Dewey, John
Filosofo e pedagogista statunitense (Burlington, Vermont, 1859 - New York 1952). Studiò nell’univ. del Vermont e nella John Hopkins di Baltimora. Dal 1884 al 1894 insegnò in varie univ. del Middle West, e poi per un decennio nell’univ. di Chicago, dove nel 1896 aprì una piccola ‘scuola-laboratorio’, materna ed elementare, che doveva offrire possibilità di osservazione e sperimentazione per i corsi di pedagogia, da D. tenuti accanto a quelli filosofici. Risale a questo periodo anche lo sviluppo del suo ‘strumentalismo’ logico e la collaborazione con G.H. Mead, J.H. Tufts, Th. Veblen e altri, che diede inizio a quella che fu poi chiamata scuola di Chicago. Nel 1904 si trasferì alla Columbia University di New York, dove insegnò fino al 1929, tenendo conferenze e seminari al Teachers College della stessa università, di cui influenzò fortemente l’orientamento, e promuovendo nuove impostazioni educative presso l’annessa scuola sperimentale Horace Mann.
Partito da posizioni kantiano-idealistiche (che si rispecchiano anche nella sua Psychology del 1887), già in Outlines of ethics del 1891 (in collab. con Tufts) D. delinea i primi fondamenti del suo naturalismo umanistico, che attribuisce al pensiero funzione strumentale e natura essenzialmente sociale. Le attività mentali non possono essere considerate isolatamente rispetto al quadro dell’evoluzione naturale; esse rappresentano il culmine dei processi attivi di adattamento dell’individuo all’ambiente a opera dell’individuo, o meglio degli individui associati. Il singolo non giunge a pensare in modo coerente e produttivo se non impadronendosi del retaggio di simboli organizzati nel linguaggio e nella cultura, e abituandosi così a contrapporre e valutare possibilità operative diverse. Il carattere funzionale così riconosciuto al pensiero accosta D. al pragmatismo, di cui fu considerato tra i massimi esponenti. Del pragmatismo tuttavia rifiutava i motivi fideistici e irrazionalistici, presenti in James, mentre accettava da Peirce il nuovo concetto di verità e di verificazione inteso in termini operativi. D. estendeva tale impostazione alle scienze e ai problemi della pratica, rifiutando ogni dicotomia fra fatto e valore (motivo già delineato in Logical conditions of a scientific treatment of morality, 1903). Con Studies in logical theory (1903; trad. it. Studi sulla teoria logica), che raccolgono scritti suoi e dei suoi collaboratori di Chicago, e How we think (1901; trad. it. Come pensiamo), D. formula il suo modello del processo conoscitivo. La conoscenza non è altro che la forma più complessa ed efficace di risoluzione delle situazioni problematiche, di conflitto e disordine, che caratterizzano l’esistenza, in piena continuità con la sua più semplice matrice biologica. Mentre a livello semplicemente biologico le situazioni di conflitto, in cui l’equilibrio vitale è perturbato, determinano una reazione, istintiva o appresa, che ristabilisce la buona integrazione con l’ambiente, a livello d’indagine consapevole la reazione alla situazione problematica non è più diretta e immediata, ma diventa un processo articolato in tre momenti principali: la posizione (o intellettualizzazione) del problema, che, da vagamente ‘appercepito’, quale era nello stadio precedente, tramite la messa in opera di schemi operativi già noti, è posto in forma di precise ipotesi; le operazioni di osservazione e sperimentazione, con cui le ipotesi vengono saggiate, precisate o invalidate; la conseguente loro rielaborazione tramite il ragionamento. La fase finale, che supera il dubbio e lo stato di incertezza e di indeterminazione da cui si era partiti, assume il carattere di verifica. Naturalmente la verifica può non riuscire, e occorre allora riprendere il procedimento sulla base di nuove ipotesi. I cinque stadi dell’indagine che ne risultano hanno alternativamente natura esistenziale e ‘ideazionale’ (ossia mentale e simbolica). Il distacco dal naturalismo grezzo e dal positivismo è tuttavia segnato da D. con molto vigore: l’intelligenza non è legata nel suo procedere a dati sensoriali a essa esterni, ma dirige proficuamente l’osservazione, la sperimentazione e la verifica mediante anticipazioni concettuali originali e ardite, configurandosi come intelligenza creativa e non meccanica registrazione di regolarità naturali.
L’applicazione didattico-educativa di quest’impostazione gnoseologica ha larga parte in Democracy and education (1916; trad. it. Democrazia ed educazione) mentre le sue implicazioni per la metodologia scientifica e la filosofia trovano più ampia trattazione in Essays in experimental logic (1917). Dopo Reconstruction in philosophy (1920; trad. it. Ricostruzione filosofica), in Human nature and conduct (1922; trad. it. Natura e condotta dell’uomo) D. delinea il rapporto fra pensiero e abitudine nei termini di un comportamentismo che si discosta da quello di Watson per la funzione essenziale attribuita alle attività mentali di prerappresentazione e valutazione delle possibilità operative. In Experience and nature (1925; trad. it. Esperienza e natura), traccia un quadro generale della sua concezione del mondo come serie aperta di processi interrelati, soltanto parzialmente determinati e prevedibili, ossia un mondo in cui la precarietà, l’incertezza e il rischio sono non meno reali della stabilità e permanenza. L’antica propensione al determinismo e insieme la sua attuale insostenibilità, resasi evidente anche in rapporto agli sviluppi della fisica corpuscolare, sono analizzate storicamente in The quest for certainty (1929; trad. it. La ricerca della certezza). In Art and experience (1934; trad. it. L’arte come esperienza) e in A common faith (1934; trad. it. Una fede comune) D. critica l’estraniazione dell’arte e della religiosità (che valorizza come atteggiamento, e respinge come credenza nel soprannaturale) dalla vita reale di tutti i giorni: l’esperienza estetica e quella religiosa sono insostituibili fattori di armonizzazione nel concreto impegno nella vita sociale. I valori estetici e religiosi, tuttavia, non contrastano con i valori intellettuali: il metodo dell’intelligenza è l’unico con cui quei valori si possano perseguire e con cui l’uomo possa migliorare le concrete situazioni sociali e politiche, e progredire moralmente. Questo ‘migliorismo etico’ non consiste peraltro in un avvicinamento progressivo a finalità precostituite: D. rifiuta ogni dualismo tra fini e mezzi, considerando i fini come mezzi procedurali, ossia piani di azioni che liberano le potenzialità attive e con ciò rendono più ricca l’esperienza. La naturale emergenza dei fini e dei valori è la norma morale e sociale che si contrappone all’etica della subordinazione del presente al futuro, di impostazione religiosa e utilitaristica. Nel 1938 D. pubblica l’opera più impegnativa dal punto di vista teore- tico: Logic, the theory of inquiry (trad. it. Logica: teoria dell’indagine), in cui critica l’atomismo conoscitivo e il dualismo forma-contenuto e analitico-sintetico, come erano sostenuti dai neopositivisti. Con i maggiori fra questi, tuttavia, accetta di collaborare all’Encyclopedia of unified science, pubblicata a Chicago sotto la direzione di Neurath, scrivendo due saggi, il più ampio dei quali è Theory of valuation (1939; trad. it. Teoria della valutazione), in cui, contro le interpretazioni emotiviste degli enunciati morali, sostenute da gran parte dei neopositivisti, propone la tesi della loro verificabilità scientifica e sociale. Ormai ottantenne, D., in collab. con A.B. Bentley, pubblica il volume Knowing and the known (1949; trad. it. Il conoscente e il conosciuto), in cui introduce il concetto di «transazione» in sostituzione di quello di «interazione»: la conoscenza non mette in relazione due entità, il soggetto e l’oggetto, già costituite come indipendenti e definite, bensì è un processo in cui l’azione reciproca è in larga misura costitutiva degli elementi stessi che vi sono coinvolti. Mentre nelle opere precedenti D. aveva generalmente indicato con il termine interazione ogni genere di relazioni attive tra entità naturali, compresi gli organismi biologici e i soggetti psichici, ora limita l’uso ai rapporti più schematici propri dei modelli interpretativi della scienza, che presuppongono entità definite e stabili (tipiche le masse puntiformi della meccanica newtoniana). Tali semplificazioni, utili e indispensabili nel loro ambito, non possono tuttavia essere confuse con i processi reali in cui l’azione reciproca è in larga misura costitutiva dei termini stessi che vi sono coinvolti. Il concetto di transazione si applica sia ai processi naturali che si osservano, sia allo stesso osservare e conoscere, che è sempre anche un operare, configurandosi come un concetto-guida nell’indagine scientifica oltre che filosofica.
L’influenza esercitata da D. in campo politico e sociale fu assai rilevante, soprattutto nel periodo fra le guerre mondiali, in cui, dopo le presto deluse simpatie per la rivoluzione sovietica, fu fra i leader dei liberals americani, sostenne l’esigenza di una pianificazione democratica nel campo economico, attuata da una società pluralistica ‘continuamente pianificantesi’ in modo flessibile, anziché rigidamente pianificata dal centro. Ben maggiore fu il suo influsso sul pensiero e la pratica educativa non soltanto in America, ma nel mondo intero. In My pedagogic creed (1887; trad. it. Il mio credo pedagogico), School and society (1899; trad. it. Scuola e società), il già citato Democracy and education ed Experience and education (1938; trad. it. Esperienza ed educazione), D. sviluppava il principio dell’interesse attivo come movente di ogni reale apprendimento, il concetto della scuola intesa come luogo di attività sociali che congloba in sé gli aspetti più significativi dell’ambiente circostante, il «metodo dei problemi» fondato sulla sua concezione dell’indagine. I processi educativi, secondo D., devono tendere non tanto a fare acquisire abilità mentali o espressive, quanto a trasmettere capacità operative idonee a favorire la soddisfazione dei bisogni biologici e psicologici degli individui e a facilitarne un’integrazione nella società democratica.
Biografia