Kōshikei
(Giappone 1967, 1968, L'impiccagione, bianco e nero, 117m); regia: Ōshima Nagisa; produzione: Nakajima Masayuki, Yamaguchi Takuji, Ōshima Nagisa per Sūzūsha; sceneggiatura: Tamura Tsutomu, Sasaki Mamoru, Fukao Michinori, Ōshima Nagisa; fotografia: Yoshioka Yasuhiro; montaggio: Uraoka Keīchi; scenografia: Toda Jushū; musica: Hayashi Hikaru.
R., un giovane coreano, è giustiziato tramite impiccagione per aver stuprato e ucciso due ragazze giapponesi. Tuttavia, dopo l'esecuzione, si scopre che il condannato è ancora vivo, sebbene privo di coscienza. Dal momento che la legge giapponese proibisce l'esecuzione della pena di morte per un condannato che non sia cosciente, gli uomini presenti all'accaduto decidono di mettere loro stessi in scena gli eventi passati della vita di R., dall'infanzia allo stupro, sperando che questi possa riaversi e poter così essere giustiziato. Nel corso di questa insolita rappresentazione collettiva, un nuovo personaggio finisce per materializzarsi: si tratta di una ragazza coreana, che R. chiama "sorella". La giovane riesce a far prendere coscienza al condannato della sua identità di coreano, e questi accetta di essere giustiziato in nome di tutti i suoi compatrioti vittime, come lui, dei soprusi giapponesi. L'esecuzione avviene, ma quella che si vede penzolare alla fine è una corda dal cappio vuoto.
Film militante ed esemplare del rapporto fra cinema e Sessantotto, Kōshikei coniuga efficacemente la radicalità del discorso politico alla volontà di mettere in di-scussione, e nei fatti scardinare, le modalità di rappresentazione del cinema dominante. I temi della pena di morte, della dura condizione dei coreani residenti in Giappone e del ruolo oppressivo dello stato si fondono perfettamente fra loro. Ōshima Nagisa inizia il film in modo quasi documentario, mostrando allo spettatore gli angusti spazi della cella della morte e facendogli sapere che più del settanta per cento dei giapponesi è contrario all'abolizione della condanna capitale. Con coraggio sceglie di raccontarci un caso in cui il condannato non è innocente, ma proprio per questo il suo di-scorso si fa più radicale: "Se uccidere è un crimine, sarà anche un crimine uccidere me", dice a un certo punto e con inattaccabile lucidità il protagonista. La rappresentazione immaginaria che della vita di R. danno i funzionari che lo circondano rivela da un lato ‒ e in particolare attraverso la materializzazione della ragazza ‒ le drammatiche condizioni di vita in cui versano gli immigrati coreani in terra giapponese, considerati a tutti gli effetti cittadini di serie B; dall'altra emergono a più riprese i pregiudizi nei loro confronti, come quando, sempre durante la rappresentazione della vita di R., un funzionario invita un altro a fingere di mangiare come un maiale, proprio "alla maniera di un coreano", oppure quando un altro funzionario ancora si lascia scappare che bisognerebbe sterminare tutti i 600.000 coreani che vivono in Giappone (o almeno, precisa un suo collega, quelli fra loro che sono comunisti). Quasi come in un film di Buñuel gli uomini che circondano R. rappresentano diversi ruoli istituzionali: dal direttore del carcere al pubblico ministero, dal prete cattolico all'ufficiale di guardia; ognuno di essi, in quei modi grotteschi tanto cari al regista spagnolo, finirà nel corso del film col rivelare le proprie verità sessuali nascoste: repressione, voyeurismo, perversione, impotenza, sino al momento culminante in cui uno di loro, mimando la scena dello stupro, arriverà quasi a strangolare un'incolpevole vittima. Coloro che devono condannare non sembrano affatto migliori di colui che è condannato.
Altrettanto radicali sono le modalità di rappresentazione adottate da Ōshima, che riecheggiano, come molta critica occidentale ha sottolineato, il gusto per l'assurdo di un Kafka e i modelli dello straniamento brechtia-no. Da questi ultimi in particolare discende l'idea cardine del film: quella di essere la rappresentazione di una rappresentazione, in cui attori recitano personaggi che si fingono attori dando vita a un teatro dove realtà e finzione tendono inesorabilmente a intrecciarsi fra loro tanto da portare, attraverso la comparsa della ragazza coreana, alla materializzazione dell'immaginario. In questa stessa prospettiva vanno poi lette le didascalie del film, che lo suddividono in parti e che annunciano l'argomento di quel che seguirà, spogliandolo di ogni suspense ma evidenziandone il significato. In analoga direzione va anche l'uso del bianco e nero, e delle geometriche e stilizzate composizioni formali delle diverse inquadrature, tese a dare il massimo rilievo al significato e alla dimensione simbolica dei vari oggetti mostrati: dal cappio alle uniformi, dal coltello all'onnipresente bandiera giapponese. Quest'ultima, grazie all'assenza del colore, si trasforma da immagine radiosa del sole nascente in una sorta di cerchio luttuoso che Ōshima associa spesso a effetti di quadro nel quadro, accentuando quella dimensione di claustrofobia ed oppressione che regna sovrana in tutto il film.
Interpreti e personaggi: Satō Kei (direttore della prigione), Watanabe Fumio (ufficiale istruttore), Yun Yun-do (R., il condannato), Toura Matsuhuro (ufficiale medico), Komatsu Hōsei (pubblico ministero), Matsuda Masao (segretario del pubblico ministero), Aoyama Akiko (ragazza coreana), Ishidū Toshirō (prete cattolico), Adachi Masao (capo delle guardie), Satō Shizui, Ueno Takashi (guardie), Ōshima Nagisa (voce del narratore).
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