KALĪLAH e DIMNAH
. Celebre raccolta di apologhi di origine indiana, che, tradotta nel sec. VI d. C. dal sanscrito in pehlevico e nell'VIII dal pehlevico in arabo, si è diffusa in numerosissime traduzioni e rielaborazioni, risalenti a questa versione araba, in quasi tutte le letterature dell'Oriente islamico e cristiano, e dell'Occidente stesso, medievale e del Rinascimento. L'opera originaria fu composta in sanscrito, in epoca che va dal sec. IV al VI d. C., da un brahmano visnuista, forse nel Kashmir.
Il testo più antico e vicino all'originale, che si può all'ingrosso considerare l'originale stesso, è stato solo di recente scoperto e pubblicato in Europa, e ha il titolo di Tantrākhyāyika ("Libro di casi di saggezza"): esso consta di cinque capitoli, con molte altre storie e favole intercalate e inserite l'una nell'altra, e ha per scopo d'insegnare ai principi, mediante apologhi, non tanto precetti morali quanto l'arte del governo, all'occorrenza anche con l'astuzia e la frode. Una recensione ulteriore, sostanzialmente riproducente il Tantrākhyāvika, è la famosa raccolta nota sotto il nome di Pañcatantra (letter. "Cinque casi di saggezza"; sanscr. tantra - arabo ḥikmah); le cinque storie, nucleo fondamentale di tutte le successive traduzioni, sono: Il leone e il toro (è qui che compaiono i due sciacalli Karataka e Damanaka, che hanno dato il titolo forse già alla versione pehlevica e che, sotto la forma arabizzata di Kalīlah e Dimnah, hanno servito di designazione generale per tutto il corpus di apologhi nella sua ulteriore storia fuori del mondo indiano); La colomba dal collare e gli animali suoi amici; I gufi e i corvi; La scimmia e la tartaruga; L'asceta e la donnola. Il Pañcatantra, mentre da un lato acquistava enorme popolarità nell'India stessa, e ivi veniva a subire ripetute rielaborazioni o riduzioni (la più nota è lo Hitopadeśa, composto fra il sec. IX e il XIV d. C.) e traduzioni, specie nei dialetti dell'India meridionale, d'altro lato, con l'accennata versione in pehlevico o mediopersiano, iniziava la sua fortunata trasmissione verso occidente.
La versione pehlevica, compiuta, secondo notizie largamente aneddotiche e romanzesche, ma con fondo indubbiamente storico, della tradizione letteraria araba, sotto l'impero e per ordine del sovrano sasanide Cosroe Anūsharwān (531-579 d. C.), è andata perduta nell'originale. Ciò che ne sappiamo si ricostruisce dalle due versioni, indipendenti fra loro, che da essa direttamente derivano, l'antica siriaca (così detta per distinguerla da una posteriore fatta sull'arabo) a opera di un tal Būd (circa 570, e quindi quasi contemporanea alla pehlevica) e l'araba di Ibn al-Muqaffa‛ (circa 120-140 èg., 738-758 d. C.). Dall'antica siriaca, il cui testo fu ritrovato, in unico esemplare, solo nel secolo scorso, e dall'araba vediamo che i cinque capitoli del Pañcatantra già nella redazione pehlevica erano stati arricchiti di almeno quattro altri capitoli anche essi di origine indiana (Il gatto e il topo; Il re e l'uccello Finzah; Il leone e lo sciacallo; Īlād e Īrākht); essi si ritrovano in comune nelle due versioni, e risalgono i primi tre a racconti del Mahābhārata, il quarto a una non identificata fonte buddhistica. Un ulteriore capitolo sul Re dei topi e i suoi ministri, presente nel solo siriaco e non nei più antichi testi vulgati dell'arabo, e tre altri apologhi (Leonessa e sciacallo; Viandante, orefice, sciacallo, scimmia e serpente; I quattro compagni) presenti nel solo arabo, ma tutti d'indubbia origine indiana, fanno salire a 13 racconti fondamentali la probabile consistenza della redazione pehlevica, la cui paternità è attribuita a Burzōe (Burzawaih), medico di corte del re Cosroe Anūsharwān. Allo stesso Burzōe sembra che si debba attribuire in parte la famosa introduzione autobiografica (di contenuto estraneo al resto del libro), che noi conosciamo solo nella redazione araba, ma con indubbie importanti interpolazioni e rimaneggiamenti dell'autore di quest'ultima, il persiano arabofono Ibn al-Muqaffa‛ (v.); storia intima, e di alto valore psicologico e storico-culturale, sulle esperienze spirituali, dubbî filosofici e religiosi e propositi di vita morale di un'anima pensosa, cui Ibn al-Muqaffa‛, con l'aggiunta d'una celebre pagina di scetticismo antidogmatico, fece esprimere anche la propria personale ripugnanza alle religioni tradizionali, preparando, o secondo altri già implicitamente professando, la sua intima adesione alla gnosi manichea.
Perdutasi la redazione pehlevica, e rimasta isolata e oscura l'antica siriaca, che ce ne è forse l'eco più fedele, la versione araba divenne unico anello trasmissore dell'opera indiana, così ampliata, al mondo islamico e cristiano. Purtroppo, questo importantissimo testo non ci è giunto nella forma originale e integra, ma in una quantità di redazioni, varianti da manoscritto a manoscritto e rispecchianti le elaborazioni che la fortuna stessa dell'opera, divenuta libro popolare di amena letteratura, le fece subire nel corso dei secoli. Comunque, il confronto col siriaco e la ricostruzione approssimativa diretta del testo di Ibn al-Muqaffa‛ mostrano come questi abbia, più che servilmente tradotto, elaborato letterariamente la redazione pehlevica, come il suo gusto artistico, un po' indulgente alla retorica, comportava; inoltre egli vi aggiunse di suo non solo l'accennata rifusione e interpolazione del capitolo autobiografico di Burzōe, e una propria introduzione aneddotico-sentenziosa, ma un imero capitolo (Il processo di Dimnah) a seguito del Leone e il toro, di cui almeno formalmente sanava la cinica morale, e forse anche il capitoletto, del resto insignificante, su L'asceta e l'ospite. La maggior parte delle attuali edizioni del Kalīlah e Dimnah arabo comprende così 18 capitoli: cinque originarî del Pañcatantra, sette d'origine indiana aggiunti a quelli nel pehlevico, due nuovi di Ibn al-Muqaffa‛, l'introduzione del medesimo, l'introduzione di Burzōe-Ibn al-Muqaffa‛, e due altre introduzioni in arabo, l'una d'indubbia provenienza islamica, con fantastici particolari sull'origine dell'opera indiana, e sul presunto suo autore, il saggio Bidpāi (in arabo Baidabā), l'altra di origine incerta, con la storia della missione di Burzōe in India per procacciarsi e tradurre l'opera famosa. Questo testo arabo così formato sarà la base di ogni ulteriore versione e rimaneggiamento.
La redazione di Ibn al-Muqaffa‛, vantato modello di prosa araba del sec. II dell'ègira, riconoscibile nelle linee generali pur attraverso le difficoltà di una vasta e varia tradizione manoscritta, è molto interessante anche per l'abilità con cui l'autore seppe smorzare alcuni tratti pagani dell'originale, senza per ciò goffamente islamizzarlo. Essa fu subito verseggiata in arabo dal contemporaneo di Ibn al-Muqaffa‛, Abān al-Lāḥiqī, poi, verso il 1100, da Ibn al-Habbāriyyah, e una terza volta, nel 640/1242, da ‛Abd al-Mu'min aṣ-Ṣaghānī; solo la seconda e terza di queste redazioni metriche è giunta sino a noi. Ma le vere e proprie versioni dall'originale arabo sono: a) la nuova siriaca anonima, del sec. X o XI, con ampliamenti nelle parti didattiche, fortemente espurgata e cristianizzata; b) la greca, compiuta sulla fine del sec. XI da Simeone figlio di Seth sotto il titolo di Στεϕανίτης καὶ 'Ιχνηλάτης, dovuto a una falsa interpretazione etimologica delle forme arabe Kalīlah e Dimnah, e fonte a sua volta di un'antica versione latina (anteriore al sec. XV) e di quattro slave (in antico slavo, slavo, croato, e cèco); c, d) le perdute etiopica e mongolica; e, f) le persiane ed ebraiche, che sono state rispettivamente il veicolo di trasmissione di Kalīlah e Dimnah al mondo turco-tataro, indostano, malese da un lato, cristiano occidentale dall'altro.
La prima versione in neopersiano fu compiuta (a prescindere da una redazione metrica di Rūdaghī, morto nel 304/916, perduta) da un Abū 'l-Ma‛ālī Naṣr Allāh ibn Muḥammad dopo il 539/1144, e dedicata al sultano ghaznavide Bahrām Shāh: tutta la raccolta, salvo l'introduzione di Burzōe, ha subìto in questa traduzione una rielaborazione stilistica piena di retorica e d'immagini ricercate e ampollose, che fu poi criticata da Ḥusain Wā‛iẓ, noto poligrafo del sec. XV, il quale imprese, tra il 1470 e il 1500, una nuova rielaborazione e ampliamento dell'opera. Ne risultò il famoso libro Anwār-i Suhailī "Luci di Canopo" (con gioco di parole sul nome del visir cui fu dedicato, Aḥmed Suhailī), che, ben lungi dall'avere semplificato la traduzione di Naṣr Allāh, la supera in realtà di molto per l'estrema artificiosità dello stile, ed è un classico modello della più barocca prosa persiana, da allora prevalsa nell'uso letterario in Persia e in India. Mentre gli Anwār-i Suhailī alle quattro introduzioni del testo arabo vulgato ne sostituiscono una nuova e romanzesca sull'origine dell'opera, la terza rielaborazione in prosa persiana, eseguita per ordine dell'imperatore mongolo d'India Akbar, nel 996/1587-88, dal suo dotto ministro Abū‛l-Faḍl ‛Allāmī sotto il titolo di ‛Iyār-i dānish, "Pietra di paragone della sapienza", ristabilisce le primitive introduzioni, e costituisce un passo indietro nello spinto barocchismo di cui Ḥusain Wā‛iẓ aveva gravato l'antico testo. Da questo ‛Iyār-i dānish dipende almeno una traduzione indostana di Kalīlah e Dimnah, intitolata Khiraa afrūz "Illuminazione di sapienza"; dagli Anwār-i Suhailī dipendono il Humāyūn-nāmeh, "Libro imperiale", di ‛Alī ibn Ṣāliḥ, detto ‛Alī Celebī, in prosa rimata turco-osmanli, dedicato al sultano Solimano (1512-1520), e una versione moderna in turco orientale; da Naṣr Allāh, che fu anche versificato in persiano nel sec. XIII, dipendono due antiche versioni in turco orientale, una in antico turco osmanli (sec. XIV), e una in osmanli moderno (sec. XVI).
Il cristianesimo occidentale ebbe una prima diretta traduzione dall'arabo di ibn al-Muqaffa‛ grazie a un'antica versione spagnola, compiuta forse nel 1251 per ordine dell'allora infante, poi re Alfonso X il Savio; la priorità cronologica di questa prima versione romanza sarebbe peraltro superata, se si potesse con certezza fissare al sec. XII, come propose G. Paris, l'elaborazione in esametri leonini di Kalīlah e Dimnah, compiuta da un certo Baldo sotto il titolo di Novus Aesopus, e cui starebbe a base una redazione latina più o meno direttamente derivante dal testo arabo. Ma sia l'opera di Baldo, sia la prima versione spagnola sembrano essere rimaste senza influssi per l'ulteriore fortuna del libro in Occidente, fondata invece sulla versione ebraica che dall'arabo aveva fatto, al principio del sec. XII, un Rabbi Joel. Questa prima versione ebraica (una seconda, rimasta isolata, è quella assai più libera e giudaizzata di Jacob ben Eleazar, sec. XIII) fu a sua volta tradotta in latino, tra il 1263 e il 1278, dall'ebreo battezzato Giovanni da Capua, e l'opera di costui, Liber Kelilae et Dimnae, più nota sotto l'altro titolo di Directorium humanae vitae, fu il veicolo attraverso cui l'antica raccolta di apologhi penetrò nelle letterature occidentali. Le principali rielaborazioni europee fondate direttamente su Giovanni da Capua sono: la tedesca di Anthon von Pforr (Buch der Beispiele der alten Weisen, 1480); la seconda spagnola, anonima, del 1493; la italiana di A. F. Doni, divisa in due parti con diverso titolo (La moral filosofia del Doni, tratta da gli antichi filosofi, e Trattati diversi di Sendebar indiano, filosofo morale, Venezia 1552), coi nomi dei personaggi cambiati e la scena spostata in Italia (assai più libera imitazione sono i Discorsi degli animali del Firenzuola, 1548); e, cronologicamente primo, il rifacimento di Raimonds de Béziers, Liber de Dina et Kalila, 1313, in parte utilizzante l'antica versione spagnola, in parte plagiante Giovanni da Capua. Da tutte queste versioni dipendono le ulteriori traduzioni in lingue europee, sino alla prima diretta versione da una redazione orientale, che è la francese degli Anwār-i Suhailī, pubblicata nel 1614 da David Sahid e G. Gaulmin. Da allora comincia la fase delle traduzioni dirette dai testi orientali, che però non arrestano sino a tutto il sec. XVIII la diffusione delle versioni indirette dalle redazioni occidentali ora ricordate.
Così, attraverso un millenario processo, un altro filone dell'anchissimo patrimonio favolistico dell'India veniva, per trafila semitica, ad acquistar cittadinanza nelle letterature occidentali, aggiungendosi ai precedenti gruppi di apologhi mediati all'Occidente dalle letterature classiche, da Esopo a Fedro e Babrio. Le notevoli alterazioni e modificazioni dalla fase originaria, che solo la moderna indianistica ci ha restituito col Tantrākhyāyika e il Pañcatantra, rispecchiano il passaggio dell'opera attraverso tante e così disparate lingue e civiltà. Al fondo brahminico, di cui permangono tratti abbastanza significativi nell'antica versione siriaca e nell'araba stessa, già nel passaggio attraverso il pehlevico sembra si sia sovrapposto uno strato sentenzioso di origine semitica, ebraica e aramaica, che il passaggio successivo attraverso la civiltà arabo-musulmana ha naturalmente rafforzato. Gl'intenti genericamente moralizzatori e gnomici da un lato, lo sviluppo della parte narrativa e favolistica dall'altro, prima con elementi ancora indiani, poi, specie nelle versioni persiane e in quelle europee, della più disparata provenienza culturale, hanno molto alterato le originarie proporzioni e il carattere della raccolta, diluendone il ben preciso tipo di Fürstenspiegel, dalla machiavellica morale e dal crudo realismo narrativo, a libro di etica generica e di letteratura amena ed edificante. Il Corano e la Bibbia, il mondo leggendario e religioso arabo e persiano, giudaico e cristiano hanno lasciato la loro traccia nelle varie redazioni di cui si è qui sommariamente tracciato lo svolgimento, senza per altro obliterarne del tutto il nucleo originario, il vecchio fondo ario della favola animatrice di bruti, ora compiacentesi nella gioia di intrecciare eventi e dipingere caratteri, ora condensante in un rapido racconto la punta della proposta morale. Caratteristica della opera iniziale, mantenutasi in tutte le successive redazioni, è la disposizione della materia in alcune storie fondamentali, tra loro indipendenti, ma ognuna contenente in sé decine di storie minori, l'una magari rientrante nell'altra, al punto da render talora difficile il seguire il racconto principale, nel continuo annodarsi e dissolversi di minori trame, dalla rifinita narrazione di più pagine, al rapidissimo apologo ridotto talvolta a pura comparazione esemplificatoria.
La fortuna di Kalīlah e Dimnah, oltre che nelle vere e proprie traduzioni e rielaborazioni, è attestata dalle imitazioni ed echi molteplici che essa ebbe nelle letterature musulmane e cristiane: in queste, se ne è vista l'imitazione che ne fece il Firenzuola, e sono note quelle riscontrabili nell'opera stessa del La Fontaine; in quelle, oltre gl'influssi esercitati sulla composizione e la materia delle Mille e una notte (v.), si possono ricordare, fra le varie consapevoli imitazioni, l'arabo Sulwān al-muṭā‛ del siciliano Ibn Ẓafar (che contiene però anche molti altri elementi storico-aneddotici e parenetici), e il persiano Marzbān-nāmeh, di un Ispahbad Marzbān, giuntoci anch'esso in più redazioni posteriori.
Edizioni e traduzioni principali: Tantrākhyāyika: ed. J. Hertel, Berlino 1910 (=Abhandl. d. Kgl. Ges. d. Wiss. zu Göttingen, phil.-hist. Kl., n. s., XII, 2), trad. dello stesso, Lipsia-Berlino 1909, voll. 2. Pañcatantra: l'ed. acritica di J. H. L. Kosegarten, Bonn 1848 (su cui si fondano la traduzione tedesca di Th. Benfey, Lipsia 1859, la francese di E. Lancereau, Parigi 1871, l'italiana di I. Pizzi, Torino 1896) è oggi sostituita da quelle critiche di J. Hertel (secondo la recensione meridionale di Purnabhadra), Cambridge Mass. 1908-1912, voll. 3, e di Fr. Edgerton, New Haven 1924, voll. 2 (con traduzione inglese). Antica versione siriaca (Kalīlag e Dimnag): ed. e trad. tedesca di G. Bickell, Lipsia 1876, e nuova ediz. e trad. assai migliori, di Fr. Schulthess, Berlino 1911. Versione araba (Kalīlah e Dimnah di Ibn al-Muqaffa‛): ed. sincretistica, su mss. parigini, di S. De Sacy, Parigi 1816, da cui dipendono in genere, con ritocchi, le edizioni orientali del sec. XIX (su un ms. damasceno si dice fondata quella di A. Ḥ. Ṭabbārah, Beirut 1904 e 1911, ma che ben poco diverge dalla vulgata); ed. del più antico ms. datato (749/1348) di L. Cheikho, Beirut 1905, 2ª ed. 1923; trad. dal testo De Sacy, in tedesco di Ph. Wolff, Stoccarda 1837, in inglese di W. Knatchbull, Oxford 1819 e rist. Cairo 1905, in russo di M. O. Attaj e M. Riabinin, Mosca 1899; trad. dal testo Cheikho, in italiano di M. M. Moreno, Sanremo 1910, in russo di I. Kračkovskij, Leningrado 1933; importante trad. tedesca, su basi eclettiche, con note, dell'Introduzione di Burzōe, per Th. Nöldeke, Strasburgo 1912; ed. della versificazione araba di Ibn al-Habbāriyyah, Bombay 1317 (1900). Nuova versione siriaca: ed. W. Wright, Londra 1884, trad. inglese di I. G. N. Keith-Falconer, Cambridge 1885. Versione greca (Στεϕανίτης καὶ 'Ιχνηλάτης): ed. V. Puntoni, Firenze 1889. Versione persiana di Naṣr Allāh: ed. Ṭeherān 1282 (1864); versione di Ḥusain Wā‛iẓ (Anwār-i Suhailī): ed. S. W. Ouseley, Hetford 1851 (e moltissime orientali), trad. inglese di E. B. Eastwick Hetford 1854. Versione turca osmanli (Humāyūn-nāmeh): ed. Costantinopoli 1851-52, trad. completa di A. Galland e Cardonne, Parigi 1778, voll. 4. Antica versione spagnola: ed. C. G. Allen, Parigi-Mâcon 1906. Novus Aesopus di Baldo: ed. A. Hilka, Berlino 1928 (= Abh. d. Ges. d. Wiss. zu Göttingen, phil.-hist. Kl., n. s., XXI, 3). Versioni ebraiche di Rabbi Joel e Jacob ben Eleazar: ed. J. Derenbourg, con traduz. francese della prima, Parigi 1881 (= Bibl. de l'École d. Hautes-Études, 49). Versione latina di Giovanni da Capua (Directorium humanae vitae): ed. J. Derenbourg, Parigi 1887 (= Bibl. cit., 72); versione italiana del Doni: ed. Venezia 1815; Gli animali parlanti del Firenzuola, ed. Bianchi, Firenze 1848; Liber de Dina et Kalila, di Raimondo De Béziers, ed. L. Hervieux, Parigi 1899 (= Fabulistes latins, V).
Bibl.: Amplissima bibliografia sino al 1885 (eccettuata la sola parte indiana), in V. Chauvin, Bibliographie des ouvrages arabes ou relatifs aux Arabes, ecc., II: Kalīlah, Liegi-Lipsia 1897. Trattazioni generali: S. De Sacy, Mémoire historique sur le livre intitulé Calila et Dimna, come introduz. all'ediz. del testo arabo, Parigi 1816; Th. Benfey, Pantschatantra, I: Einleitung, Lipsia 1859; I. G. N. Keith-Falconer, introd. all'ed. della nuova versione siriaca, Cambridge 1885; J. Hertel, Das Pañcatantra reconstructed, II: Introduction, New Haven 1924 (fondamentali gli ultimi due per la parte indiana, Hertel anche informatissimo per quella semitica e generale). Sul Kalīlah e Dimnah arabo in particolare: I. Guidi, Studii sul testo arabo di Calila e Dimna, Roma 1873; Th. Nöldeke, Zu Kalila waDimna, in Zeitschrift der deutschen morgenl. Gesell., LIX (1905), pp. 794-806; M. Sprengling, Kalila Studies, in American Journal of Semitic Languages and Literatures, 1924, pp. 81-97 (materiali per un'ed. critica del testo, classificaz. dei mss. ecc.); G. Richter, Studien zur Geschichte der älteren arabischen Fürstenspiegel, Lipsia 1932, pp. 22-32; F. Gabrieli, L'opera di Ibn al-Muquaffa', in Riv. di studi orientali, XIII (1932), specie pp. 198-207.