Vedi KANGAVAR dell'anno: 1961 - 1995
KANGĀVAR (v. vol. IV, p. 312)
Caratterizzata dai resti imponenti del c.d. Tempio di Anāhitā e nota agli storiografi arabo-persiani anche con il nome di Qaşr al-Lusūs, «il Castello dei Banditi», la località è ricordata da Isidoro di Charax (Stationes Parthicae, VI) come Concobar. La testimonianza di Isidoro, che vi ricorda un tempio di Artemide, ha dato inspiegabilmente nascita a quella che per decenni è stata accettata come l'interpretazione più comune delle notevoli rovine, conosciute in Occidente a partire dalla prima metà dell'Ottocento: cioè che esse rappresentino un tempio di Anāhitā derivato da modelli ellenistici. La ricostruzione proposta da E. Flandin e P. Coste nel secolo scorso prospetta un tempio che ricorda da vicino i templi ellenistici di Palmira, costituito da un'imponente piattaforma approssimativamente quadrata (230 x 200 m) con tre file di colonne sui quattro lati, che ospita al centro un santuario rettangolare períptero con pronao distilo in antis. La datazione tradizionale oscilla tra l'età seleucide (Texier, Herzfeld, Ghirshman, Godard, Schlumberger) e quella partica (Dieulafoy, Reuther, Colledge). I risultati di una serie di scavi iniziati nel 1968 dal Centro Iraniano per le Ricerche Archeologiche, diretti fino al 1975 da S. Kambakhsh Fard, quindi nel 1977 e 1978 da M. Azarnoush, hanno dimostrato al contrario che le rovine rappresentano un edificio tardo-sasanide, possibilmente un palazzo costruito da Cosroe II.
A ridosso di una bassa collina al centro della cittadina è costruita un'imponente piattaforma quadrilatera (224 x 209 m); il nucleo è costituito da corsi sovrapposti di grossi blocchi non lavorati allettati con malta di gesso, e la facciata esterna è rivestita con blocchi squadrati di calcare addossati al nucleo senza legante. I quattro lati della piattaforma, per la conformazione del terreno, mostrano consistenti differenze di quota. Sul lato S, una scalinata costituita da due rampe parallele al muro e convergenti al centro permette l'accesso al piano della terrazza, sul cui bordo esterno è una fila di colonne, rinvenute crollate sul piano. Le colonne, piuttosto tozze, con un'altezza complessiva ricostruibile di 3,45 m, hanno fusto liscio, base di tipo attico e capitello che pur nella vicinanza a tipi dorici non appartiene a nessuno degli ordini classici. Nel crollo si conservano blocchi con modanatura appartenenti alla cornice della piattaforma. Per quanto riguarda la copertura sorretta dalle colonne, oggi scomparsa, un unico blocco curvilineo conservatosi nel crollo, elemento di un arco, permette di ipotizzare una serie di arcate contigue.
Al centro della terrazza l'esplorazione archeologica si è limitata all'individuazione di una piattaforma lunga 93 m e larga 9,30 m nella metà S, e di due altre piattaforme minori nella metà N, costruite in una tecnica a ciottoli e malta, di incerta interpretazione ma certamente ben diverse dalla tradizionale ipotesi ricostruttiva.
L'evidenza archeologica più antica è costituita da una piccola necropoli partica databile dall'inizio del II sec. a.C. fino al III d.C., portata alla luce al di sotto del muro O della piattaforma. Sulla sommità della terrazza la sequenza stratigrafica inizia con livelli partico-sasanidi (purtroppo non meglio distinti dagli archeologi) al di sopra del terreno naturale. Seguono scarse tracce di occupazione dal IX all'XI sec., un esteso insediamento selgiuchide del XII-XIII sec. e consistenti testimonianze dei periodi safavide e qajar, fino al XIX sec., con uno iato che interessa i secoli dal XIII al XVI.
Per quanto riguarda la datazione delle strutture della terrazza, il rinvenimento di brevi iscrizioni tardo-sasanidi e di simboli ben documentati nella glittica e nella numismatica di quei secoli, incisi sul retro dei blocchi della piattaforma, ha spinto il primo archeologo che ha condotto i lavori nel sito, S. Kambakhsh Fard, a parlare di una parziale ricostruzione in età tardo-sasanide di un tempio più antico. Le stesse iscrizioni, diffuse in modo considerevole su buona parte dei blocchi della piattaforma, rappresentano per il russo V. G. Lukonin una prova certa del fatto che tutto l'edificio, così come ci si presenta, sia di età tardo-sasanide: si tratterebbe della ricostruzione dell'epoca di Cosroe II del tempio di Anāhitā, fondato già nel I sec. d.C., e radicalmente modificato per sopravvenuti mutamenti nel culto di Anāhitā di cui danno chiari accenni i testi zoroastriani.
Più recentemente M. Azarnoush, l'archeologo responsabile delle due ultime campagne di scavo prima dell'abbandono dei lavori, sulla base dei confronti architettonici con altri monumenti sasanidi meglio noti, ha ribadito la datazione del complesso al VI-VII sec. d.C., fornendone nello stesso tempo un'interpretazione nuova e senz'altro più fondata delle precedenti. Mentre infatti non esistono reali evidenze archeologiche che permettano di identifica-re le strutture della terrazza con il tempio di Artemide ricordato da Isidoro, né tantomeno di riportare il tempio al culto di Anāhitā, numerosi sono gli aspetti costruttivi e tipologici del complesso che trovano confronto nella architettura palaziale tardo-sasanide (Damghan, Qasr-e Širin, Emārat-e Khosrow, Tāq-e Girre). In questa prospettiva acquista un nuovo valore l'altra tradizione letteraria, quella arabo-persiana, finora mai presa in considerazione, secondo cui il Qaşr al-Lusūs sarebbe stato un originale palazzo costruito come luogo di svago per Cosroe II.
Bibl.: C. F. M. Texier, Description de l'Arménie, la Perse et la Mésopotamie, II, Parigi 1842, p. 88; R. Ghirshman, Iran. Parthes et Sassanides, Parigi 1962, p. 24 (trad. it. Iran. Parti e Sasanidi, Milano 1962); A. Godard, L'art de l'Iran, Parigi 1962, p. 165; V. F. Minorskii, Safar-name-ye Abu Dulaf dar Iran dar sal-e 341 hejri, ba ta'liqat va tahqiqat-e Vladimir Minorskii («Il libro di viaggio di Abu Dulaf in Iran nell'anno 341 dell'egira, con commento e note di V. Minorskii»), Teheran 1963, p. 65; C. Trever, À propos des temples de la déesse Anahita en Iran Sassanide, in IrAnt, VII, 1967, p. 125; D. Schlumberger, L'orient hellénisé, Parigi 1970, p. 30; Κ. Schippmann, Die iranischen Feuerheiligtümer, Berlino- New York 1971, pp. 298-308; S. KambakhšFard, Kāvešhā-ye 'elmi dar Kangāvar, ma 'bad-e Anāhitā («Scavi scientifici a Kangāvar, tempio di Anāhitā»), in Bastanienasi va Honar-e Iran, VI, 1971, pp. 10-29; id•, Kāvešhā-ye 'elmi dar Kangāvar («Scavi scientifici a Kangāvar»), ibid., IX-X, 1972-1973, pp. 2-12; id., Kangāvar, in Iran, XI, 1973, pp. 196-197; id., Kāvešhā-ye 'elmi dar ma'bad-e Anāhitā, Kangāvar («Scavi scientifici nel tempio di Anāhitā, Kangāvar»), in F. Bagherzadeh (ed.), Proceedings of the lind Annual Symposium on Archaeological Research in Iran, Teheran 1974, pp. 10-20, sez. persiana; id., Kavešva ta'mirāt-e ma'bad-e Nāhid («Scavi e restauri del tempio di Anāhitā»), in F. Bagherzadeh (ed.), Proceedings of the IlIrd Annual Symposium on Archaeological Research in Iran, Teheran 1975, pp. 73-90, sez. persiana; M. A. R. Colledge, Parthian Art, Londra 1977, p. 42; G. Herrmann, The Iranian Revival, Oxford 1977, pp. 107, 131; V. G. Lukonin, Khram Anakhity νKangavare («Il tempio di Anāhitā a Kangāvar»), in VesDrevIstor, 1977, 2, pp. 105-111; M. Azarnoush, Excavations at Kangavar, in AMI, XIV, 1981, pp. 69-94.
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