Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Pur appartenendo alla pittura di genere, l’opera di Vermeer non è classificabile unicamente come tale. Un universo luminoso, spoglio, rarefatto, in cui l’azione si annulla, trasfigura l’atmosfera dei dipinti di Vermeer, nonostante permanga un rapporto preciso col reale. Il trattamento della luce, il rapporto esatto dei colori, il rigore formale attingono una tale perfezione da creare immagini pure, dagli equilibri perfetti. Se nella verità degli episodi minuti e degli aneddoti rappresentati Vermeer incarna gli ideali borghesi dell’Olanda del primo Seicento, egli è allo stesso tempo il protagonista di un mondo autonomo, la cui complessità sfugge alle classificazioni.
La formazione a Delft
La città di Delft, nota dalla fine del XVI secolo per le manifatture di arazzi e per la produzione della celebre maiolica bianca a decorazioni azzurre, diviene, nella prima metà del Seicento, centro artistico di notevole rilevanza. Con la nascita delle Sette Province Unite (1579), la committenza protestante e borghese, ripresi i propri poteri, si sostituisce progressivamente all’élite ecclesiastica e aristocratica. Il tono aulico della pittura religiosa e di storia lascia il posto ad una pittura incentrata su temi “minori”, dalla natura morta al ritratto alle scene d’interni. In questa pittura di genere, che coglie l’aspetto quotidiano degli uomini e delle cose, si riflettono i valori morali e l’ideale di vita del ceto mercantile in ascesa.
Quando, tra il 1641 e il 1651, si trasferisce a Delft, il pittore Emanuel de Witte inaugura un genere che rappresenta gli interni di chiese reali o immaginarie. I moti della luce e le minime oscillazioni riflesse sulle pareti interne delle chiese divengono materia di racconto. Egli apre la strada a una pittura fondata sui rapporti tra geometrie architettoniche e geometrie luminose, sugli equilibri tra forme e toni, tra luce interna ed esterna. Una pittura che è apologia del silenzio e stabilisce un rapporto interiore con le cose. A ciò si aggiunge il gusto della descrizione di ambienti borghesi, che trova realizzazione in quadri di piccolo formato.
Poco o nulla si conosce della formazione e degli esordi di Johannes Vermeer e, in genere, dell’attività svolta a Delft. Le guide storiche e dei pittori dell’epoca sembrano ignorarlo, forse perché estraneo ai circuiti convenzionali del commercio e della committenza. A differenza della maggior parte degli artisti olandesi, mobili da un centro all’altro secondo la domanda, egli trascorre tutta la vita a Delft, lavorando per una ristretta cerchia di amatori. Nel 1653 Johannes Vermeer viene ammesso nella gilda di San Luca, la corporazione di pittori e artigiani di cui diverrà presidente nove anni più tardi. Al mestiere di pittore affianca probabilmente quello di mercante d’arte, esercizio che eredita dal padre nel 1655. Solo nel 1668 un contemporaneo, lo stampatore Arnold Bon, menziona Vermeer come “fenice risorta dalle ceneri di Carel Fabritius” (l’allievo di Rembrandt morto nel 1654 nell’esplosione di una polveriera), di cui segue magistralmente le tracce.
Fabritius si era trasferito a Delft nei primi anni Cinquanta, dedicandosi all’approfondimento di effetti prospettici e a trompe-l’oeil, artifici che risulteranno fondamentali nell’esperienza di Vermeer stesso.
I primi lavori (come La mezzana, firmato e datato 1656), con temi realistici e una ricerca dei valori luministici e spaziali, rivelano un avvicinamento ai modi della scuola di Utrecht e in particolare, al suo massimo interprete, Hendrick Ter Brugghen. Da qui la predilezione per il piccolo formato, secondo i modelli del contemporaneo Pieter de Hooch, che dipingeva scene d’interni entro rigorose “scatole prospettiche”.
Il soldato e la fanciulla che ride è uno dei pochi documenti di questa attività giovanile, di cui poco si conosce. I riferimenti a de Hooch sembrano quasi letterali. Diversa però è la strategia del racconto, più semplificata ed essenziale nella visione di Vermeer. La geometria dello spazio viene esaltata dalla luce che, rimbalzando sulle superfici, crea un gioco raffinatissimo di trasparenze e di riflessi.Sulla carta geografica posta sullo sfondo, tratta da un esemplare del celebre stampatore di Amsterdam Nicolas Visscher (noto come Piscator), come sul dettaglio del muro spoglio, sono visibili le iridescenze luminose che si ripercuotono all’interno della stanza. Il motivo della finestra si rivela l’elemento strutturale nella composizione di Vermeer. Essa funge allo stesso tempo da figura geometrica che imposta spazialmente l’ambiente, e da filtro luminoso che regola l’atmosfera interna.
Nella Giovane donna che legge una lettera (acquistato a Parigi nel 1742 per le collezioni reali di Dresda), l’elemento del muro che riflette la luce domina a tutto campo, trasformando una superficie inerte in materia preziosa e vibrante. È il risultato di una tecnica che non passa attraverso la mediazione del disegno, ma è pensata in termini di luce e di colore. Con ogni probabilità l’artista non ricorreva allo studio preparatorio (a tutt’oggi non si conoscono disegni di Vermeer), ma elaborava direttamente le sue immagini per mezzo del colore, secondo un procedimento opposto a quello della tradizione accademica.
La visione di Vermeer non è quindi specchio fedele del visibile, ma si serve di gradazioni luminose e strati di colore per modellare le forme e dare loro consistenza. Questo modo di procedere ha suggerito un’analogia con le teorie della visione di Keplero. Lo scienziato, trattando dei meccanismi della visione, era giunto a concludere che “la retina è dipinta dai raggi colorati delle cose visibili” (Diottrica, 1611). Aveva descritto la visione come il risultato dell’incontro tra i raggi luminosi esterni e l’occhio, che determina la formazione delle immagini sulla retina. Allo stesso modo le immagini luminose e colorate di Vermeer, così lontane da una descrizione oggettiva della realtà, suggeriscono un’affinità con tale processo visivo. È questa la tesi recente della storica dell’arte Svetlana Alpers che definisce “kepleriano” l’atteggiamento del pittore dinnanzi al mondo raffigurato.
I ritratti de Il geografo e de L’astronomo, datato 1668, risentono di questo clima di fervore scientifico che circonda, nelle Province Unite, le discipline dell’ottica e della cartografia. Lo stesso naturalista Antoni van Leeuwenhoek di Delft , che sarà più tardi l’esecutore testamentario di Vermeer, aveva conseguito importanti scoperte scientifiche con l’ausilio del microscopio.
La vocazione cartografica di Vermeer, comune a molti pittori olandesi, viene talvolta smentita, come nel caso dalla celebre Veduta di Delft. Considerata una veduta topografica esemplare, tanto da essere collocata alle origini della fotografia a colori (Kennet Clark), si è rivelata invece, ad uno studio più attento, colma di inesattezze o piuttosto di intenzionali aggiustamenti (A.K. Wheelock, C.J. Kaldenbach).
L’atelier dell’artista e la sua fortuna critica
Fino al 1672, anno in cui i Francesi invadono le Province Unite, lo studio di Vermeer si trovava nella Piazza del Mercato di Delft. La linea alta dell’orizzonte, costante nei suoi quadri, fa supporre che il pittore dipingesse seduto, mettendo in posa il modello nei pressi di una fonte luminosa. Di conseguenza L’arte della pittura, databile tra il 1660 e il 1665, si può leggere quale autoritratto dell’artista nell’atto di dipingere, oltre che come allegoria della storia derivata dall’Iconologia di Cesare Ripa.
È un dato ormai accettato dalla critica che Vermeer, nel rappresentare modelli e ambienti, abbia preso spunto dall’universo domestico che lo circondava, facendo della sua opera una lunga e affascinante serie di variazioni sul tema. Secondo la lettura di André Malraux (1952), i tratti di una stessa figura femminile accompagnano tutta l’opera del pittore. Essi si riconoscono a partire dalla prova giovanile de La mezzana (1656), fino alla più matura Giovane donna in blu, ritratta di profilo nell’intimo riserbo della gravidanza.
La figura femminile è stata identificata dallo scrittore francese con la moglie Catharina Bolnes, da cui l’artista ebbe undici figli.
Nel 1675, anno della sua morte, Vermeer versa in condizioni economiche assai precarie. Viene stilato un inventario dei suoi beni, di cui conosciamo eccezionalmente il catalogo, stanza per stanza. Oltre a un considerevole numero di propri dipinti, il pittore conservava tre opere di Carel Fabritius.
Due anni più tardi, nel 1677, i dipinti censiti nella sua casa vengono acquistati dallo stampatore Abrahamsz Dissius di Delft e in seguito dispersi nell’asta di Amsterdam del 16 maggio 1696. Il catalogo attuale delle opere comprende 31 dipinti (di cui soltanto tre firmati e datati), che sono davvero pochi, se riferiti a un’attività durata almeno un ventennio. Ciò rende ancor più ambigua la cronologia, che è tuttora in discussione.
Al totale silenzio dei contemporanei, che si riflette per tutto il corso del Settecento, corrisponde una inaspettata fortuna ottocentesca, sorta non a caso in ambiente realista francese, fortuna che si trasmetterà a tutto il Novecento. Vale la pena di recuperare le fasi di tale riscoperta critica: essa prende avvio, tra il 1858 e il 1866, dagli studi di Théophile Thoré (pubblicati sotto lo pseudonimo di William Bürger) e prosegue, in ambito letterario, con le letture affascinate di artisti e scrittori, come Théophile Gautier, Marcel Proust, Paul Claudel, André Malraux, per citarne solo alcuni.
Se i fratelli Jules-Alfred ed Edmond Huot de Goncourt colgono le doti dell’artista “maledettamente originale” (Journal, 1861), Van Gogh rimane colpito dalla tavolozza dei blu, giallo limone, grigio perla, bianco e nero, e dal prodigio di luci mobili e brillanti de La lattaia, che egli vede ad Amsterdam nel 1877.
Nel Novecento la leggenda del grande pittore dimenticato diventa episodio narrativo nella Recherche di Marcel Proust. Swann, protagonista del romanzo, si ripromette di portare a termine lo studio sull’artista “appena identificato sotto il nome di Vermeer”.
Più tardi Paul Claudel (L’Oeil écoute, 1946) parlerà del fascino di uno sguardo “puro, spogliato, sterilizzato, privato di ogni materia”, mentre André Malraux dedicherà nel 1952 al maestro di Delft un’importante monografia. Lo studio di John Michael Montias (1989), a carattere storico-sociale, ha fornito in tempi recenti una ricca e documentata indagine dell’ambiente sociale e culturale dell’artista.