha avuto nel Novecento una storia alquanto travagliata. Oggetto delle mire di molti Paesi vicini, occupata dagli eserciti stranieri nelle due guerre mondiali, Principato, quindi Repubblica, per undici anni Regno, infine Stato comunista prima filosovietico poi vicino alla Cina di Mao, il “Paese delle Aquile” ha potuto cominciare solo nel 1991 un sofferto e difficile processo di democratizzazione e di modernizzazione.
Al principio del Novecento l’Albania è ancora sotto la sovranità ottomana, imposta sul suo territorio dalle armate turche già nel XV secolo. L’indebolimento dell’autorità del sultano, unito alle possibilità offerte dalla dinamica politica estera dei Paesi vicini, offre però all’ancora embrionale movimento nazionale albanese l’occasione di far assumere per la prima volta un carattere indipendentista a rivolte come quelle che caratterizzano il triennio tra il 1909 e il 1911, originate innanzi tutto dall’insofferenza delle tribù locali nei confronti dell’inasprimento della pressione fiscale, nonché dalle condizioni di estrema povertà in cui vive la popolazione, dedita a un’agricoltura di pura sussistenza. Di conseguenza al ristretto gruppo di nazionalisti guidato da Ismail Qemali (1844-1919) e Hasan Prishtina (1873-1933) non è difficile persuadere i notabili, i capitribù e i grandi proprietari terrieri che la rivoluzione scoppiata nella primavera del 1912 può questa volta concludersi con la liberazione del territorio albanese dal giogo ottomano. Sconfitti militarmente, i Turchi non riescono a spezzare l’unità dei rivoltosi e a impedire che il Congresso Nazionale Albanese, riunito a Valona sotto la presidenza di Qemali, proclami l’indipendenza il 28 novembre 1912 dopo aver ricevuto l’assenso di Vienna e di Roma. Della questione, com’è consuetudine nell’Europa del Concerto, si occupa la Conferenza degli ambasciatori di Londra che, dopo aver riconosciuto al governo provvisorio albanese lo status di “autorità indigena esistente”, prevede che l’Albania diventi un Principato sovrano, ereditario, nonché neutrale. Guglielmo di Wied (1876-1945), il principe prussiano che le grandi potenze pongono a capo dello Stato, s’insedia sul trono albanese nell’aprile del 1914 ma incontra subito grandi difficoltà. Malvisto dalla popolazione locale – che riconosce in Qemali il vero artefice dell’indipendenza nazionale –, costretto ad affidare importanti responsabilità di governo all’influente Essad Toptani (1863-1920), già ministro della Guerra e poi dell’Interno, Guglielmo lascia il Paese il 1° settembre 1914 per non farvi più ritorno: anche se il motivo ufficiale della sua decisione è la rottura consumatasi con Vienna, che insiste affinché l’Albania entri nel conflitto mondiale al suo fianco, soprattutto il principe ritiene impossibile affrontare una prova così dura come la guerra senza un forte consenso popolare. La fine di quest’effimero Principato, che le potenze avevano anche dotato di uno Statuto assai evoluto, lascia il territorio albanese in balia delle mire espansioniste degli Stati vicini. Se la parte settentrionale dell’Albania è subito occupata dagli Austriaci, in quella meridionale ai Serbi subentrano nell’autunno del 1915 gli Italiani, cui si aggiungono poi i Francesi. Infastidite dalla guerriglia, Vienna, Roma e Parigi cominciano a corteggiare il nazionalismo locale: alla decisione dei Francesi di istituire, nel dicembre 1916, la Provincia Autonoma Albanese di Korçë, seguono il riconoscimento dell’Albania come territorio autonomo all’interno della Duplice Monarchia (gennaio 1917) e, nel giugno dello stesso anno, la dichiarazione d’indipendenza sotto il protettorato italiano.
Ciononostante alla fine del conflitto mondiale manca nella comunità internazionale un’idea precisa sul futuro dell’Albania e la spartizione del suo territorio resta nei programmi dei governi di Atene e Belgrado. L’Italia, dopo aver vanamente coltivato con il primo ministro Sonnino (1847-1922) l’idea di estendere il suo protettorato all’intera Albania, decide di avallare le pretese greche sul meridione del Paese, ottenendo in cambio, con gli accordi firmati il 29 luglio 1919 tra il ministro degli Esteri Tommaso Tittoni (1855-1931) e il suo collega ellenico Eleftherios Venizelos (1864-1936), il sostegno di Atene alla sua richiesta di vedersi riconosciuto il mandato sulla parte centro-settentrionale del Paese nonché la sovranità sulla regione di Valona. La reazione dei nazionalisti albanesi è durissima, anche perché molti avevano riposto proprio nell’Italia le uniche speranze di veder difesa la causa dell’indipendenza. Il 21 gennaio 1920, riuniti a Lushnjë, i membri del Comitato Nazionale, dopo aver dato al Paese un nuovo Statuto, rinnovano il loro impegno a combattere per la salvaguardia dell’indipendenza dell’Albania e dell’integrità del suo territorio. Il nuovo governo, guidato da Sulejman bey Delvina (1884-1932), trasferisce la capitale da Durazzo a Tirana, pretende il ritiro delle truppe d’occupazione e respinge ogni forma di protettorato. Le violente dimostrazioni che, dalla primavera del 1920, s’indirizzano contro i soldati italiani che presidiano Valona, nonché l’auspicio della comunità internazionale che la questione albanese trovi una rapida soluzione, spingono Giovanni Giolitti (1842-1928) ad accettare le richieste del governo di Tirana: il 2 agosto 1920 si giunge alla firma di un accordo che stabilisce l’immediato ritiro delle truppe italiane dal territorio albanese. Nella prima metà degli anni Venti si alternano alla guida del Paese governi deboli, per lo più espressione delle due principali formazioni politiche: il Partito Popolare e quello Progressista. A Fan Noli (1882-1965), un vescovo ortodosso che si pone l’obiettivo di riformare profondamente la struttura ancora tribale della società albanese, si contrappone Ahmed bey Zogu (o Zog) (1895-1961), un rozzo latifondista che, per quasi quindici anni, sarà il dominatore della scena politica nazionale. Zogu trova proprio nell’Italia di Mussolini quel sostegno di cui ha bisogno non solo per sbarazzarsi dell’opposizione, ma anche per operare la trasformazione della Repubblica in Regno, compiuta il 1° settembre 1928: in cambio, con un’azione alquanto abile che si concretizza in tutta una serie di accordi politici, economici e militari, riuniti poi nel trattato di amicizia e di sicurezza italo-albanese del 27 novembre 1926, Roma impone un protettorato de facto sul vicino Stato adriatico.
Nonostante tutto, sono anni, questi, in cui l’Albania conosce finalmente una certa stabilità politica, accompagnata da importanti riforme in campo amministrativo; l’arrivo dei capitali italiani consente poi al Paese di compiere i primi passi verso l’ancora lontana uscita dal sottosviluppo. Il protettorato si trasforma in occupazione il 7 aprile 1939, quando Mussolini decide di porre il Regno di Albania direttamente sotto la sovranità italiana. Il popolo albanese non difende la monarchia zoghista, corrotta e screditata, ma comincia a manifestare una certa insofferenza verso l’occupazione italiana quando l’Albania, a partire dal 28 ottobre 1940, diviene la base per una fallimentare campagna militare contro la Grecia. Anche se una parte del nazionalismo albanese non è insensibile al fascino dell’idea di una Grande Albania, che, sotto la protezione di Italiani e Tedeschi, comprenderebbe sia il Kosovo che una buona parte dell’Epiro, il Movimento di Liberazione Nazionale (MLN), nato ufficialmente a Peza il 16 settembre 1942 dall’unione della guerriglia comunista con i partigiani zoghisti, si propone fin dal principio come organo costituente di un nuovo Stato, obiettivo ribadito in occasione del Congresso di Përmet del 24-28 maggio 1944. Pur fortemente diviso al suo interno, specialmente dopo la fuoriuscita del gruppo del Fronte Nazionale, che non è disposto a riconoscere la supremazia della componente comunista, il cui capo è un ex professore di francese, Enver Hoxha (1908-1985), il MLN riesce a liberare tutta l’Albania praticamente con le sue sole forze entro il novembre 1944. I comunisti, organizzati già da tre anni nel Partito Comunista d’Albania, esaltando il carattere antifascista della guerra di liberazione nazionale, costringono le altre componenti del Movimento ad accettare la sua trasformazione nel Fronte Democratico che alle elezioni del dicembre 1945 consegue oltre il 90 percento dei voti. La proclamazione della Repubblica Popolare d’Albania, l’11 gennaio 1946, pone il Paese più che nell’orbita sovietica sotto il controllo jugoslavo. Hoxha si mostra fin dal principio alquanto insofferente verso la tutela esercitata da Belgrado sul suo Paese: non può quindi che salutare con sollievo la rottura consumatasi tra Tito e Stalin il 30 giugno 1948. Il dittatore comunista, che fino ad allora si era preoccupato innanzi tutto di garantire al Paese quello sviluppo socio-economico che non aveva mai conosciuto, comincia a essere ossessionato dall’idea che l’Albania possa essere invasa dalle potenze vicine. Se in principio il timore è che la Jugoslavia possa essere ricompensata con l’Albania dagli Angloamericani per un suo eventuale passaggio al blocco occidentale, verso la fine degli anni Cinquanta si registra un progressivo allontanamento dell’Albania dall’URSS, accusata da Hoxha di sostenere nuovamente, dopo la ricomposizione dei rapporti tra Mosca e Belgrado, le mire annessioniste titine sul territorio albanese. Lo scisma si consuma nell’ottobre 1961, quando, per compensare l’interruzione dei finanziamenti sovietici, Hoxha decide di sostituire l’amicizia dell’URSS con quella della Cina Popolare: gli Albanesi costringono i Russi ad abbandonare la base navale di Valona e, nel 1968, escono dal Patto di Varsavia. Fra il 1976 e il 1978, contrario alla modernizzazione dell’economia cinese avviata da Deng Xiao Ping, Hoxha decide di interrompere i rapporti anche con la Cina. Gli ultimi anni del regime sono contraddistinti da una totale chiusura verso il resto del mondo, una linea che sopravvive anche alla morte del dittatore, avvenuta nel 1985. Solo alla fine degli anni Ottanta il suo successore, Ramiz Alia (1925-2011), avvia una cauta politica di apertura verso l’esterno che, comunque, non riesce a evitare, sotto la spinta delle proteste popolari, la fine dell’esperienza comunista. Le elezioni del 31 marzo 1991 rappresentano il punto di partenza di un processo di normalizzazione democratica, il quale, pur garantendo una certa alternanza al potere tra i liberali del Partito Democratico, guidati da Sali Berisha (1944-), e gli ex comunisti del Partito Socialista di Fatos Nano (1952-), non può ancora dirsi compiuto.