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CANTILLANA, José de Baeza Vicentelo y Manrique conte di

di Gaspare De Caro - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 18 (1975)
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CANTILLANA, José de Baeza Vicentelo y Manrique conte di

Gaspare De Caro

Nacque intorno al 1695 nella famiglia castigliana dei marchesi di Castromonte, terzogenito del grande di Spagna Luis Ignacio de Baeza y Mendoza e Maria Teresa Vicentelo y Silva, dei conti di Cantillana. Successe ai fratelli maggiori Juan Alonso, morto nel 1706, e Fernando, morto nel 1760, nei marchesati di Castromonte, Montemayor e Aguila e nel titolo di grande di Spagna.

Gentiluomo alla corte di Filippo V ("caballero de prendas"), nell'ottobre del 1731 fu nominato ciambellano e direttore della cappella reale dell'infante Carlo, che si accingeva a partire per l'Italia per prendere possesso del ducato di Parma e Piacenza e del titolo di erede del granducato di Toscana, secondo quanto era stato stabilito a Siviglia in quel medesimo anno nel patto di famiglia che era stato concluso tra i Borbone di Spagna e Giovan Gastone de' Medici. Il C. fu pertanto al seguito del primogenito di Elisabetta Farnese, dapprima in Toscana ed a Parma ed infine, nel 1734, a Napoli. L'anno successivo, allorché gran parte della famiglia di Carlo di Borbone fu richiamata alla corte di Spagna, il C. ottenne di rimanere a Napoli con lo stesso incarico di direttore della cappella reale e la stessa retribuzione ricevuta sino allora da Madrid, cioè la cosiddetta mesilla, di circa 1.600 ducati annui. Nell'ottobre del 1737, per la protezione del conte di Santisteban, ministro plenipotenziario di Spagna a Napoli, il C. ottenne da Carlo di Borbone di essere inviato come ambasciatore straordinario a Venezia. Non era questa una missione di grande importanza; in ogni modo il C. la eseguì con sufficiente zelo e quando, alla fine del 1739, fu richiamato a Napoli, il segretario degli Affari Esteri, José Joaquín de Montealegre, gli ottenne dal re il cordone dell'Ordine di S. Gennaro ed una pensione di 1.500 ducati annui sopra la prima abbazia siciliana che si rendesse disponibile.

Nel novembre del 1740 lo stesso Montealegre scriveva alla corte di Madrid per chiedere il parere sull'eventuale successore del duca di Castropignano, Francesco d'Eboli, nell'ambasciata delle Due Sicilie a Parigi. Si pensava infatti alla corte napoletana che se la grave crisi politica apertasi con la morte dell'imperatore Carlo VI avesse portato la guerra anche in Italia, sarebbe stato necessario richiamare da Parigi il Castropignano per affidargli il comando delle truppe napoletane; per questa eventualità il Montealegre presentava al governo di Madrid una terna di candidati alla successione del duca nell'ambasciata di Francia: in essa, oltre al principe d'Ardore ed al principe di Aci, si trovava anche il C.; su quest'ultimo tuttavia, il giudizio del ministro napoletano nonera del tutto favorevole: pur avvertendo infatti che il C. si era disimpegnato con "regularidad y lucimiento" nell'ambasciata di Venezia, esprimeva il parere che egli avrebbe potuto servire ottimamente il re in un incarico della stessa importanza di quello già eseguito, "pero no mas intricado ni dificil". In conseguenza di questo giudizio cadde naturalmente la candidatura del C. per un incarico di tanto peso presso una corte "tan dificil de cultivar" ed in circostanze "mas escabrosas de lo que eran antes" (Arch. general de Simancas, c. 5830, f. 147).

Nel decennio successivo il C. non ebbe alcun altro incarico diplomatico e riprese alla corte napoletana le antiche funzioni di ciambellano: assunse in questi anni il titolo di conte di Cantillana, ereditato dalla linea materna. Nel febbraio del 1750 fu inviato come ambasciatore straordinario a Torino e qui rimase sino all'agosto del 1753, allorché fu chiamato a sostituire nell'ambasciata di Parigi il principe d'Ardore, mentre il marchese Domenico Caracciolo passava alla corte sabauda.

Nella nuova e più importante sede il C. non tardò però a dimostrare che le preoccupazioni sulla sua abilità diplomatica, che gli avevano precluso l'ambasciata di Parigi tredici anni prima, non erano del tutto ingiustificate. Accurato e zelante informatore, infatti, del governo napoletano su quanto avveniva alla corte francese, si rivelò invece del tutto inadatto a compiti più impegnativi e delicati.

Perciò nel 1759, nel momento del passaggio di Carlo di Borbone al trono di Spagna e mentre sembrava più opportuna un'azione napoletana a Parigi, per impedire che il governo francese sostenesse le pretese sabaude su Piacenza, il Tanucci decise di affiancare al C. una persona di propria completa fiducia. La scelta del ministro napoletano cadde su Ferdinando Galiani. Questi fu inviato a Parigi come segretario d'ambasciata ed incaricato d'affari, ma in effetti divenne subito il vero responsabile dell'attività diplomatica napoletana in Francia: fu incaricato dal Tanucci degli affari più delicati e complessi e mantenne in prima persona, per un decennio, i contatti tra l'ambasciata e la segreteria degli Affari stranieri.

Il C. non tardò ad accorgersi di essere stato di fatto esautorato e non sopportò di buon grado la situazione: divenuto gelosissimo dei successi del colto e brillante abate napoletano, cercò con ogni mezzo di sbarazzarsene; ma questi suoi tentativi lo resero ancora più inviso al Tanucci, che, probabilmente a titolo di avvertimento, nell'aprile del 1760, fece decidere dal Consiglio di reggenza la sospensione dello stipendio di cui il C. godeva ancora come ciambellano. Il C., che pure al principio di quell'anno aveva ricevuto in eredità, per la morte del fratello Fernando, oltre ai numerosi titoli di nobiltà anche una notevole fortuna, non si rassegnò al provvedimento e scrisse al Tanucci, chiedendo la revoca della disposizione, come contraria alla raccomandazione fatta da Carlo di Borbone al momento di abbandonare il trono napoletano, che si confermassero, cioè, per l'avvenire tutte le cariche ed emolumenti stabiliti prima della sua partenza. Il Tanucci rispose con molta fermezza che il Consiglio di reggenza aveva preso il provvedimento perché in effetti il C. non esercitava più la carica di ciambellano e perché una prammatica del Regno stabiliva che non si potesse godere di due stipendi e confermava la decisione del Consiglio di reggenza. Il C. però riuscì ad avere la meglio sul ministro: fece intervenire nella questione, attraverso il segretario di Stato Riccardo Wall, lo stesso Carlo III, che ordinò al Tanucci di mantenere a titolo di pensione lo stipendio del Cantillana.

L'episodio però non poteva migliorare i rapporti del C. con il ministero napoletano: anche se conservò, probabilmente per le sue potenti relazioni, la carica di ambasciatore a Parigi, la sua presenza nella capitale francese ebbe di lì innanzi un valore meramente decorativo e la persona di fiducia del Tanucci continuò ad essere il Galiani. Anche quando l'abate napoletano fu coinvolto nell'incidente provocato dalle indiscrezioni del barone di Gleichen, ambasciatore di Danimarca, in conseguenza delle quali fu poi definitivamente richiamato a Napoli, il C. non recuperò la propria autonomia ed importanza. Morì di lì a poco, a Parigi, il 21 febbr. 1770.

Fonti e Bibl.: Arch. gen. de Simancas, Secretaría de Estado,Reino de las dos Sicilia (siglo XVIII), l.5811, ff. 45, 87, 166; 5817, f. 142; 5829, f. 54; 5830, f. 147; 5835, f.23; 5852, f.14; 5855, f. 96; 5857, f.43; 5868, ff. 17, 21; 5896, ff. 13-19; F. Galiani, Correspondance, a cura di L. Pereyet-G. Maugras, Paris 1881, I, pp. 83-85; B. Tanucci, Lettere a Ferdinando Galiani, a cura di F. Nicolini, Bari 1914, I, pp. 116, 130 s., 145, 155; II, pp. 2 s., 80, 297; J. Moreno de Guerra y Alonso, Guia de la Grandeza. Historia genealógica y heráldica de todas las casas que gozan de esta dignidad nobiliaria, Madrid s.d., p. 321; A. Garcia Carrafa, Diccionario heráldico y genealógico de appellidos españoles y americanos, Madrid 1923, pp. 40 s.; M. Schipa, Il Regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone, Milano-Roma-Napoli 1923, I, p. 155; II, pp. 32, 44, 48, 78 s., 258; F. Nicolini, Amici e corrispondenti francesi dell'abate Galiani, in Boll. dell'Arch. stor. del Banco di Napoli, II(1954), 7, ad Ind. p. 226.

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