KARMAN
. Vocabolo significante in sanscrito "azione" e, nel Rgveda, "cerimonia sacrificale", l'azione per eccellenza; esso passò poi a significare l'effetto del karman, il merito religioso che ogni sacrificio produce e che, presto o tardi, matura in ricompensa oltretomba. Nella Bṛhadāraṇyakopaniṣat, III, 2, 13; IV, 4, 5, il karman è distinto in buono (puṇya) e cattivo (pāpa), e riconosciuto causa della nuova forma d'esistenza che ognuno, dopo morte, assume in premio o pena della sua condotta. Secondo questa dottrina, l'azione umana, oltre all'effetto naturale, ne ha uno soprannaturale nel karman, forza trascendente, che tiene la psiche prigioniera del saṃsāra fino alla liberazione. Quando sottentra la concezione di un sostrato della personalità, che è l'anima individuale, il karman si concepisce come un'affezione dell'anima, alla quale il merito e il demerito si attaccano (in vario modo secondo i varî sistemi) perché essa goda o soffra il premio o la pena. I jaina e i buddhisti, professando l'ateismo, credono che il karman compia automaticamente la retribuzione dell'opera, mentre i naiyāyika, in base all'obiezione che il karman è inanimato e quindi incapace di esser guida a sé medesimo, gli dànno come supremo moderatore Dio.
Bibl.: E. W. Hopkins, Modifications of the karma doctrine, in Journal of the R. Asiatic Society, 1906, pp. 581-93; 1907, pp. 665-72; L. Suali, Introd. allo studio della filos. indiana, Pavia 1913, p. 184; Encyclop. of Religion a. Ethics, VII (1914), p. 673 segg.; H. Jacobi, Die Entwicklung der Gottesidee bei den Indern, Bonn e Lipsia 1923, pp. 9, 17 segg., 52 segg., 72 segg.; L. de la Vallée Poussin, La morale bouddhique, Parigi 1927, capitoli IV-VII.