Vedi KANDAHAR dell'anno: 1961 - 1995
KANDAHAR (v. vol. IV, p. 310)
Kandahar è la forma pashtō del persiano Qandahār. L'odierna popolazione è in effetti in maggioranza costituita da Pashtun. K. si trova al centro di un'oasi che deve la sua ricchezza ai prodotti agricoli (frutta) e alla posizione geografica, all'incrocio tra le vie che conducono verso il Belucistan (e di lì all'India), verso il Sistan (e di lì all'Iran meridionale), verso Ghazni e Kabul (e di lì al Panjab). Si comprende pertanto l'antico popolamento dell'oasi (v. Afghanistan), anche se è difficile, per la mancanza di iscrizioni, collegare i toponimi conosciuti dai testi alle rovine ancora visibili.
La costruzione di un insediamento fortificato contro il fianco orientale del colle di Qaitul, nel sito della c.d. Vecchia K. (Šahr-e Kohna), risale probabilmente al 750 a.C. circa. Ci sono buoni motivi per ritenere che questa fosse la capitale della regione a partire dal periodo achemenide e fino alla sua distruzione a opera di Nāder Šāh nel 1738. Questo insediamento fu pertanto occupato per due millenni e mezzo, ma le sue rovine sono servite e servono come cava per i contadini da due secoli e mezzo: la distruzione è stata pressoché totale e sono ancora ben visibili solo le tracce delle antiche fortificazioni e della cittadella. C'è da temere che le piante delle successive città e dei loro monumenti siano perdute per sempre.
E probabile che la Vecchia K. sia stata la sede della satrapía achemenide di Arachosia (Harahuvati), ma si discute sulla sua identificazione a causa di tre toponimi noti dalle fonti antico-persiane: Kandara (forse il Gandhāra?), Aršāda o Kāpišakāniš. È probabile che Alessandro nel 330/329 abbia conquistato la città, che venne allora rifondata con il nome di 'Αλεξάνδρεια ο Άλεξανδρόπολις. Nel 303 essa fu ceduta da Seleuco a Candragupta Maurya insieme alla maggior parte dei territori afghani situati a S dell'Hindukush. Ma l'ellenizzazione del paese era stata profonda; intorno al 240 a.C. ancora esisteva a K. una popolazione greca sufficientemente cospicua e sufficientemente fiera della sua grecità perché il governatore di Aśoka giudicasse necessario fare tradurre in greco gli editti del sovrano e di farne comporre un riassunto greco rivolto agli abitanti della regione. La stessa misura venne presa per la burocrazia achemenide di lingua aramaica, probabilmente mantenuta al suo posto: alcuni editti furono riassunti o tradotti in aramaico, affinché i burocrati potessero tradurre oralmente il contenuto al resto della popolazione, che era probabilmente di lingua e cultura iranica. La dedica in versi greci di una statua, trovata nel corso degli scavi britannici nella città, potrebbe risalire all'epoca di Candragupta.
La spedizione di Antioco III, intorno al 206 a.C., permise ai Seleucidi di riprendere per qualche decina d'anni il controllo della città, che però presto passò agli Indo-Greci (Apollodoto I, Menandro, Eucratide), poi, sembra, ai Parti: il museo di K. possiede monete di Mitridate II (123-88 a.C.), Fraate IV (38-2 a.C.) e Gotarze (c.a 38-51 d.C.), ma anche di Azes II, di Gondofare e di Pacore, attestati nel Panjab nel primo quarto del I sec. d.C. La città fu quindi occupata in tempi successivi dai Sasanidi, dagli Unni, dagli Omayyadi (sotto i quali si chiamava al-Qunduhār, ribattezzata poi Abbādīya), dai Ghaznavidi, ecc.
L'odierna strada da K. a Herat costeggia l'estremità Ν del Qaitul. Qui si trova la grotta dei Čehel Zina, i «quaranta gradini», una camera con cupola scavata nella roccia per ordine dell'imperatore moghul Bābur, ove si trova un'iscrizione in persiano che commemora la sua presa di K. avvenuta il primo settembre 1522. A breve distanza, inciso sul fianco E del monte, fu scoperto nel 1958 un riassunto bilingue (greco e aramaico) degli editti su roccia di Ašoka: si può pertanto supporre che di lì passasse una delle antiche (età maurya) vie di accesso alla città, i cui bastioni, preceduti da un fossato molto largo, si trovano 1 km più a S. Le fortificazioni, poste nella piana, subito ai piedi del Qaitul, racchiudono una superficie di 550 m (E-O) x 1100 m (N-S). Al centro, contro il Qaitul, è una vastissima cittadella costruita su una collina artificiale, che ancora oggi sovrasta di 35 m le rovine della città. A S della cittadella è uno ziyārat (tomba di un santo musulmano) dove era stato posto (?) un frammento di una versione greca degli editti rupestri di Ašoka. La cresta del Qaitul conserva le tracce di fortificazioni, probabilmente ghaznavidi; la ridotta SO di queste fortificazioni è costituita dalle rovine di un antico complesso buddhistico (stūpa e monastero), trasformato in fortezza, e da alcune cisterne islamiche. A Ν e a S della cinta muraria nella piana si estendono vaste aree di rovine oggi rioccupate (cimiteri musulmani, case, campi).
Gli scavi britannici, ancora non del tutto pubblicati, permettono di ricostruire nel modo seguente la storia delle fortificazioni. I primi bastioni (periodo I) furono costruiti su un terreno che mostra tracce di occupazione precedente. Consistevano di un muro di terra (gel), largo 14,6 m, protetto da un fossato, che correva lungo l'attuale muro orientale. La ceramica che esso contiene ne suggerisce una datazione di poco anteriore al periodo achemenide (periodo II). Questo fu caratterizzato da modifiche sostanziali quali lo spianamento del muro di terra e la co-struzione al suo posto di un muro cavo, formato da casematte (larghezza totale superiore a 25 m) in terra battuta (pakhsā); le casematte furono quasi subito colmate. Nello stesso tempo, attorno a un nucleo di roccia venne costruita la cittadella artificiale di 200 x 200 m. La città achemenide occupava così la quasi totalità della superficie della piana oggi racchiusa dalle rovine dei bastioni, compresa la cittadella. Non c'è ragione di ritenere che sia stata occupata anche la sommità del Qaitul. Il periodo III vide un rifacimento completo dei bastioni, che divennero un muro a casematte preceduto da uno spalto largo 10 m e alto almeno 8 m. Il muro era costruito in mattoni crudi di 70 x 40 x 10 cm, e risalirebbe al periodo seleucide o maurya. Nel II sec. d.C. (?) lo stesso muro fu demolito e sostituito da un muro pieno, in mattoni crudi di 43 x 43 x 12 cm o 45 x 45 x 12 cm. Nel periodo islamico quest'ultimo muro fu rinforzato da costruzioni in pakhsā e allo stesso tempo (XI sec.?) fu costruito un grande muro di divisione E-O, che a torto Fussman aveva considerato (ma prima degli scavi) come un resto di bastioni preislamici.
A giudicare dalle rovine oggi visibili e dai rapporti di scavo fin qui pubblicati, il complesso buddhistico che sovrasta la città a SO, costruito nel IV sec. d.C. (o forse prima), oggetto di manutenzione nel VII sec., avrebbe continuato a funzionare ancora al tempo degli Omayyadi. È costituito da uno stūpa in muratura a lastre di forma irregolare, e da un monastero di 25 x 22 m, costruito con grandi mattoni crudi (42 x 42 x 9 cm) su un basamento in pietra; l'alzato era composto da un grande ambiente a cupola su trombe, circondato da un corridoio.
Il museo di K. possiede una collezione di monete, di ceramiche, due sarcofagi di epoca partica e bronzi islamici. Nel museo di Kabul (v.) si trovano una grande vasca di pietra, che anticamente si riteneva rappresentasse la ciotola per elemosine del Buddha, poi riutilizzata come bacino nella moschea di K.; vi si trovano altresì il blocco di pietra che porta la versione greca dell'editto XII di Aśoka e le monete rinvenute nel corso degli scavi britannici. Vasi in pietra provenienti dall'Arachosia erano contenuti nella Tesoreria di Persepoli.
Bibl.: G. Fussman, Notes sur la topografie de l'ancien Kandahar, in Arts Asiatiques, XIII, 1966, pp. 33-57; K. Fischer, Zur Lage von Kandahar..., in BJb, CLXVII, 1967, pp. 129-232; P. Bernard, Les mortiers et pilons inscrits de Persépolis, in Studia Iranica, I, 1972, pp. 165-176; id., Les noms anciens de Qandahar, ibid., III, 1974, pp. 171-185.
Scavi britannici di K. (Whitehouse, McNicoll, Helms) e monete del museo di K. (MacDowall e Ibrahim), in Afghan Studies, I, 1978; II, 1979; III-IV, 1982.
Iscrizioni di Aśoka: bibl. in G. Fussman, Quelques problèmes aśokéens, in Journal Asiatique, 1974, pp. 369-386; B. N. Mukherjee, Studies in the Aramaic Edicts of Asoka, Calcutta 1984.
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