Duvivier, Julien
Regista cinematografico francese, nato a Lille (Nord-Pas-de-Calais) l'8 ottobre 1896 e morto a Parigi il 29 ottobre 1967. Dotato di una tecnica notevolissima e di una vena di narratore popolare che tiene ben presente la lezione del cinema classico statunitense, dal 1919 al 1967 diresse con versatilità e vitalità circa settanta film, eguagliando a metà degli anni Trenta la fama internazionale di registi come René Clair e Jean Renoir. A differenza di quest'ultimo (e soprattutto della coppia Marcel Carné-Jacques Prévert), D. non aspirava alla 'poesia', ma alla 'prosa', resa viva da atmosfere e caratteri magistralmente scolpiti. Nei temi e nelle ambientazioni dei suoi film si rintraccia la capacità di raccontare una 'commedia umana' fatta di disillusioni, fatalità e amarezze, e di rendere plasticamente tanto i climi sordidi, quanto i toni più leggeri o crepuscolari. Nel 1937 con Carnet de bal (Carnet di ballo) ottenne il premio per il miglior film straniero alla Mostra del cinema di Venezia e nel 1939 la Coppa della Biennale con La fin du jour (1938; I prigionieri del sogno).
Aspirante attore, convinto a fare cinema dall'amico e regista di teatro e di cinema André Antoine, D. debuttò nel 1919 con Haceldama ou le prix du sang. Tra i sedici film del suo apprendistato, diretti dal 1920 al 1931, si rileva la predilezione per il melodramma (L'homme à l'Hispano, 1926; Poil de carotte, 1926, di cui fornirà una versione sonora nel 1932), l'avventura (Le tourbillon de Paris, 1928), la letteratura (Au bonheur des dames, 1930, Il tempio delle tentazioni, tratto da é. Zola) e il noir (Les cinq gentlemen maudits, 1931, I cavalieri della morte). In appendice a queste prove, David Golder (1930; La beffa della vita), che racconta splendori e decadenza di un banchiere ebreo di origine russa interpretato da un superbo Harry Baur, si affermò come primo grande film sonoro francese e inaugurò per il regista un decennio d'oro. La consacrazione a livello internazionale si realizzò con la celebre trilogia degli anni 1935-36 (La bandera, 1935; La belle équipe, 1936, La bella brigata; Pépé le Moko, 1936, Il bandito della casbah), assai apprezzata dal pubblico. Tuttavia, tra David Golder, film che lo rivelò, e La bandera, film che lo consacrò, D. aveva realizzato quattro tra le sue maggiori opere: una deliziosa commedia 'alla Clair' (Allo Berlin, ici Paris, 1931); un noir memorabile tratto da G. Simenon (La tête d'un homme, 1932, Il delitto della villa); un capolavoro del cinema adolescenziale tratto da J. Renard (Poil de carotte, 1932, Pel di carota) e infine un dinamico film sulle disavventure di due operai in partenza per il Canada (Le paquebot Tenacity, 1934), che nell'anticipare il filone populista della fine degli anni Trenta (soprattutto di Carné) inventava già atmosfere 'brumose', come quelle del porto di Le Havre.
Nel 1934 Maria Chapdelaine (Il giglio insanguinato), un singolare western di ambientazione canadese, sancì l'amicizia con Jean Gabin, poi protagonista della successiva, celebre trilogia che avrebbe influenzato maestri come Carné, Renoir e Jean Grémillon. In La bandera l'attore è un assassino che cerca l'oblio nella Legione straniera spagnola; in La belle équipe interpreta la coscienza tragica del gruppo di proletari che sogna di aprire un locale all'aperto sulla Marna; infine in Pépé le Moko è il romantico bandito di Algeri che perde la testa, e la vita, per una maliarda parigina. In tutti e tre questi film il regista riuscì a ricreare plasticamente la verità degli ambienti: credibilissima è la magica casba totalmente ricostruita in studio. D. chiuse il decennio con due film crepuscolari: Carnet de bal, un modello di cinema a sketch, e La fin du jour, straziante ritratto di alcune vecchie glorie del palcoscenico con una gara di bravura tra Michel Simon e Louis Jouvet.Durante l'occupazione nazista, cercò rifugio negli Stati Uniti, dov'era assai apprezzato e dove realizzò due ottimi film a episodi (Tales of Manhattan, 1942, Destino, e Flesh and fantasy, 1943, Il carnevale della vita); tornato in Europa dopo la guerra, diresse dal 1946 al 1967 una ventina di film, di cui almeno otto memorabili. Oltre a Panique (1947; Panico) e Voici le temps des assassins (1956; Ecco il tempo degli assassini), in cui l'amarezza della visione del regista si riflette nei climi cupi del noir e nella patologia dei personaggi (superbamente interpretati rispettivamente da Michel Simon e da Jean Gabin), e oltre ai due fortunati Don Camillo (1952, noto in Francia con il titolo Le petit monde de Don Camillo) e Il ritorno di Don Camillo (1953, noto in Francia con il titolo Le retour de Don Camillo), vanno anche ricordati Sous le ciel de Paris (1951; Sotto il cielo di Parigi), La fête à Henriette (1952; Henriette). Abile film corale e omaggio alla banlieu parigina il primo, e film metacinematografico in tono da divertissement il secondo, dove due sceneggiatori immaginano versioni diverse e divergenti di una stessa storia. Seguirono Marianne de ma jeunesse (1955), opera onirica ammirata anche da Renoir, Pot-Bouille (1957; Le donne degli altri) tratto da Zola, e Marie-Octobre (1958), primo film francese con uno sguardo critico sulla Resistenza. Negli anni Sessanta diresse, inoltre, La chambre ardente (I peccatori della foresta nera), Le diable et les dix commandements (Tentazioni quotidiane), entrambi del 1962, Chair de poule (1963; Pelle d'oca) e Diaboliquement vôtre (1967; Diabolicamente tua), suo ultimo film.
Condannato all'isolamento anche per il carattere misantropo e pessimista, non fu solo un formidabile professionista ma anche un notevole cineasta: un maestro certamente da rivalutare. La sua abilità nel costruire storie avvincenti gli ha comunque assicurato un posto di primissimo piano nella storia del cinema mondiale. D. non meritava pertanto la campagna di denigrazione condotta negli anni Cinquanta dai critici-registi della Nouvelle vague, che, tra i grandi registi francesi, avevano eletto Renoir a punto di riferimento pressoché esclusivo. Tale incomprensione non era commisurata al valore del percorso cinematografico di D., come anche la retrospettiva e il volume critico-biografico consacratogli dal Festival fiorentino France Cinéma (Billard, Niogret, Brion, Tassone 1996) hanno messo in luce.
R. Chirat, Julien Duvivier, in "Premier plan", 1968, p. 50.
P. Leprohon, Anthologie du cinéma: Julien Duvivier, Parigi 1968.
P. Billard, L'âge classique du cinéma français, Parigi 1995, passim.
P. Billard, H. Niogret, P. Brion, A. Tassone, Julien Duvivier, Milano 1996.