Fichte, Johann Gottlieb
Filosofo tedesco, nato a Rammenau, Lusazia sup., nel 1762 e morto a Berlino nel 1814. Non è dato stabilire con sicurezza quando F. abbia iniziato a leggere Machiavelli. Quel che si sa, è che fin dall’inizio del suo soggiorno a Berlino – al più tardi nel 1801 – aveva conosciuto August Ferdinand Bernhardi, cognato di Ludwig Tieck, e stretto con lui un’amicizia che durò tutta la vita; questi, secondo una testimonianza dello stesso figlio di F., stimolava il filosofo a studiare le lingue neolatine, per avere accesso alla poesia (F. si cimentò anche con la traduzione di un canto di Dante). Non bastandogli gli aiuti dell’amico, F. prese regolarmente lezioni private di italiano da un professore di ginnasio, Johann August Zeune, da lui conosciuto verosimilmente in casa del celebre storico svizzero Johannes von Müller – il quale non cessava di lodare M. e Montesquieu. Erano gli anni tra la pace di Lunéville (9 febbr. 1801) e la campagna di Austerlitz (autunno 1805), anni che furono detti ‘alcionii’, cioè di bonaccia, perché tutta l’Europa continentale era in pace. A Berlino l’opinione pubblica era soddisfatta, anche perché la Prussia sembrava essere riconosciuta dalla Francia come una grande potenza: i segni di buona volontà, da una parte e dall’altra, si erano moltiplicati. Le cose cominciarono a cambiare durante la campagna di Austerlitz, quando Napoleone non tenne alcun conto della proposta prussiana di una mediazione tra Francia e Austria, malgrado che, per darle incisività, la Prussia avesse mobilitato l’esercito.
Questo il contesto nel quale F. modificò, in modo sempre più radicale, la sua concezione della politica estera, senza che, almeno inizialmente, il machiavellismo vi avesse influenza. Nel febbraio 1805, in una conferenza del ciclo Lineamenti dell’epoca presente, assumeva come dato di fatto che ogni grande potenza aspirasse alla monarchia universale; tesi che poteva conciliarsi con il cosmopolitismo: anche il mite Christian Garve, in un saggio più volte ristampato Abhandlung über die Verbindung der Moral mit der Politik (1788) aveva visto in questa tensione una forma dell’aspirazione del genere umano a riunificarsi; aveva detto anche (e F. gli faceva eco) che la sola vera patria dell’europeo era l’Europa. Il linguaggio di F. non era però misurato come quello di Garve: nel tempo presente – scriveva – gli Stati, se vogliono mantenersi, devono ingrandirsi: «Chi non va avanti, va indietro […] fino a perdere la sua indipendenza politica» (Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, da qui in poi GA, I, 8, 363). Dovette però passare un certo lasso di tempo perché F. si risolvesse a dare a questi suoi pensieri una diretta applicazione; soltanto nell’estate 1806, di fronte al rapido peggioramento dei rapporti franco-prussiani, egli sentì il bisogno di scrivere qualche cosa che servisse di orientamento al ceto politico: alcuni frammenti dello scritto progettato furono poi verosimilmente inseriti nel saggio su Machiavelli.
Il saggio fu redatto alcuni mesi dopo, a Königs berg. Dopo la disfatta di Jena (14 ott. 1806) e il crollo repentino dello Stato prussiano, F., per testimoniare il suo lealismo, lasciò Berlino e raggiunse la corte che aveva trovato rifugio a Königsberg; qui si trattenne dal 27 novembre 1806 al 13 giugno 1807, frequentando assiduamente Johann Georg Scheffner (1736-1820), già stretto amico e commensale fisso di Immanuel Kant, traduttore di M.; a lui F., il 23 maggio 1807, inviò, per eventuali correzioni, le bozze del suo saggio su Machiavell als Schriftsteller, pubblicato poco dopo in una rivista locale, «Vesta».
Al lavoro F. si era preparato con intense letture. Sono state soltanto di recente pubblicate (1994) le Realbemerkungen bei Machiavell, che contengono nelle prime pagine appunti sulla vita di M., dal saggio introduttivo al primo volume dell’edizione Tanzini (1796-1799); quando stese questi appunti F. doveva avere già letto una parte almeno dei volumi successivi, come si ricava da alcune sue notazioni. La parte maggiore è il riassunto delle Istorie fiorentine, anch’esso accompagnato da proprie osservazioni; ci sono, ancora, quattro pagine di appunti dai capp. xiii-xx del Principe – redatti verosimilmente dopo una seconda o terza lettura; a proposito del cap. xiv si legge «già tradotto»; c’è, in ultimo, la traduzione da Istorie fiorentine IV xxvii, di un passo del discorso di Niccolò da Uzzano, che sconsiglia la prova di forza con Cosimo de’ Medici. Le Realbemerkungen si chiudono con un curioso Wörterbuch zu Machiavelli, ove si trovano non soltanto traduzioni di parole che a F. erano risultate incomprensibili, ma anche rimandi al vocabolario della Crusca. L’impegno profuso in questi appunti ha fatto ritenere ai curatori dell’edizione critica che F. avesse cominciato a stenderli già a Berlino; si può aggiungere che la lettura diretta di M. deve averlo tanto coinvolto da volerlo conoscere approfonditamente, anche prima che le circostanze – la necessità di contribuire con uno scritto a una rivista patriottica di cui era il più autorevole collaboratore – lo inducessero a scrivere un saggio su M., che gli sarebbe servito anche per manifestare il suo giudizio sulla politica contemporanea.
Sarebbe però fuorviante ritenere che, affascinato da M., F. intendesse farsi suo portavoce in Germania. La Germania divisa, e incapace di organizzare una comune resistenza agli stranieri, richiamava a molti, e anche a lui, la situazione dell’Italia dopo il 1494. Vi era, però, una differenza fondamentale, che il filosofo non manca di mettere in evidenza. Tra l’età di M. e la sua vi erano state le due rivoluzioni fondate sui diritti degli uomini, quella americana e quella francese, e, inoltre, la filosofia di Kant, della quale F. si considerava l’unico continuatore; era passata l’epoca delle personalità ‘prometeiche’, perché era maturata una cultura ‘scientifica’ (cioè filosofica) in grado di dirigere secondo ragione i comportamenti, anche quelli politici. Era dalla prospettiva di questa cultura che andava valutata la politica egemonica di Napoleone, che non rappresentava soltanto un’espansione territoriale, ma la pretesa del dominio assoluto di un uomo. Nello scritto contro Friedrich Schelling, F. aveva prospettato la minaccia di un crollo «della civiltà cui l’umanità attraverso millenni era giunta», commentando: «Questa situazione politica è derivata esclusivamente dallo stato della nostra letteratura» (GA, II, 10, 41), termine, quest’ultimo, sinonimo di cultura degli intellettuali. Per F. la separazione tra politica e cultura era deleteria. Traducendo alcune righe della dedica Ad magnificum Laurentium Medicem, ove M., quasi a giustificare il suo scritto, diceva che «a conoscere bene [la natura] de’ principi, bisogna essere populari», F. commentava che quel tono dimesso era divenuto inappropriato: ciò che dà diritto a governare è un’intelligenza robusta ed esercitata, che si acquisisce soltanto «con lo studio approfondito delle scienze»; tanto più che la ‘scienza’ abitua a guardare al di là della contingenza e a sentirsi legati «per la vita e per la morte» «alla causa giusta» (GA, I, 9, 250). Qui F. allude ai consiglieri del principe, anzi, ai ministri; si sa che una figura sulla quale tornò più volte è quella del ‘dotto’, che talvolta compare come maestro di scienza e di morale, e altre volte come investito quasi di autorità sacerdotale, che lo abilita a governare; nella crisi del 1807, a queste funzioni si aggiunse quella dell’ideologo (F. si era offerto di diventare una sorta di cappellano del comando supremo) e del propagandista: al «male che incede in forma rivoluzionaria» (GA, II, 10, 73) occorre contrapporre una «disposizione d’animo rivoluzionaria», a suscitare la quale sono necessari oratori politici (Staatsredner), che parlino sia alle truppe sia al popolo; da M. il filosofo poteva ricavare molti esempi di orazioni, ma il contesto è molto diverso.
F., dunque, si accosta a M. partendo da una propria valutazione del ‘tempo presente’. Ed è caratteristico che, nelle Realbemerkungen, si sforzi di individuare l’esatta posizione politica di M. attraverso i giudizi che questi aveva espresso nelle Istorie fiorentine; non gli basta, insomma, l’immagine del M. repubblicano. Una prima considerazione gli è ispirata dalla chiusa del libro III, ove M. poneva nel 1434 la «rovina di quello stato»; ricordando che era l’anno del ritorno di Cosimo, F. commenta: «Da quella data egli [M.] data dunque la caduta della repubblica». Sarebbe stato, allora, del partito dei popolari; ma di ciò dubita subito dopo, leggendo l’esordio del libro IV, ove si dice che per i «popolani» libertà significa licenza. All’apparente contraddizione, F. trova una soluzione là dove M. espone le proposte di Rinaldo degli Albizzi e di Niccolò da Uzzano, i suoi ‘eroi’, di reprimere l’insolenza della plebe con l’appoggio dei grandi: «Qui si manifesta a quale partito Machiavelli appartiene» (GA, II, 10, 333) – quello dei «nobili popolani» (GA, I, 9, 229). Un’ulteriore prova F. la ricava dalla pagina delle Istorie fiorentine (IV xxxiii), ove egli legge una deplorazione, da parte di M., del gran numero di esili comminati agli avversari di Cosimo prima del suo ritorno trionfale: il commento è: «Machiavelli deplora tutto questo!!!» (GA, II, 10, 340).
Riserve nei confronti di M. sono presenti anche nelle sommarie annotazioni sul Principe; nel cap. xv, F. trova una «gran confusione»; a proposito del cap. xvii, contesta che il principe debba scegliere tra essere temuto o amato; «Va’ per la tua strada; è impossibile legare a sé gli uomini con l’amore» (GA, II, 10, 362); la seconda parte della sentenza è del tutto machiavelliana; la prima, è una formulazione popolare dell’imperativo categorico; nello stesso spirito, le righe sul cap. xviii: F. approva la massima che il ‘signore prudente’ non deve osservare la fede quando sono venuti meno i motivi che lo avevano indotto a prendere l’impegno, ma valuta tutto il resto ‘ipocrisia’.
Il saggio Über Machiavell, als Schriftsteller, und Stellen aus seinen Schriften si divide in tre parti: Introduzione (a sua volta divisa in 5 capitoletti); Passi dagli scritti di M., accompagnati da ‘poscritti’ (Zusätze) di F.; una brevissima Conclusione. Nell’esordio, F. dichiara il suo proposito: liberare il ‘nobile fiorentino’ da accuse e calunnie, e dargli «onorata sepoltura» (l’espressione è caratteristicamente ambigua); come già si è visto, e come si vedrà, F. ritiene che una parte soltanto degli insegnamenti di M. sia ancora valida; il Segretario fiorentino è lodato per il suo senso realistico, per essere stato uno spirito libero, e uno scrittore sincero, ma «le concezioni superiori della vita umana e dello Stato, quelle che si ricavano dalla ragione, sono del tutto estranee alla sua prospettiva» (GA, I, 9, 224); nel che egli condivideva la ‘colpa’ del suo tempo. Il termine ‘colpa’ non è adoperato a caso. L’età moderna che, ad avviso di F., si avviava alla conclusione, era quella della «piena peccaminosità» (GA, I, 8, 201), ossia il momento della massima lontananza sia dall’innocenza originaria, sia dal regno della ragione. Ora, M. aveva compreso il suo tempo, constatava il male, voleva limitare almeno quello privo di scopo: «Egli non dice: sii un usurpatore», ma «una volta che tu lo sia», fai tutto il necessario per conservare il potere, «onde un nuovo usurpatore non disturbi la pace e commetta altre malvagità» (GA, I, 9, 227). Qui c’è verosimilmente la ripresa di una considerazione di Johann Gottfried Herder (Briefe zur Beförderung der Humanität, 5. Sammlung, 1795, n. 58). Dunque «la consequenzialità, e la capacità di penetrare le cose, che Machiavelli esige dal principe, e inoltre ciò che egli non esige, amore per la verità e sincerità, questi i tratti fondamentali del Machiavelli scrittore» (GA, I, 9, 227). Quanto al M. politico, F. tira il succo dalle considerazioni già fatte nelle Realbemerkungen: M. non ha saputo spiegare perché il partito per il quale simpatizzava avesse perso il potere, «proprio qui dimentica di applicare il suo metodo»; se lo avesse fatto, avrebbe dovuto dire che Firenze, benché Repubblica, era uno Stato estremamente corrotto, che poteva essere corretto solamente «dal potere illimitato di uno solo». Continuò, invece, a proporre ordinamenti repubblicani, e soltanto la sua personale disgrazia gli fece intuire che il vero problema non era Firenze, ma «l’Italia intera», che avrebbe dovuto essere unificata da un signore italiano. «Questa fu la spinta a comporre il suo libro De principatibus, e il commovente appello a liberare l’Italia, con cui il libro si conclude» (GA, I, 9, 230).
La caratterizzazione del personaggio M. è arricchita da una considerazione sul suo ‘paganesimo’; in un’epoca nella quale anche gli ecclesiastici avevano perduto il «sentimento del sovrasensibile», era inevitabile che «uomini duri e tutti di un pezzo [...] odiassero» il cristianesimo, come ciò che con le vuote promesse di un’altra vita distoglieva dall’immergersi in quella presente: di qui «la mentalità prometeica, il paganesimo moderno» (GA, I, 9, 231); oltre che agli uomini del Rinascimento, F. pensava verosimilmente anche a Goethe. Non si può negare, questa la conclusione, che M. fosse un nemico del cristianesimo; occorre però comprenderne il perché. Il capitoletto dedicato agli scritti di M. offre l’occasione di ripresentarne la tesi, parlando dell’Arte della guerra, che sono le fanterie a decidere i conflitti; ed è qui trasparente il riferimento all’attualità: l’arte militare contemporanea «soprattutto quella del popolo finora vittorioso», «si affida interamente alla artiglieria»; ma se sorgesse «come dalla terra» un esercito che la affronti senza timore, chi lo comanda potrebbe «dare all’Europa quella configurazione che egli consideri giusta» (GA, I, 9, 236). F. aveva in mente le lodi che, in quell’opera, M. aveva rivolto a ‘tedeschi’ e ‘svizzeri’, che non erano mai stati «sbigottiti dalle artiglierie»; e forse anche il penultimo volume delle Geschichten Schweizerischer Eidgenossenschaft che Johannes von Müller gli aveva mandato in dono pochi mesi prima. Queste considerazioni di F. sembrarono stravaganti, ma erano ispirate dalla constatazione che gli eserciti professionali delle varie coalizioni si erano mostrati incapaci di sconfiggere Napoleone e che occorreva pensare a una guerra ‘di popolo’.
Nell’esordio del capitoletto sulla ‘applicabilità’ della politica di M. al mondo attuale, si legge che l’assioma della politica di M., «e, aggiungiamo, senza falsi scrupoli, anche della nostra» (GA, I, 9, 239), è il presupposto della potenziale malvagità degli uomini. Qui sembra che la coincidenza sia, tra i due pensatori, totale. Eppure lo Stato fichtiano, «istituzione costrittiva», ha la funzione di garantire la sicurezza dei diritti dei cittadini anche da una potenziale lesione; la malvagità degli uomini è un presupposto teorico, non una constatazione. Tanto che F., mascherando in parte il suo vero pensiero, si affretta a precisare che quella concezione vale soltanto là dove il popolo è ribelle alle leggi (e pertanto adeguata all’epoca di M.), ma non là dove regna la ‘pace’ tra il principe e il popolo, come «nella nostra epoca».
Quel principio, invece, resta valido «per ciò che concerne i rapporti con gli altri Stati», il che è confermato non solamente dall’esperienza, ma anche da «una filosofia che vede più in profondità» (GA, I, 9, 240). F. si riferisce qui alla sua propria concezione dell’ordine internazionale, un sistema di Stati autosufficienti e compatti dal punto di vista territoriale ed etnico; alcuni popoli si erano avvicinati ‘casualmente’ a quel modello, altri, che ne erano ancora lontani (i tedeschi), avevano il diritto di costituirsi in Stato, con tutti i mezzi; il ceto politico prussiano non lo aveva capito, ed è per metterne in luce la fiacchezza che F. enuncia alcune ‘regole’: tenere presente che il vicino, anche se mostra di considerarti suo alleato contro una potenza rivale di entrambi (l’alleanza franco-prussiana dopo Austerlitz), è sempre pronto a ingrandirsi a tue spese; non basta la certezza di poter difendere il proprio territorio, disinteressandosi degli ingrandimenti degli altri – ciò finisce per significare «non voglio avere niente, e non voglio neppure esistere» (GA, I, 9, 242); non lasciarsi abbagliare dalle garanzie, e accettarle soltanto se si è costretti a guadagnare tempo (il dibattito sulle garanzie da ottenere dalla Francia occupò i circoli politici prussiani sin quasi alla vigilia della guerra dell’autunno 1806). E qui un passo che è necessario citare, per attribuire una datazione almeno a questa parte del capitolo:
Una difesa coraggiosa può compensare l’insuccesso e, se cadi, cadi almeno con onore. Ma quel vile cedimento [accontentarsi di garanzie] non ti salva dalla rovina […]. Da un simile comportamento derivano quelle paci che non ti danno nemmeno la pace, in quanto lasciano al nemico, una volta conclusa la pace, la piena potestà di proseguire i suoi piani, la cui realizzazione egli aveva interrotto prima della guerra, che gli impose un momento di tregua – col che noi gli abbiamo fatto un favore che lui non fa a noi (GA, I, 9, 243).
Il tono è di chi vuol mettere in guardia da un tragico errore, non di chi valuta l’accaduto; si può ritenere che questo passo sia stato scritto, insieme ad altri, nel settembre 1806 e poi utilizzato nella composizione del saggio nell’aprile 1807.
Dopo le ‘regole’, l’ammonimento al principe, che non ha il diritto di giustificare la propria inerzia invocando l’onestà e la buona fede; ciò è lecito al privato, che danneggia solamente sé stesso, ma non al principe, che non ha il diritto di lasciar «trascinare nel fango la nazione». Il principe è vincolato nella sua vita privata dalle leggi morali, nei suoi rapporti con i sudditi dalle leggi civili, ma «rispetto agli altri Stati, non c’è legge, l’unico diritto è quello del più forte» e «la divina maestà del caso e del governo divino del mondo depone [i rapporti internazionali] nelle mani e nella responsabilità del principe, e lo pone […] in un ordine etico più alto» (GA, I, 9, 245) – quello dell’operare per il bene dello Stato. Questo il messaggio di M. che, applicato all’epoca presente, insegna a non intendere in maniera ‘unilaterale’ i diritti dell’uomo – i quali trovano il loro limite «nei principii eterni e irremovibili di tutti gli ordinamenti statali» (GA, I, 9, 245). Segue immediatamente, in apertura della scelta di passi di M., la parziale traduzione della Exhortatio ad capessendam Italiam, e l’accostamento è retoricamente assai efficace – la liberazione e l’unificazione della patria come i più urgenti doveri del principe.
Dei ‘poscritti’ agli altri passi tradotti, alcuni soltanto meritano menzione; riguardo al cap. xxv del Principe, là dove M. aveva diviso a metà, tra fortuna e iniziativa, il merito del buon esito di un’azione, F. è drastico: l’onore più grande che si possa rendere a Dio è ritenere che egli abbia ordinato il mondo in modo «che noi stessi siamo artefici della nostra sorte»; e, più energicamente ancora: l’uomo non può niente senza Dio, ma «operi come se non ci fosse un Dio che possa aiutarlo, e che egli solo debba fare tutto» (GA, I, 9, 267). I poscritti ai capp. xxi e xxii – dedicati alla neutralità armata e alle qualità che devono avere i ministri – risalgono verosimilmente allo scritto che F. aveva iniziato prima della guerra; infatti di quei temi, dopo la disfatta e i cambiamenti ai vertici dello Stato, non avrebbe avuto senso scrivere in quel modo.
Il saggio fu certamente redatto nell’aprile 1807; probabilmente, come accennato, F. utilizzò pagine scritte mesi prima, il cui messaggio gli pareva però ancora attuale; una frase di esse si trova in una sua lettera del 17 aprile. Riteneva di conoscere così bene M. da criticare alcuni luoghi dell’Introduzione di Tanzini all’edizione 1796; deplorò che La vita di Castruccio Castracani e il Modo che tenne il duca Valentino non fossero state, in quella edizione, inserite subito dopo il Principe, del quale egli le riteneva ‘supplementi’; meglio avevano fatto le ‘vecchie edizioni’; lodò la Mandragola, ponendola più in alto delle commedie di Molière. Non citò la traduzione francese di Toussaint Guiraudet (1788), ma Giuliano Procacci ha segnalato una vicinanza a lui, nella lettura ‘patriottica’ di M. (Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, 1995, p. 372).
Dopo questo appassionamento, M. sparì completamente dall’orizzonte fichtiano; secondo quanto ricordò il figlio, l’autore che F. leggeva, e declamava, mentre redigeva i Reden an die deutsche Nation (dic. 1807 - marzo 1808), era Tacito, non M.; eppure, nelle prime pagine dell’edizione dei Reden, vi sono due passi del saggio su M. – inseriti, dichiaratamente, in sostituzione di frasi soppresse dalla censura.
Il Machiavelli scrittore, anche per la scarsa circolazione della rivista (che cessò le pubblicazioni con il terzo numero), non ebbe grande risonanza; andò però per le mani dei ‘patrioti’. Un passo (senza la citazione dell’autore) venne inserito in un memoriale del ministro Karl Altenstein (1807); Carl von Clausewitz, allora giovane capitano, inviò nel 1809 una calorosa lettera a F., nella quale si esprimeva però dissenso sulla sottovalutazione dell’artiglieria e sulla praticabilità dell’arte della guerra di Machiavelli. Il Machiavelli scrittore fu ristampato, nel 1813, nel secondo fascicolo della rivista «Die Musen» diretta da Friedrich Fouqué; il testo non fu riprodotto integralmente. Fu questa seconda stampa a venire inserita nel corpus degli scritti postumi curato dal figlio (Nach gelassene Werke, 3° vol., 1835). Lo scritto, che continuò a non suscitare particolare interesse, ebbe attualità, invece, durante la Prima guerra mondiale: fu ristampato, autonomamente da due diversi editori, nel 1917; la prima edizione critica (1918) si deve a Hans Schulz. L’edizione critica che si può considerare definitiva è del 1995, nella Gesamtausgabe diretta da Reinhard Lauth e Hans Gliwitzky.
Bibliografia: Realbemerkungen bei Machiavell, in Gesamtaus gabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, II, 10, Stuttgart-Bad Cannstatt, 1994, pp. 305-69; Über Machiavell, als Schriftsteller, und Stellen aus seinen Schriften, in Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, I, 9, Stuttgart-Bad Cannstatt, 1995, pp. 223-75. Per le traduzioni italiane del saggio: A. Buoso, Il Machiavelli nel concetto del Fichte con in appendice la traduzione del saggio fichtiano Su Machiavelli scrittore, Portogruaro 1920, pp. IXLII; N. Machiavelli, Il Principe, a cura di G.F. Berardi, Roma 1984, pp. 121-58; J.G. Fichte, Sul Principe di Machiavelli, a cura di G.F. Frigo, Ferrara 1990 (reca anche la trad. della lettera di C. von Clausewitz).
Per gli studi critici si vedano: F. Meinecke, Weltbürgertum und Nationalstaat, München-Berlin 1908, pp. 95-110 (trad. it. Perugia-Firenze 1930, pp. 95-110); M.E. Elkan, Die Entdeckung Machiavellis in Deutschland im 19. Jahrhundert, «Historische Zeitschrift», 1919, 119, pp. 427-58; F. Meinecke, Die Idee der Staats räson in der neueren Geschichte, München 1924, poi 1957, pp. 434-41 (trad. it. Firenze 1944, pp. 235-43); X. Léon, Fichte et son temps, 2° vol., Paris 1927, pp. 20-34; H. Freyer, Über Fichtes Machiavelli-Aufsatz, Leipzig 1936; G. Silvano, Fichte e Machiavelli nella Prussia napoleonica, «Critica storica», 1984, 21, pp. 177-95; D. Moggach, Fichte’s engagement with Machiavelli, «History of political thought», 1993, pp. 573-89; E. Fuchs, Spuren fichteschen Denkens in der deutschen Nationalbewegung, «Sitzungsberichte der Österreichischen Akademie der Wissenschaften», 1996, 632, pp. 201-35; Fichte lecteur de Machiavelli, hrsg. I. Radrizzani, Basel 2006; M. Rampazzo Bazzan, Unter der Konjunktur denken. Fichtes Auseinandersetzung mit Machiavelli, «Fichte-Studien», 2012, 40, pp. 87-107.