KALYDON (Καλυδών, Calỳdon)
Antichissima città etolica, già di omerica menzione, situata all'ingresso del Golfo di Corinto, identificata dal Leake (North. Gr., iii, 543 ss.) nella odierna località di Kastro Kortagà, sulla linea ferroviaria Kryoneri-Missolungi ed esplorata negli scavi greco-danesi da Poulsen, Rhomaios, Dyggve e altri.
Le rovine della città, ove gli antichi localizzarono alcuni fra i culti ed i miti più diffusi nelle arti figurative (ad esempio il ciclo di Meleagro e della caccia al cinghiale calidonio), sorgono su un colle a duplice vetta e nella valle sottostante. La città vera e propria era circondata da mura che avevano un perimetro di quasi 4 km ed erano formate da blocchi di arenaria per lo più quadrati con un riempimento di pietrisco; la cima del colle orientale, recinta da un muro particolarmente guarnito di torri, costituiva l'acropoli. Le mura che presentano una grande porta sul lato N-O, con pròpylon fiancheggiato da due torri, e cinque porte minori vengono a tracciare la figura di un rozzo quadrilatero con alternanza di torri quadrate ed angoli salienti; il variare della struttura, più o meno regolare, indica differenti periodi costruttivi. Presso il muro S-O sono i resti di un condotto d'acqua che scende dal colle. Dalla porta principale della città si parte la via Sacra che per una lunghezza di 400 m attraversa il territorio del Làphrion, il sacro recintò, dedicato ai culti di Artemide cacciatrice e kourotròphos e di Apollo, che ha dato una delle più vaste e significative messi di terrecotte templari corinzie. Il tèmenos, che albergava un insieme di edifici dall'età arcaicà (geometrica) all'ellenismo e rinchiude, entro un muro di perìbolos, un colle allungato, si può considerare ripartito in tre zone.
La prima, a cominciare dall'estremità occidentale del colle, è sorretta da una serie di terrazze di epoche diverse, alcune con la funzione di servire da fondamenta agli edifici, altre con quella di ampliare il territorio del tèmenos. L'accesso è segnato da una larga scala costruita in età tarda, di cui restano ancora sei gradini, e che formava un ingresso monumentale simile a quello dell'acropoli di Lindo. Il materiale costruttivo è un'arenaria locale e il pòros, di quattro tipi differenti, a seconda del periodo, usato come materiale pregiato, essendo di importazione. Il complesso degli edifici innalzati in questa zona costituisce il centro vitale del santuario; il tempio A, di dedica incerta (Apollo o Dioniso?), conservato solo per pochi blocchi di fondazione, è il più antico del Làphrion e sorge sulla punta più esterna del colle. Da esso provengono una sìma leonina, alcune metope in terracotta e due acroterî, l'uno - centrale - con Gorgone corrente, e l'altro con sfinge pure in terracotta, e databile fra il 600 e il 570 a. C. Accanto è il tempio B dedicato ad Artemide, costruito su una vasta terrazza che presenta una facciata decorata con zoccolo, parete liscia e coronamento. I resti attuali appartengono al grande tempio costruito secondo la pianta canonica dorica e databile, in base a sensibili analogie col tempio di Tegea, al primo trentennio del IV sec. d. C. Esso aveva sei colonne sulla fronte e tredici sui lati, probabilmente un colonnato interno ionico o corinzio e, secondo un gusto di cui il tempio di Apollo a Figalia costituisce il più immediato precedente, la fronte della cella decorata con metope marmoree scolpite. Il tetto era in marmo con gocciolatoi a forma di teste di cani; nel pronao e nella cella si riscontrano le tracce di un mutamento avvenuto durante la costruzione, probabilmente per conferire all'edificio proporzioni più moderne. Ma questo tempio fu preceduto da tre più antiche redazioni, identificate in base a tracce esistenti nella cella, a blocchi inseriti nelle murature della terrazza e intorno alle sostruzioni e alla crepidine del tempio ed a materiale fittile e di rivestimento. Della prima si congettura l'esistenza da protomi femminili con funzione di antefisse, della fine del VII sec. a. C. Alla seconda, del primo quarto del VI sec., e contemporanea quindi al tempio A, appartiene un tetto giallo-chiaro con antefisse decorate con anthèmia, un piccolo acroterio con sfinge e un gruppo di metope in terracotta; l'acroterio centrale doveva essere costituito da un gorgonèion. Per la terza fase, più che di una nuova costruzione, si può parlare piuttosto di un rinnovamento della copertura e della collocazione di un colonnato nella cella, intorno al 500 a. C. Nella cella di questo tempio fu collocata nel 460 la statua crisoelefantina di Artemide, opera dei naupatti Menaichmos (v.) e Soidas (v.) (Paus., vii, 18, 10), che doveva essere una delle più antiche rappresentazioni della dea come amazzone e di cui si crede di ravvisare l'immagine su alcune monete di Patrasso (Imhoof Blumer-Gardner, Num. Gomment. on Paus., Londra 1876, p. 76 s.). Dietro la piattaforma del tempio sono i resti di una terrazza più antica, terminante a forma di abside ad O e risalente, nella sua prima redazione, ad età geometrica; qui sono stati ritrovati i frammenti di metope in terracotta dei templi più antichi. La piazza innanzi ai due templi arcaici era la naturale sede dell'altare o degli altari del santuario. In analogia col culto di Artemide Làphria a Patrasso, di cui riferisce Pausania (vii, 18, 9-12), si ritiene che quello di Artemide doveva essere costituito da una grande pira in legno, mentre davanti al tempic A si è creduto di ravvisare probabili resti di un altare di un tipo noto a Delfi nel secondo quarto del V sec. a. C. Oltre ai due templi principali, questa zona del tèmenos comprende altri edifici minori fra cui un bouleutèrion ed un pròpylon. Da questo, che presenta tre stadî costruttivi, si accede alla seconda zona, che può essere tutta considerata come una specie di vestibolo alla precedente; insieme ad altre costruzioni vi si trova una grande stoà in pòros, divisa probabilmente in una serie di stanze e completata, alle due estremità, da due grosse nicchie semicircolari e databile al III-II sec. a. C. Sul muro di fondo della stoà sono le fondamenta di un'altra più piccola aggiunta, forse un pròthyron di ingresso alla sottostante valle Kalliroe, donde salgono parecchi grossi scalini. La terza zona, che si estende verso N-E ed è chiusa dalla porta principale della città, è collegata alla seconda zona per mezzo di una rampa ed è occupata da una serie di piccoli edifici (cinque), probabilmente thesauròi, costruiti sui lato S-E della grande strada delle processioni, tra l'inizio e la metà del VI sec. a. C., il periodo in cui cominciò il predominio del santuario del Làphrion. Da questi edifici provengono coperture policrome in terracotta ed antefisse con protomi femminili. Nelle vicinanze della porta S-O, probabilmente al posto della piccola cappella di S. Giovanni, sorgeva il Dionysion.
I due lati della strada delle processioni fra la città e il Làphrion erano occupati da numerose sepolture; quella in migliore stato di conservazione è l'heròon, una vasta costruzione in una zona a S della pianura, preceduta da un peristilio quadrato intorno ad un giardino, e fornita di più ambienti e di una cripta.
La stanza maggiore, provvista di banchi, presenta pareti decorate da almeno undici tondi riproducenti in rilievo immagini di dèi ed eroi delle leggende calidonie, secondo uno stile riecheggiante i grandi modelli del IV secolo. Questi busti, vere e proprie imagines clipeatae, o più propriamente εἰκόνες ἐν ὅπλῳ, presentano completamenti in stucco ed una fattura un po' sommaria giustificata dalla loro collocazione in alto. Essi sono espressione di una corrente classicheggiante attica del I sec. a. C. A tale data è stato recentemente riportato tutto l'heròon, attribuito in un primo tempo all'epoca di Adriano. Una scala conduce alla camera funeraria nella cripta, ove sono due sarcofagi in marmo a forma di letto con materasso e cuscino, esempio del naturalismo dell'ultimo ellenismo.
Insieme alle metope di Thermos ed ai pìnakes di Penteskouphià, le terrecotte di rivestimento e le metope di K. costituiscono uno dei più importanti incunaboli della grande pittura corinzia. E la prova conclusiva della provenienza corinzia è data da una serie di lettere incise sulla superficie interna delle lastre prima della cottura.
Il materiale fittile di K. è stato suddiviso cronologicamente e tipologicamente dal Dyggve in quattro gruppi; al primo, della fine del VII sec. e quindi ancora della fase di transizione fra Protocorinzio e Corinzio, appartengono le antefisse plastiche del tempio B 1, con teste femminili dipinte a più colori e con la tipica acconciatura a parrucca di questo periodo (Etagenperrücke) e pòlos ornato di rosette. Al secondo gruppo appartiene un considerevole numero di frammenti di metope dipinte, riferibill a tre serie differenti per stile, dimensioni e cronologia: le prime due serie sono decorate con un bordo con rosette a punti; la prima raccoglie frammenti risalenti a più di 11 metope con figure mitologiche, sfingi, sirene, gorgonèia, ecc. e una metopa con figure sedute affine a quella con le divinità in trono di Thermos, ed è riferita al tempio A. La seconda serie, di stile e tecnica differenti, comprende frammenti di almeno quattro metope, su una delle quali si riconosce Eracle col cinghiale di Erimanto sulle spalle, ed è attribuita al tempio B 2, mentre la terza serie, senza bordo decorato, è individuabile attraverso frammenti di due metope, una delle quali rappresenta Eracle con una fiera giacente, ed è forse la più antica, pertinente al tempio B 1 e della fine del VII sec. a. C. Ma la datazione di tutto questo complesso di metope è ancora piuttosto incerta e difficilmente precisabile, data la sua frammentarietà; secondo il Payne esso è comunque posteriore alle metope di Thermos (650-630 a. C.) e scende fino alla prima metà del VI sec. a. C. Al terzo gruppo di materiali fittili appartengono resti di decorazioni, sia dipinte che plastiche ed incise; al quarto, frammenti di acroterî con sfinge, una Gorgone corrente e, forse, avanzi di un gruppo frontonale (Tifone, Korai?). La testa di sfinge conservata al Museo Nazionale di Atene è uno dei più significativi esempî della plastica corinzia dell'inizio del VI secolo.
Le terrecotte sono decorate sopra uno strato di preparazione pittorica ed i colori di rivestimento sono il rosso, il lilla, il bruno, il giallo, il bianco ed il nero con un caratteristico impiego del bianco in età più arcaica; la decorazione era preparata con incisione o disegno.
Bibl.: Geisau, in Pauly-Wissowa, X, 1919, cc. 1763-66, s. v.; D. Levi, in Enc. It., s. v.; W. M. Leake, Travels in North Gr., Londra 1835, III, p. 534 ss.; W. J. Woodhouse, Aetolia, Oxford 1897, p. 91 ss.; J. Beloch, ᾿Αιτωλικά, in Hermes, XXXII, 1897, pp. 669-72; A. M. Woodward, in Journ. Hell. Stud., XLVI, 1926, p. 246; K. Rhomaios-M. Holleaux, in Compt. Rend. Acad. Inscr. et Bell. Lettres, 1928, pp. 131-4; F. Poulsen, ibid., 1929, pp. 76-87; id., in Bull. Corr. Hell., LIV, 1930, pp. 42-50; H. Payne, Necrocorinthia, Oxford 1931; E. Dyggve, F. Poulsen, K. Rhomaios, Das Heeron von Kalydon, Copenaghen 1934; G. Becatti, Attikà, in Riv. Ist. Arch. St. Arte, VII, 1940, p. 107, n. 210 e pp. 59-68; E. Dyggve, Das Laphrion, der Tempelbezirk von Kalydon, Copenaghen 1948; H. Kähler, Das griechische Metopenbild, Monaco 1949, p. 28 ss.; K. Rhomaios, Οἰ κέραμοι τῆς Καλυδῶνος, Atene 1951; E. Dyggve, in Studies Robinson, I, S. Louis 1951, p. 360 ss.; S. Stucchi, in Ann. Sc. Arch. It. di Atene, XXX-XXXII, 1952-4, p. 23 ss.