MENA, Juan de
Poeta spagnolo, nato a Cordova nel 1411, morto a Terralaguna nel 1456. Rimasto orfano e senza mezzi, intraprese gli studî un po' tardi; fu a Salamanca e poi di nuovo a Cordova; a Roma, forse per la munificenza di qualche prelato, poté meglio educarsi alla cultura umanistica e alla poesia toscana. Esperto della lingua latina, divenne epistolografo alla corte del suo re Giovanni II, di cui fu anche nominato cronista, per quanto non risulti affatto la sua partecipazione alle opere storiografiche del tempo, e tanto meno alla Crónica de don Juan II. Si mantenne fedele al sovrano e al contestabile Alvaro de Luna, in tempi di scarsa coerenza morale e di malferma fede politica. Ma J. de M., temperamento solitario e meditativo, si tenne lontano dai piccoli contrasti pubblici, assorto nei suoi severi ideali artistici. Il suo Labyrintho - detto anche, secondo il titolo consacrato dalla tradizione volgare, Las Trescientas, per il numero delle strofe che l'autore dedicava a Giovanni II, il 22 febbraio 1444 - è l'opera più personale del Quattrocento castigliano, per la tempra del su0 stile, faticoso e aspro, maturato attraverso la solitaria meditazione dantesca e percorso dal soffio di grandi idealità etiche e nazionali.
Sul carro della madre Bellona il poeta è trasportato in una deserta pianura, dove s'innalza solitaria e misteriosa la cristallina dimora della Fortuna; una bellissima fanciullä, la Provvidenza, lo guida nell'interno, perché possa contemplre tutta la "macchina del mondo" simboleggiata in tre ruote, di cui le due laterali, immobili, stanno a significare il passato e l'avvenire, l'altra, roteante nel mezzo, il presente; e in ciascuna d'esse stanno sette divisioni che, secondo i sette circoli planetarî, distribuiscono gli spiriti umani. Mentre gli schemi allegorici della Divina Commedia sono ripresi, almeno inizialmente, con astrattezza mentale, nella parte storica, invece, la fantasia evocatrice del poeta si fa improvvisamente robusta e salda, conscia di tentare nuove vie più attuali e più concrete, accesa di epico fervore nel celebrare le terre della Spagna, i dolori, le speranze e le conquiste della patria, i guerrieri e i poeti, i martiri dell'amore e soprattutto delle armi e della gloria. Le disuguaglianze tra la struttura simbolica e libresca e il senso storico che vi s'immette, si riflettono nella stessa lingua - arricchita con voci italiane e latine e con la risoluta coscienza di nobilitare il castigliano - e nello stile tormentato, a volte stentato e ispido, a volte chiaro e riposato. Il suo verso d'arte mayor, metro arcaico d'andamento severo e solenne, ch'egli usa con vigore, è ora lento e uniforme, anche rude e spezzato da dissonanze e iperbati audaci, e ora, invece, ha inattese euritmie dolci e pacate.
Quest'alternativa caratterizza tutta la poesia di J. de M., la quale è sorretta da un vivo gusto umanistico - e molto egli apprese da Virgilio e soprattutto da Lucano, mentre fu il primo in Spagna a dare un largo riassunto in prosa di Omero (Ilíada en romance), letta nelle traduzioni latine ma con la piena coscienza della grande poesia; - ma è, d'altra parte, tutta piena d'atteggiamenti mentali medievali e tradizionali, ancora sonora di echi trovatorici e fiorita di reminiscenze dei trecentisti italiani. Le sue liriche, sparse nel canzoniere di Baena, in quello di Stúñiga e in genere nelle raccolte dei secoli XV-XVI: sono in parte di contenuto amoroso e cortese, con quella tipica superficialità madrigalesca e aristocratica, e in parte di puro artificio formale, di senso oscuro e volutamente inesplicabile, con una maniera quasi gongorina che gioca con l'abilità metrica e il brillìo verbale: appartengono, in fondo, a questo genere quei versi burleschi e parodistici (Sobre un macho que compró un Arcipreste), che sembrano anche legittimare l'attribuzione a J. de M. delle Coplas de ¡Ay, Panadera!, satira politica dei cavalieri che combatterono contro il re a Olmedo (1445). Tuttavia gli difetta la fine e musicale sensibilità di J. de Santillana, con il quale, per altro, fu in corrispondenza poetica e in rapporti di reciproca ammirazione, tanto che gli dedicò un'opera: La coronación, o, con falso titolo classicheggiante Calamiclos, cioè "miseria e gloria". In essa il poeta, dopo aver trattato di cattivi e di virtuosi, perviene al monte Parnaso, dove assiste all'apoteosi del Santillana; e poiché l'opera pretende di avere una complessità dantesca, l'autore l'accompagna con un lungo commento in prosa, sfoggiandovi un'erudizione pedante e libresca. Alle stesse tendenze etico-allegoriche s'ispira El debate de la Razón contra Voluntad (oppure: Coplas contra los pecados mortales), l'ultimo poemetto, rimasto incompiuto, in cui volle cantare la morte redentrice, la mortificazione dell'anima, il senso del divino. Anche qui s'avvicendano accenti semplici e toni discordi, e non di rado a una frase trasparente e lirica succede un'espressione prosaica e arida. Questa diversità stilistica traduce, per lo più, una ricchezza spirituale, i cui interessi umani e letterarî, sebbene spesso non abbiano uno sviluppo adeguato all'interno fermento, sono tuttavia molteplici e vitali; tant'è vero che l'opera di J. de M., citata dagli umanisti e dagl'innovatori contro i poeti tradizionalisti, e da questi contro quelli, ebbe la sorte di diventare testo classico per gli eruditi e i filosofi, e fu per altri motivo di nuova poesia.
Ediz.: Las Trescientas apparvero a cura del Grieco con una biografia e un commento di carattere enciclopedico (Siviglia 1499); l'opera fu annotata, con maggiore senso d'arte, dal Brocense (Salamanca 1582). Edizione moderna con il titolo El Laberinto de Fortuna, di R. Foulché-Delbosc, Mâcon 1904. El debate fu continuato da Gómez Manrique, da Guillén de Segovia e da J. de Olivares. Le altre liriche, in Cancionero castellano del siglo XV, ed. R. Foulché-Delbosc, I, Madrid 1912.
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