DRAGIŠIĆ, Juraj (Benigno Salviati, Giorgio)
Nacque in Bosnia, a Srebrenica, in data incerta. Indicazioni autobiografiche portano agli anni fra il 1446 e il 1448; il Ćavar preferisce risalire al 1444, in quanto nell'ottobre del 1464 il D., in seguito all'avanzata turca che l'aveva sospinto dapprima a Ragusa, quindi in Italia, venne assegnato al convento dei francescani osservanti di S. Spirito in Ferrara come diacono, qualifica solitamente conferita non prima dei vent'anni.
Ordinato sacerdote nella cattedrale di Bologna il 18 marzo 1469, verso la fine dell'anno lo troviamo a Roma, dove dalla famiglia degli osservanti passa a quella dei conventuali ed entra in contatto con il cardinale Bessarione, protettore ufficiale dell'Ordine e naturale patrono di quanti provenivano dall'Oriente greco e balcanico.
La sua prima opera (1470-71 c.), purtroppo andata ben presto smarrita nel corso di un viaggio in Inghilterra, fu proprio una Defensio del cardinal Niceno, che Giorgio da Trebisonda, rispondendo all'attacco contenuto nell'Incalumniatorem Platonis, aveva accusato di eresia. Poiché chi avrebbe dovuto difendere il cardinale, a partire dall'insigne scotista inglese Giovanni Foxal (o Foxoles), che il D. dice suo maestro, e altri autorevoli personaggi, quali il teologo Fernando da Cordova, l'abate Giovanni Gatto e il penitenziere apostolico Guillaurne Baudin, non prendevano la parola, fu il giovane frate ad assumersi il compito di rispondere al Trapezunzio. Il Bessarione fece rivedere lo scritto dal suo segretario, l'umanista Domizio Calderini, e, soddisfatto dell'abilità mostrata dal D., gli diede il nome di Benigno. Del 1471 è il dialogo De libertate et immutabilitate Dei (ms. Vat. lat. 1056), che vede come interlocutori principali il Bessarione, cui l'opera è dedicata con fervide espressioni di elogio e di gratitudine, e il card. francescano Francesco Della Rovere, che di lì a poco sarebbe diventato papa Sisto IV (ma l'ascesa di questo al soglio pontificio e la successiva morte del cardinale protettore indurranno l'autore a invertire nel ms. i ruoli dei due protagonisti). Si tratta del resoconto di una disputa avvenuta il 1° giugno 1471 nella palazzina del Della Rovere sul tema dei "futuri contingenti" in rapporto alla predestinazione e alla scienza divina. La questione, fra le più dibattute e controverse, era stata rilanciata nel 1465 all'università di Lovanio dal magister artium Petrus de Rivo, le cui posizioni si erano scontrate con quelle del teologo Heinrich van Zomeren, che all'inizio del 1470 aveva fatto appello al Bessarione per sollecitarne l'intervento.
Il D., oltre che in Italia, perfezionò i propri studi alla Sorbona e a Oxford, privilegiando la tradizione inglese, che in seguito contrapporrà alle sanzioni teologiche degli "articuli parisienses" del 1277, la cui efficacia, a suo dire, non si estendeva fuori da quella diocesi. Dopo la morte dell'autorevole patrono (1472) si trasferì ad Urbino in qualità di reggente dello Studio generale dell'Ordine. Qui ricevette l'onore della cittadinanza urbinate e del nobile casato dei Felici, e soprattutto entrò in dimestichezza con il duca Federico da Montefeltro e la sua famiglia, divenendo ben presto precettore del giovane Guidubaldo. Nella primavera del 1475 ebbe modo di assistere all'elezione del nuovo ministro generale dell'Ordine Francesco Sansone, al quale, di lì a qualche anno, si contrapporrà invano, nel tentativo di scalzarlo da questa carica che l'altro manterrà per più di ventiquattro anni, fino alla morte. In questo periodo, oltre che all'insegnamento letterario, filosofico e teologico, il D. si dedicò alla predicazione e più tardi si compiacerà di ricordare una predica, tenuta nel 1477 alla presenza del duca d'Urbino e di Federico d'Aragona, futuro re di Napoli, nella quale aveva sostenuto il primato dell'arcangelo Michele contro la tesi di Sisto IV, che lo attribuiva a Gabriele.
A Urbino scrisse due opere: un dialogo De communicatione divinae naturae (ms. Vat. Urb. lat. 565), in cui il dedicatario, il duca Federico, è introdotto a discutere con papa Sisto IV, nell'anno del suo giubileo (1475), il mistero della natura divina e della Trinità, esemplata, secondo motivi agostiniani, sulle facoltà dell'anima (memoria, intelletto e volontà). La trattazione, fedele a Duns Scoto, sui rapporti fra tali facoltà e sul primato della volontà sull'intelletto è ripresa dall'altro scritto Fridericus, de animae regni principe (ms. Vat. Urb. lat. 995; ed. crit. Sojat, 1972): dedicato al giovanissimo Guidubaldo, il dialogo ha come interlocutori Federico da Montefeltro e suo fratello Ottaviano.
Alla morte del duca (1482), il D. si recò a Firenze, città che ricorderà sempre con profonda nostalgia, nella quale trascorrerà anni cruciali della propria vita e della propria carriera. Lettore dal 1483 al 1491 di umane lettere, dialettica ed etica, quindi di filosofia e di teologia, ebbe come colleghi il Landino, il Poliziano e il Calcondila. Il 5 marzo 1485 fu aggregato al Collegio dei teologi fiorentini; tre anni dopo, mentre era reggente dello Studio del convento di S. Croce, fu solennemente incorporato in quella comunità; il capitolo generale dell'Ordine, il 25 maggio 1488, gli confermò la reggenza di S. Croce per tre anni, nominandolo anche inquisitore di Firenze per un biennio; nel 1490 divenne ministro provinciale della Toscana.
Del 18 marzo 1488 (stile fiorentino: vale a dire 1489) è la sua prima opera a stampa, un manuale di logica dedicato ai due figli di Lorenzo il Magnifico, il neocardinale Giovanni (il futuro Leone X) e il fratello Piero, di cui il D. era allora precettore e al quale sarà sempre legatissimo. In essa, intitolata Dialectica nova secundum mentem Doctoris Subtilis et beati Thomae Aquinatis aliorurnque realistarum, l'autore si fregia per la prima volta del prestigioso cognome de Salviatis, dalla potente famiglia che l'aveva adottato.
L'opera, che verrà ristampata a Roma al cadere del 1520 con il titolo di Artis dialecticae praecepta vetera et nova, rispecchia l'andamento usuale delle summulae scolastiche: in essa l'autore respinge, anche se mostra di conoscere bene, la logica nominalistica, preferendo un realismo dalle caratteristiche platonizzanti, ma soprattutto esplicita e conferma la propria tendenza "concordista" volta a conciliare Scoto e Tommaso. Questo orientamento traduceva sul piano teologico l'attitudine al concordismo di Platone e Aristotele discusso fra i dotti bizantini conosciuti appena giunto in Italia e professato da Ficino e Pico, che ora frequentava a Firenze.
Del soggiorno nella città toscana è soprattutto celebre la pubblica disputa teologica del 1489. Essa aveva avuto inizio il 23 giugno, vigilia di s. Giovanni Battista, nella chiesa di S. Reparata. Fra le tesi sostenute dai conventuali di S. Croce, sotto la guida del loro reggente, una soprattutto era parsa tanto audace da suscitare la decisa opposizione dei domenicani di S. Maria Novella, capeggiati dall'ungherese Niccolò de Mirabilibus: "peccatum Adae non est maximurn omnium peccatorum". La discussione, sospesa per dare inizio alla tradizionale processione, venne ripresa di lì a qualche giorno nell'ambito di un sontuoso banchetto allestito da Lorenzo il Magnifico nel suo palazzo, al quale furono invitati.1 oltre ai due diretti contendenti e ai rappresentanti dei principali Ordini religiosi, medici come Bernardo Torni e il faentino Mengo Bianchelli, ma soprattutto letterati e filosofi prestigiosi quali Marsilio Ficino, Giovanni Pico e il Poliziano. Di questo torneo dottrinale, il cui principale nodo si era precisato nella questione se e in quali termini Dio possa essere considerato causa del male, ci sono giunti i resoconti dei due antagonisti. Il 27 luglio il domenicano dava alle stampe una Disputatio facta in domo Laurentii Medices e a lui indirizzata. Il D. si affrettò, a sua volta, a dedicare al Magnifico un proprio scritto dal titolo Septem et septuaginta in opuscolo Magistri Nicolai de Mirabilibus reperta mirabilia, nel quale respingeva le accuse e ribadiva le proprie audaci posizioni, corredandole di numerose autorità patristiche e scolastiche, e rilevando come la maggior parte degli interventi erano risultati a lui favorevoli.
Qui, come in altri scritti, il D. fa riferimento con rispetto e devozione al Ficino ("pater meus"), il quale, da parte sua, in una lettera del settembre dello stesso anno, invocherà proprio il "fortissimus ... Georgius" quale efficace difensore contro i nemici dell'Accademia (cfr. Ficini Opera, Basileae 1576, p. 575). Quanto a Pico, il giudizio è complessivamente più sfumato. In questo opuscolo il D. ne ricorda i numerosi interventi e giunge a citarne una delle tesi di recente condannate a Roma ("Peccato finiti temporis non debetur poena infiniti temporis"). È poi significativo che quando era giunta da Roma copia dell'Apologia scritta dal Pico a difesa delle proprie Conclusiones, Lorenzo l'avesse voluta sottoporre al giudizio del D:, con una motivazione che egli ricorderà con vivo compiacimento: "quia eruditiorem ac probiorem non cognosco, neque esse credo".
Al periodo fiorentino risalgono altri due testi conservati manoscritti. Uno, il De natura angelica (Firenze, Bibl. Laurenziana, pluteo XVIII, 16), è dedicato a Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici, e tratta della natura e della funzione cosmica degli angeli, considerati soprattutto come intermediari delle verità future; argomenti che verranno rielaborati con maggiore ampiezza e dottrina nell'opera dal medesimo titolo scritta a Ragusa, ma stampata a Firenze nel 1499. L'altro scritto, l'Opus septem quaestionum (Firenze, Bibl. Riccardiana, ms. 317; Bibl. Laurenziana, pluteo LXXXIII, 18), si configura come un'elaborata risposta a una serie di quesiti teologici relativi alla grazia e alla predestinazione divina in rapporto alla libertà umana contenuti in un sonetto di Lorenzo il Magnifico, al quale l'opera è dedicata.
Prima di esaminare i tentativi messi in opera dal D. per realizzare le proprie ambizioni con l'appoggio dei suoi potenti patroni, si deve accennare a un curioso episodio in cui fu coinvolto. Pare che egli si fosse impegnato, in cambio di una cospicua somma di denaro pagata dall'arte dei mercanti, a consegnare a Firenze il braccio sinistro di s. Giovanni. Ma la preziosa reliquia non giunse mai a destinazione e fu invece trattenuta a Ragusa, il cui governo ne reclamava il legittimo possesso in quanto volontariamente consegnata dietro regolare compenso dal D., il quale invece asseriva che, nel corso di una grave malattia da cui era stato colpito di ritorno da un viaggio in Terrasanta, aveva depositato provvisoriamente il braccio presso alcuni cittadini della Repubblica che, in caso di una sua guarigione, si erano impegnati a restituirlo alla città toscana. Nel biennio 1489-91 fra i due governi ebbe luogo, sulla questione, una vera e propria guerra diplomatica, con invio di intermediari e scambi di lettere; Firenze giunse a chiedere la mediazione dei papa e del sultano turco, senza peraltro riuscire a entrare in possesso dell'agognata reliquia.
Reggente di S. Croce e ministro provinciale, il D. nutriva apertamente maggiori ambizioni ed aspirava al generalato dell'Ordine, che era allora tenuto, come si è visto, da Francesco Sansone. Fin dai primi mesi del 1492 il francescano Giovanni da Prato, spregiudicato consigliere di papi e di potenti, scriveva da Roma a Piero suggerendo i mezzi e gli intrighi più idonei a far ottenere al suo protetto una carica oltremodo utile per rafforzare il dominio mediceo sulla Toscana. Rifiutata la cattedra di teologia che gli era stata offerta a Pisa (5 luglio 1492) per due anni, con facoltà di riconferma a suo piacimento, il D. alla fine dell'anno, dopo l'elezione di Alessandro VI, si recò a Roma, cercando di procurarsi il generalato con la promessa di 4.000 ducati: di 500 disponeva egli stesso, per la somma residua si erano impegnati i Salviati e i Medici. Ma il disegno andò fallito. Il Sansone non solo mantenne saldamente in pugno la propria carica, ma non tardò a punire il pericoloso avversario, privandolo di quella di provinciale. Quando però il nuovo eletto, Pietro da Figline, giunse a Firenze per insediarsi in S. Croce, dovette fronteggiare l'aperta ostilità dei seguaci dell'ex ministro, appoggiati da Piero, sdegnato per la bruciante sconfitta. Privato di ogni onore in seno all'Ordine, il D. dovette accettare la cattedra pisana. Ma quando, con la discesa di Carlo VIII, i Medici vennero cacciati, egli fu travolto nella loro disgrazia. Incarcerato e tenuto in ceppi per undici giorni, spogliato di ogni suo avere, fu costretto a rifugiarsi a Ragusa, abbandonando per sempre la città a lui più cara.
Nella Repubblica dalmata fu accolto con stima e con benevolenza. Oltre a rivestire con successo l'ufficio di predicatore, forse di lettore allo Studio e di vicario dell'arcivescovo, l'anconitano Giovanni Sacco, là egli stese e inviò a Firenze, perché l'amico Ubertino Risaliti ne curasse la stampa, la sua opera più famosa e più discussa, le Propheticae solutiones (Florentiae, L. de Morgianis, 1497), scritte in difesa del Savonarola.
Nel dialogo, suddiviso in tre parti, l'autore risponde a una serie di interrogativi che via via gli vengono posti da Ubertino. Le questioni essenziali riguardano: se siano possibili nuove profezie dopo Cristo; se si debba credere all'ispirazione divina di quelle savonaroliane; infine che spiegazione si possa dare della comparsa del profeta proprio nella città di Firenze. Il D. risponde in modo positivo al primo quesito, pur operando precise distinzioni tra profezia prima e dopo Cristo, e tra profezia e divinazione; quindi asserisce che Savonarola è un vero profeta inviato da Dio, come è provato dalla santità della vita, l'ardore dello spirito e il verificarsi delle sue predizioni. Quanto all'ultimo punto, Firenze è stata prescelta dalla Provvidenza a essere teatro dell'azione spirituale del domenicano e a divenire la nuova Gerusalemme per la sua tradizione culturale e per l'alta coscienza morale e la profonda pietà dei suoi abitanti.
Nell'esilio di Ragusa, oltre a un'Oratio funebris pro Iunio Georgio, in cui ricorda la propria amicizia con il defunto senatore e ne elogia le virtù rivolgendosi al figlio Sigismondo, il D. compose la sua opera di maggior impegno, il De natura angelica, stampata a Firenze presso Bartolomeo di Libri nell'agosto 1499, sempre a cura del Risaliti.
Dedicata al Senato ragusino, essa si presenta come il resoconto di una discussione corale con i viri docti della Repubblica, che in nove giornate fra il maggio e il luglio di quell'anno interrogarono l'autore sulla natura, le operazioni, la volontà, la creazione, la caduta, le gerarchie degli angeli. Adottando sempre una linea scotista e destreggiandosi con la consueta abilità "conciliativa" tra le numerose auctoritates, il D. sfoggia tutta la propria erudizione teologica, oltre a fornire interessanti notizie autobiografiche. L'opera contiene anche una sobria palinodia della propria adesione a Savonarola, limitandosi l'autore ad esprimere delusione e stupore per l'enormità dell'impostura di un uomo dalla vita così santa.La morte dell'odiato Sansone (27 Ott. 1499) consentì al D. di rientrare in Italia e di ricuperare l'antico prestigio all'interno dell'Ordine. Già nel 1500 presenziò al capitolo riunitosi a Terni per l'elezione del nuovo generale e ricevette l'incarico di redigere, entro una commissione ristretta, il nuovo statuto, approvato da Alessandro VI il 7 aprile dell'anno seguente. Al cadere del 1500 lo troviamo a Roma, dove il 1° genn. 1501 ebbe l'onore di predicare, durante la messa solenne, nella cappella maggiore del palazzo apostolico alla presenza del papa; nel 1502 era presso il convento dei Ss. Apostoli, cil cui nel 1504 sarà eletto reggente; fra il 1503 e il 1504 fu custode del convento di Assisi; nel 1505 divenne commissario generale della provincia austriaca e l'anno successivo professore di teologia presso l'università romana della Sapienza.
Il 21 maggio 1507 fu nominato da Giulio II vescovo di Cagli, sede particolarmente importante per gli interessi che i Della Rovere stavano maturando nel Ducato d'Urbino. Dall'estate del 1507 al gennaio 1509 fece parte di una legazione in Germania presso l'imperatore Massimiliano, guidata dal card. B. de Carvajal, con il proposito di dissuadere il sovrano dallo scendere in forze in Italia. per indurlo invece a una lega cristiana contro i Turchi e a un'alleanza con il papa contro Venezia. All'attività politico-diplomatica (non priva di ambiguità: come infatti documentano due lettere inviate al gonfaloniere Pier Soderini non disdegnava di fornire alla Repubblica fiorentina informazioni riservate) il D. univa un'intensa operosità letteraria. Editore di un'Homelia doctissima del Carvajal, alla quale premise un'interessante epistola indirizzata a Massimiliano, egli compose il Vexillum christianae victoriae, suddiviso in 63 "contemplationes", in cui, coniugando i consueti motivi scotistici con suggestioni platonizzanti, affrontava il problema dell'unità e semplicità divina in rapporto a temi trinitari e al processo di moltiplicazione e diffusione delle idee nella mens di Dio.
Lo scritto, dedicato e inviato a Massimiliano (Vienna, Nationalbibl., ms. Palat. 4797; cfr. M. Denis, Codices mss. theol. Bibl. Pal. Vindob. lat., I, 2, Vindobonae 1794, cc. 1292-96, e Th. Gottlieb, Büchersammlung Kaiser Maximilians I., Leipzig 1900, pp. 53, 128), attorno al 1517 fu dedicato al re di Francia, Francesco I (Parigi, Bibl. nation., Mss. Lat. 3620; cfr. Ch. Samaran-R. Marichal, Catal. des mss. en écriture latine, II, Paris 1962, p. 187). Due esemplari del Vexillum, privi di dedicatorie, sono conservati in Italia: Rieti, Bibl. comun., 1-2.70; Milano, Bibl. del Convento di S. Francesco dei frati cappuccini, cod. n. 16 (cfr. C. Varischi da Milano, Catal. dei codici della Bibl. del Convento di S. Francesco dei minori cappuccini in Milano, in Aevum, IX [1937], pp. 259-61). Quest'ultimo codice, assai interessante, contiene anche la problematica Apocalypsis nova e un altro dei testi del periodo germanico, il Libellus de Virginis Matris assumptione. Prendendo le mosse dall'apocrifo De transitu Mariae, l'opuscolo (cfr. anche Bibl. Ambrosiana, cod. A 30 sup., cc. 2-52v, esemplare trascritto il 22 febbr. 1520, con dedica a Paolo Visconti; Bibl. Trivulziana, ms. 453) affronta temi mariani assai cari alla tradizione francescana e scotista, soffermandosi sulle perfezioni di Maria, la sua assunzione nei cieli e il suo fondamentale ruolo cosmico di mediatrice. In origine lo scritto, con il titolo di Contemplationes commendationum Virginis gloriosae, era dedicato a Margherita d'Asburgo, figlia di Massimiliano e reggente dei Paesi Bassi (Bruxelles, Bibl. Royale, cod. 10783; cfr. J. Van de Gheyn, Catal. des mss. de la Bibl. Royale de Belgique, III, Bruxelles 1901 p. 381). Analoghi temi mariologici sono trattati nel De excellentiis et dignitatibus Virginis Matris theoremata, conservato nel citato codice ambrosiano, cc. 53r-98v, con dedica a un altro personaggio di primissimo piano, il card. Guillaume Briçonnet, autorevole consigliere di Carlo VIII e poi di Luigi XII, e quindi uno dei promotori dello scismatico conciliabolo di Pisa (1511).
Al 1511 risale un testo assai significativo, steso in occasione di un episodio che aveva suscitato il massimo scalpore. Il 22 maggio Francesco Maria Della Rovere, nipote del papa e nuovo duca d'Urbino dal 1508, aveva ferito a morte, a Ravenna, il card. F. Alidosi, legato pontificio a Bologna, ritenuto responsabile dell'occupazione della città da parte dei Francesi. Il vescovo di Cagli si affrettò a stendere un Apologeticon seu Defensorium (Firenze, Bibl. naz., Mss. Magl. XXX, 215) a favore del duca incarcerato e in attesa di processo, indirizzandolo a Giulio II e al Senato cardinalizio.
Adottando la consueta forma dialogica (interlocutori l'autore stesso e uno dei consiglieri del Della Rovere), il teologo, con indubbia spregiudicatezza, intendeva provare che non tutti i delitti risultano punibili e che talune azioni, apparentemente in contrasto con le leggi umane e divine, sono dettate da un superiore mandato dello Spirito Santo. L'assassinio dell'Alidosi era di questa natura e nell'ultima parte dello scritto il D. giungeva a provare la divinità dell'impulso che aveva mosso il duca con il ricorso a tre celebrate profezie, quella di Cirillo, di s. Brigida e del beato Amedeo.
Il duca fu assolto da ogni addebito, con ovvia soddisfazione sua e del pontefice, che prima del dicembre 1512 nominò il D. arcivescovo titolare di Nazareth.
L'esplicito riferimento alla profezia del beato Amedeo ci induce ad affrontare la questione più spinosa relativa alla produzione del Dragišić. Recenti studi di Anna Morisi e di Cesare Vasoli hanno infatti messo in rilievo gli indubbi, stretti legami tra il D. e il testo teologico-profetico noto come Apocalypsis nova. Affidata a numerosissimi manoscritti, l'Apocalypsis è tuttora inedita, tranne che per alcuni passi che godettero di una particolare fortuna, veniva attribuita al francescano di origini iberiche João da Silva y Menezes, noto come beato Amedeo, che dal 1452 e fino alla morte (1482) visse in Italia, fondando nel 1459, a Milano, la Congregazione degli amadeiti. Nel 1472 fu chiamato a Roma, in qualità di confessore, da Sisto IV, che gli assegnò il convento di S. Pietro in Montorio. Del frate, che conduceva vita appartata e assai austera, ed era soggetto a frequenti estasi, si diceva che fosse dotato di doni profetici.
Il problema consiste nello stabilire fino a che punto sia possibile assegnare al mistico portoghese un testo elaborato e dotto come quello che ci è pervenuto dell'Apocalypsis, la cui autenticità fu messa ben presto in dubbio. La prima parte si suddivide in otto raptus, in ognuno dei quali l'arcangelo Gabriele rivela al frate, trasportato in condizione estatica dalla grotta sul Gianicolo, in cui si trovava a pregare, alla presenza della corte celeste, i misteri più riposti e sottili della fede. La seconda parte, nota come Sermones o Revelationes speciales, sviluppa temi morali e teologici che nei Vangeli sono appena accennati. Entro una struttura ricca di dottrina e di citazioni, il nucleo più famoso e più propriamente profetico riguarda l'imminente avvento del papa angelico (in un passo del quarto raptus si afferma che è già nato e che vive a Roma "iuvenculus, pauperculus, incognitus"), il quale, portando a compimento la predizione di Giovanni dell'unum ovile e dell'unus pastor, realizzerà la giustizia, l'unità cristiana, sconfiggendo o convertendo gli infedeli, e la pace universale. Ma cenni troppo puntuali ai pontefici compresi tra Sisto IV e Giulio II, nonché a vicende dei primi del '500, fanno pensare a una redazione post eventum, o quanto meno suggeriscono l'ipotesi dell'interpolazione. D'altra parte, documenti inequivocabili provano che all'inizio dei '500 il Carvajal e il D. parteciparono all'apertura dei sigilli di questo libro segreto, contribuendo a divulgare sapientemente, e al tempo stesso ad alimentare, la leggenda che già l'avvolgeva. In un gruppo di lettere inviate da Roma al Risaliti (cfr. Bibl. Trivulziana, ms. 402), il frate bosniaco gli partecipava la propria viva emozione per la lettura del testo, trascritto furtivamente. Con malcelato compiacimento si schermiva dall'ipotesi (che non gli pareva però del tutto assurda) avanzata dall'amico, che già lo vedeva "papa angelico", ma non nascondeva la speranza di essere uno dei dieci cardinali orientali che ne avrebbero coadiuvato l'opera.
Con uno studio comparato dei testi, la Morisi ha poi appurato che il D., in particolare negli scritti "germanici", utilizzava ampiamente, spesso alla lettera e senza dichiararlo, parti dell'Apocalypsis. A fuor di dubbio che fra quest'opera e alcune altre del D. esistono evidenti affinità di problematiche e di soluzioni - tanto che, come ricorda il Wadding (Annales minorum, XIV, Quaracchi 1933, p. 370), ben presto si rilevò maliziosamente che l'angelo del beato Amedeo era scotista. In ogni caso, restano aperti molti interrogativi sul testo dell'Apocalypsis, e spetterà ad ulteriori ricerche stabilire se e fino a che punto sia possibile individuare un eventuale originario nucleo amadeita, successivamente ampliato e rimaneggiato; o se invece essa risulti integralmente frutto del D., ipotesi su cui richiama l'attenzione il Vasoli.
Anche se non è del tutto chiaro, e meriterebbe di venire approfondito, il ruolo giocato dalla profezia nel pensiero del D., la sua attenzione per queste tematiche è senza dubbio costante; anzi egli, per sottolineare la continuità di tali interessi, li fa risalire al giovanile soggiorno inglese, quando si era imbattuto in una "prophetia anglica" sul cap. XVIII dell'Apocalissi. Inoltre, nell'ultimo periodo della sua vita, verso il 1517-18, si assiste a una vivace ripresa di motivi profetici, in funzione filofrancese, come è testimoniato dalla dedicatoria a Francesco I del Vexillum e dai rapporti con Denis e Guillaume Briçonnet, entrambi figli del cardinale cui era stato dedicato il De excellentiis. Nella propria tesi di laurea, Eugenio Giommi, studiando i rapporti che collegarono i Brioçonnet ad ambienti italiani sensibili a progetti di riforma, in particolare al cenacolo milanese dell'Eterna Sapienza, testimonia i legami diretti e personali del D. con i due prelati francesi, in particolare con Guillaume, amico di J. Lefèvre d'Etaples, consigliere spirituale di Margherita di Navarra e animatore del gruppo riformatore di Meaux, sottolineando il ruolo fondamentale giocato, in questi rapporti, dal tema del pastore angelico e dal testo dell'Apocalypsis nova.L'elezione nel 1513 di Leone X suscitò nuove speranze nel D., che gli inviò una copia dell'Opus septem quaestionum, l'antico commento al sonetto teologico di Lorenzo, con una dedica abile e insinuante (cfr. il cit. ms. Laurenziano LXXXIII, 18, che riproduce anche la prefazione dell'antica Dialectica, e A. M. Bandini, Catalogus cod. lat. Bibl. Laur., III, Florentiae 1776, coll. 214 s.). Ricordando al papa de' Medici i vincoli di amicizia che lo avevano legato alla sua famiglia, e in particolare la stima e le splendide promesse da parte di suo padre, nonché le pene patite con la cacciata di Piero, il D. avanzava una trasparente richiesta del cappello cardinalizio, che non riusci però ad ottenere.
Dal 1512 al 1517 come vescovo di Cagli e dal dicembre 1512 come arcivescovo di Nazareth partecipò assiduamente alle sessioni del concilio lateranense V. Al sinodo e a Leone X inviò un non spregevole opuscolo sulla dibattuta questione della riforma del calendario, preceduto da una lettera ad Agostino Chigi e intitolato Correctio erroris qui ex equinoctio vernali in kalendario procedere solet (ms. Vat. lat. 8226, cc. 1-12). Nell'ambito del concilio, secondo gli studiosi savonaroliani, si oppose alla proposta di condannare come eretico il profeta domenicano. Ma l'episodio più rilevante di questi anni è la sua partecipazione alla controversia, scoppiata in Germania, sulle posizioni di J. Reuchlin, che si era opposto con fermezza alla distruzione dei libri ebraici. Quando la scottante questione venne discussa a Roma, il D. non solo si schierò dalla parte dell'umanista tedesco, votando a suo favore all'interno della commissione nominata a decidere sull'Augenspiegel (luglio 1516), ma scrisse una Defensio, sotto forma di un dialogo fra Reuchlin e lui stesso, sul problema An Iudaeorum libri quod Thalmud appellant sint potius supprimendi quam tenendi et conservandi. L'opuscolo, portato in Germania da Martin Groningus - che tornava appunto da una missione romana a favore di Reuchlin -, fu accolto con favore dagli umanisti, annunciato da Joannes Caesarius a Erasmo (cfr. Opus epistolarum, a cura di P. S. Allen, III, Oxonii 1913, pp. 35, 102, 125) e stampata a Colonia dal tipografo Neaetius nel settembre 1517, con una prefazione di Hermann von Neuenaar e una dedica all'imperatore Massimiliano. Ristampata a Roma nel gennaio dell'anno seguente, essa ebbe un peso notevole nelle dispute germaniche, tanto che il più diretto avversario di Reuchlin, l'inquisitore domenicano Jacob Hochstraten, si affrettò a controbatterne le posizioni in un'Apologia, dedicata a Leone X e a Massimiliano, nella quale giungeva a mettere in dubbio la paternità dello scritto riprodotto e commentato puntigliosamente. Ma il D. ribadì le proprie posizioni premettendo un'epistola assai elogiativa alla prima edizione del cabalistico Opus de archanis Catholicae veritatis (Ortonae maris 1518) del confratello Pietro Galatino.
Secondo una testimonianza del fedele discepolo Antonio Sassolini, che fu generale dei conventuali fra il 1520 e il 1525, già nel 1512 il D. avrebbe avuto pronti per la stampa i suoi Commentaria in IV libros Sententiarum, che però non risultano editi né conservati; nessuna traccia neppure di un Tractatus de rebus moralibus atque ad civilem regimen, che il D., nella prefazione del De natura angelica, dichiara di voler stampare e dedicare al Senato di Ragusa.
Il D. morì nel 1520, forse nella sede residenziale del suo arcivescovado, Barletta (Bari).
Fonti e Bibl.: Firenze, Seminario arcivesc., Registrum B (1424-1559), c. 40; Assisi, Bibl. comunale, Fondo S. Convento, IX, cc. 7, 203; Roma, Arch. gen. d. Ordine dei frati minori conv., Regesta Ord., 3, f. 4r; Ibid., C. 215: F. A. Benoffi, Mem. di vescovi, cardinali e papi minori convent., cc. 16r-26v; Firenze, Bibl. naz., Conv. soppr., ms. G.5.1209, c. 221r; Ibid., ms. II.II.181: N. Papini, Index onomasticus, c. 144r; Id., Lectores publici Ord. fratr. min. convent., in Miscell. franc., XXXI (1931), p. 102; XXXII (1932), p. 74; XXXIII (1933), pp. 243 ss., 385; D. Benivieni, Dialogo della verità della dottrina predicata daf. Hieronymo da Ferrara, Firenze 1497, cc. aiiiirv; A. Sassolini, Illuminata conscientia, Firenze 1512, cc. H5r-h6v; D. Farlatus, Illyricum sacrum, VI, Venetiis 1800, pp. 191 ss.; I. Burchardus, Diarium sive Rerum urbanarum Commentarii, III, Paris 1885, p. 91; B. 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Note per una lettura della "Propheticae solutiones", ibid., pp. 81-123 (da p. 94 il testo annotato delle Propheticae solutiones); H. Hurter, Nomenclator literarius theologiae catholicae, II, Oeniponte 1906, pp. 1118; G. Gulik-C. Eubel, Hierarchia catholica medii et recentioris aevii, III, Monasterii 1921 pp. 147, 254; P. O. Kristeller, Iter Italicum, I, pp. 70 s., 115, 122, 190, 327; II, pp. 67, 344, 385, 415 (ma Vasoli propone di espungere il ms. Vat. Ott. lat. 914 dalla produzione del D.), 515 s., 537 s.