Douglas, Kirk
Nome d'arte di Issur Danielovitch Demsky, attore cinematografico statunitense, di origine russa, nato ad Amsterdam (New York) il 9 dicembre 1916. Caratterizzato da una personalità tormentata, dominata da una forte ambizione animata da un incessante desiderio di autoaffermazione, D., divo dal temperamento difficile e spregiudicato, temprato da saldi principi democratici, all'inizio degli anni Cinquanta divenne ‒ senza mai aggiudicarsi un Oscar tranne quello alla carriera (1996) ‒ uno dei nomi più prestigiosi e contesi dalle majors, con le quali ebbe sempre un rapporto contrastato. In virtù anche del suo fisico asciutto e atletico, della mascella piatta, dello sguardo duro e beffardo e dell'inconfondibile fossetta sul mento, ebbe l'opportunità di ricoprire ruoli assai diversi in film appartenenti a vari generi, che scelse con estrema cura, riuscendo a costruire una filmografia ricca di titoli di rilievo, senza mai rinunciare alla possibilità di discutere, alla pari, scelte di regia e aspetti recitativi con grandi autori, quali Billy Wilder e Stanley Kubrick.
I suoi genitori, emigrati ebrei, erano giunti negli Stati Uniti nel tentativo di sfuggire alle persecuzioni zariste e alla povertà onde coronare un improbabile sogno americano, che divenne il principale e sofferto imperativo esistenziale e professionale dell'attore. Sin da giovanissimo, unico figlio maschio tra sei sorelle, si cimentò nelle più svariate attività, maturando il desiderio ossessivo di affrancarsi dall'umile condizione originaria, di cui aveva sofferto suo padre Hershell, riuscito appena a sopravvivere come 'venditore di stracci' (come ricorda D. nella prima autobiografia: The ragman's son, 1988; trad. it. 1989). Fu sua madre Bryna (dal nome della quale deriva quello della futura compagnia di pro- duzione dell'attore) a spingerlo a studiare, a laurearsi e a dedicarsi a una professione adeguata alle sue aspirazioni. Dopo aver frequentato la Wilbur Lynch High School, dove l'insegnante di inglese lo incoraggiò a recitare, si iscrisse alla St. Lawrence University di Canton (New York). Nel 1939 si stabilì a New York nel Greenwich Village per seguire i corsi dell'American Academy of Dramatic Arts, dove conobbe Betty Joan Perske, la futura Lauren Bacall, che lo segnalò in seguito al produttore Hal B. Wallis. Esordì quindi in The strange love of Martha Ivers (1946; Lo strano amore di Marta Ivers) di Lewis Milestone. Nel frattempo l'attore, che aveva assunto il nome d'arte di Kirk Douglas, ispirandosi a Douglas Fairbanks, lavorò alla radio e, senza particolare successo, in teatro (che avrebbe lasciato definitivamente nel 1951), e si arruolò durante la Seconda guerra mondiale in marina, ma venne ferito nel Pacifico meridionale e congedato per malattia nel 1944. Nei suoi primi film D., in veste di comprimario di rilievo, delineò suo malgrado un personaggio fondamentalmente fragile in Out of the past (1947; Le catene della colpa, noto anche come La banda degli implacabili) di Jacques Tourneur, ma anche colto e idealista in A letter to three wives (1948; Lettera a tre mogli) di Joseph L. Mankiewicz, regista con il quale sarebbe tornato a lavorare vent'anni dopo nel cinico western There was a crooked man (1970; Uomini e cobra). Al suo primo ruolo da maturo e consapevole protagonista, in Champion (1949; Il grande campione) di Mark Robson, D. guadagnò la prima e meritata nomination all'Oscar come miglior attore. Con vivace piglio autoreferenziale, sin dalla prima sequenza D. fece brillare nei suoi occhi una luce sinistra per sintetizzare l'ambivalenza del pugile in carriera, tipico personaggio sgradevole e discutibile, prototipo di quasi tutte le interpretazioni successive dell'attore. Con Wilder diede vita al personaggio più immorale e demistificante della sua intera galleria, il giornalista di The big carnival (1951; L'asso nella manica), mentre con Kubrick diede spessore non retorico a due generosi eroi di stampo progressista, l'antimilitarista, ma non per questo pacifista, colonnello Dax di Paths of glory (1957; Orizzonti di gloria) e lo schiavo Spartacus (1960) votato alla battaglia per la libertà e al conseguente martirio (di quest'ultimo film D. fu anche produttore esecutivo). Con Minnelli portò alla luce i risvolti ignobili o dolorosi della creazione artistica, fatta di solitaria misantropia e di genialità distruttiva e autodistruttiva: in particolare l'emblematico Jonathan Shields di The bad and the beautiful (1952; Il bruto e la bella), che gli valse la seconda nomination e in cui fu uno spregevole e arrogante produttore cinematografico, uomo di spettacolo e di talento, lungimirante eppure inviso a tutti. Shields, oltre a rispecchiare certi tratti della personalità dell'attore, rappresenta la logica crudele, degenerata ma alfine positiva dell'universo hollywoodiano; logica che Minnelli condivideva e avrebbe ribadito in Two weeks in another town (1962; Due settimane in un'altra città), rincarando la dose di patologica ferocia, affidando a D. il ruolo di un attore finito, vittima disposta a ribaltare il proprio triste destino. Nel precedente Lust for life (1956; Brama di vivere), ancora una volta diretto da Minnelli, D. con eguale forza e passione sfrenata aveva saputo descrivere la dannazione e la follia dello sfortunato pittore Vincent van Gogh, ottenendo la terza nomination all'Oscar. Fondamentali restano nella carriera dell'attore altri celebri personaggi compulsivi e violenti come il poliziotto di Detective story (1951; Pietà per i giusti) di William Wyler e il barbaro protagonista di The Vikings (1958; I vichinghi) di Richard Fleischer, che l'aveva già diretto nel disneyano 20,000 leagues under the sea (1954; 20.000 leghe sotto i mari). Significative anche le interpretazioni di D. accanto a grandi protagonisti dell'immaginario hollywoodiano come Burt Lancaster, soprattutto in Gunfight at the O.K. Corral (1957; Sfida all'OK Corral) di John Sturges, regista anche di Last train from gun hill (1959; Il giorno della vendetta); o John Wayne in In harm's way (1965; Prima vittoria) di Otto Preminger e The war wagon (1967; Carovana di fuoco) di Burt Kennedy. D. prese parte a western prestigiosi diretti da Raoul Walsh (Along the great divide, 1951, Sabbie rosse), Howard Hawks (The big sky, 1952, Il grande cielo), KingVidor (Man without a star, 1955, L'uomo senza paura), e da Robert Aldrich (The last sunset, 1961, L'occhio caldo del cielo). Ma seppe anche dare il meglio di sé nel mitologico Ulisse (1954) di Mario Camerini, nell'inedito ruolo del cowboy anacronista in Lonely are the brave (1962; Solo sotto le stelle) di David Miller, nei vari personaggi del giallo-rosa The list of Adrian Messenger (1963; I cinque volti dell'assassino) di John Huston, nel fantapolitico apologo progressista Seven days in May (1964; Sette giorni a maggio) di John Frankenheimer, nel bellico The heroes of Telemark (1965; Gli eroi di Telemark) di Anthony Mann, nell'apologo sulla mafia italoamericana The brotherhood (1968; La fratellanza) di Martin Ritt, nel melodrammatico The arrangement (1969; Il compromesso) di Elia Kazan, nell'orrorifico The fury (1978; Fury) e nel comico-demenziale Home movies (1979; Home movies ‒ Vizietti familiari), entrambi di Brian De Palma, nei fantascientifici Saturn 3 (1980) di Stanley Donen e The final countdown (1980; Countdown dimensione zero) di Don Taylor. Come regista, D. si è poi diretto con discreto senso del mestiere in Scalawag (1973; Un magnifico ceffo da galera) e Posse (1975; I giustizieri del West).
T. Thomas, The films of Kirk Douglas, Secaucus (NJ) 1972; J. McBride, Kirk Douglas, New York 1976 (trad. it. Milano 1985).