Kassel: la rivoluzione può attendere
Nel difficile compito di rappresentare l’arte contemporanea, dOCUMENTA tenta sempre strade nuove. L’ultima edizione promette un radicale cambio di prospettiva nella lettura dell’opera d’arte. Ma poi ripropone artisti consolidati come William Kentridge o Jimmie Durham.
Documenta ha conquistato nei decenni, tra le grandi esposizioni internazionali d’arte contemporanea, una fisionomia specifica, attraverso un’attitudine che dall’iniziale impostazione didattica – pensata a risarcimento di quanto la bandita ‘arte degenerata’ era andata facendo sino alla fine del secondo conflitto mondiale – si è fatta vieppiù pensosa e teorica, sino ad approdare con la direzione di Harald Szeemann, nel 1972, a una spiccata configurazione di grande ‘mostra a tesi’.
Con Documenta 5 si sancì l’inizio della contesa tra una nuova preminenza della lettura d’insieme e dell’impostazione curatoriale, a scapito talvolta della specificità dei lavori, e il tradizionale primato dell’opera che non si piega a griglie interpretative generali, ma pretende dalla critica un corpo a corpo stringente e frontale. L’edizione di Documenta 2012, che si richiede venga scritta dOCUMENTA (13), a cura di Carolyn Christov-Bakargiev, si è proposta di scardinare la tradizione teorica, rivendicando per la mostra l’assenza di una tesi a priori, a favore di una conoscenza intuitiva e non strutturata che sappia partire dalla materialità del dato artistico. È stata dichiarata la volontà di perseguire una visione non logocentrica il cui manifesto è presentato nel corpo centrale del Fridericianum, per l’occasione ribattezzato ‘cervello’: «La rotonda del Fridericianum», dice la Bakargiev, «è uno spazio associativo di ricerca dove un gruppo di opere, oggetti e documenti è esposto insieme in luogo di un’idea».
Per sottolineare la concentrazione mentale di tale nucleo ispirativo, tutto è esposto accostando il più possibile tra loro teche e vetrine e riducendo al minimo gli spazi di deambulazione dei visitatori. Per contrasto, l’intero pian terreno che precede la rotonda è lasciato vuoto, mentre nelle vetrine, mostrate senza discrimine, si affollano statuette uzbeke del 2o millennio a.C., fotografie di Lee Miller della casa di Hitler apparse su Vogue, multipli di Man Ray, alcuni degli oggetti che Giorgio Morandi dipingeva nel suo studio e molte altre curiosità miste a opere, lettere e pubblicazioni.
Nel voler sostituire la centralità dell’idea ripartendo dalla realtà fisica e materiale degli oggetti esposti, si crea paradossalmente il massimo di ‘curatorialità’ soggettiva, dove il significato delle opere sprofonda nell’allestimento generale che diviene, anche visivamente, una grande istallazione, più artistica che interpretativa, apparentemente simile agli accostamenti degli antichi gabinetti di curiosità ma, di fatto, orfana del ricco sapere filosofico e dell’eloquente simbolismo a cui quelli s’ispiravano. Nel catalogo si dichiara di non aver guardato all’arte ma di aver guardato attraverso l’arte. Eppure le schede, per la maggior parte dovute a Eva Scharrer, parlano delle opere come ormai da molto tempo si è abituati a fare. Si inizia con il riassunto introduttivo della ricerca dell’artista nel suo complesso e lo si accompagna con elementi genericamente descrittivi del lavoro in mostra: una ricapitolazione per il visitatore più che un approfondimento. I testi introduttivi del direttore Bakargiev e del capo curatore Chus Martinez, forse più ancora di quelli dei loro predecessori, non parlano di opere, lavori o ricerche artistiche ma cercano di definire la loro attitudine curatoriale come ricerca artistica essa stessa, tanto che vengono esposte in mostra numerose lettere intercorse tra la Bakargiev e gli artisti, e pubblicato un suo appunto come fosse un prezioso schizzo.
Per essere un esercizio non logocentrico, appare rilevante la quantità di parole spese per definire dOCUMENTA (13), di volta in volta una danza, una dimensione mentale, un’espressione non antropocentrica, un pensiero-prologo che non sceglie ma si interroga sulla possibilità della scelta ed elabora alcune nuove parole d’ordine: avere intuizioni e non fare ipotesi, essere scettici ma ottimisti, coltivare il valore del forse, essere frenetici e asistematici, imparare a pensare come gli animali e gli esseri inanimati del cosmo.
Un dato interessante più che sorprendente è che questo annuncio di un avvenuto cambio di prospettiva, quasi si fosse giunti, nuovamente, al crollo totale dell’epistemologia moderna con annessi post-moderni, ha prodotto nei fatti una mostra più del solito votata allo status quo dell’arte contemporanea.
Non mancano opere qualitativamente rilevanti, ma la quasi interezza rappresenta valori assodati:
William Kentridge, Tino Sehgal, Omer Fast, Mark Dion, Susan Philipsz, Jimmie Durham, Javier Téllez. Verrebbe fatto di pensare che non fosse necessario approntare un cambio di paradigma, vero o fittizio, per presentare espressioni la cui bellezza la critica quanto il mercato hanno riconosciuto da anni, ma se questa dOCUMENTA (13) voleva essere un prologo, il nocciolo della questione forse verrà facendosi più avanti e non resta che attendere con dubitoso ottimismo.
Le quotazioni dell’arte contemporanea
Mentre progredisce il mercato di artisti contemporanei emergenti o dalle piccole e medie quotazioni – il 62% delle aggiudicazioni avvenute nel 2011 ha riguardato valori inferiori ai 5000 dollari – la fascia più alta continua a cristallizzarsi attorno a pochi nomi e a scelte convenzionali, sulla scia del riflusso seguito alla crisi finanziaria del 2008. Nel 2011 i primi tre artisti per giro d’affari complessivo sono stati Andy Warhol (325 milioni di dollari), Gerhard Richter (172 milioni di dollari) e Francis Bacon (129 milioni di dollari), e la tendenza è confermata anche per il 2012.
Nei primi sette mesi dell’anno, infatti, delle prime dieci aggiudicazioni milionarie ben sei riguardavano opere di Jean-Michel Basquiat. Seguono, sempre nel solco di questo ritorno alla pittura o a un certo gusto espressionista lontano dagli intellettualismi del minimalismo o del neoconcettualismo, opere di Glenn Brown, Christopher Wool e dei cinesi Xiaogang Zhang e Fei-yun Yang, rispettivamente al quinto, al sesto, all’ottavo e al decimo posto nella top ten delle migliori aggiudicazioni di pezzi singoli. Quanto ai primi dieci posti per fatturato complessivo, anche qui, a eccezione di Damien Hirst e Cindy Sherman al quarto e al quinto posto, la lista degli artisti favorisce orientamenti convenzionali, confermati dalla presenza stabile di contemporanei cinesi che prediligono la figurazione nell’eredità del realismo socialista. Al primo posto si conferma, perciò, Basquiat con un fatturato complessivo di oltre 61 milioni di dollari. Secondo, Wool con oltre 17 milioni; terzo, il cinese Fanzhi Zeng, con oltre 14 milioni. Seguono Hirst e Sherman con 12 e nove milioni; sesto, Xiaogang Zhang, a circa otto milioni e mezzo; settimo e ottavo, Anselm Kiefer e Lijun Fang con poco più di sette milioni ciascuno; nono e decimo Andreas Gursky e Brown, entrambi attorno a sei milioni di fatturato.
Simone Verde
Una storia documenta(ta)
La storia di Documenta inizia nel 1955 come sezione della Bundesgartenschau, la mostra di giardinaggio della Repubblica federale tedesca. Per questo la sede fu, e rimase, Kassel, importante cittadina dell’Assia. A dare vita a quella che si sarebbe imposta come una delle rassegne di arte contemporanea più importanti al mondo fu il pittore e curatore d’arte Arnold Bode, direttore artistico delle prime quattro edizioni della manifestazione, che ha cadenza quadriennale o quinquennale. La prima di esse fu, contrariamente alle aspettative, un successo insperato, coinvolgendo maestri del calibro di Pablo Picasso e Vasilij Kandinskij. Ma l’esposizione vide la presenza delle opere di tanti altri mostri sacri, molti dei quali italiani, come Giacomo Balla, Afro Basaldella, Umberto Boccioni e Felice Casorati, e di area germanica, come Max Beckmann, Ernst Barlach; e poi Marc Chagall, Georges Braque e molti altri. Nel 1959 Bode decise di dare continuità al progetto, richiamando altri grandissimi nomi dell’arte mondiale, da Francis Bacon a René Magritte. Proprio in quell’anno prese avvio il fenomeno delle opere che da temporanee divennero permanenti, inserendosi, così, stabilmente nel paesaggio della città di Kassel. Nel 1972 la direzione artistica passò a Harald Szeemann; nel 1977 a Manfred Schneckenburger che la curò anche nel 1987. L’edizione numero 7 fu sotto gli auspici di Rudi Fuchs, e nel 1992 fu la volta della direzione artistica di Jan Hoet.
Dal 1997 in poi si successero Catherine David, Okwui Enwezor, Roger M. Buergel e infine, per l’edizione 2012, Carolyn Christov-Bakargiev.