JIMÈNEZ DE CISNEROS, Francisco
Di famiglia nobile, ma priva di mezzi, nacque in Torrelaguna (Madrid) nel 1436. Studiò in Alcalá e in Salamanca e divenne baccelliere in diritto canonico; nel 1449 si recò a Roma, e vi fu impiegato nei tribunali ecclesiastici sino al 1465, quando ritornò in Spagna. In patria ebbe subito modo di provare la sua tempra di lottatore nella contesa da lui ingaggiata con l'arcivescovo di Toledo, Alonso Carrillo de Arcuña, che, rifiutando di affidargli alcune cariche ecclesiastiche vacanti in Uceda, che già erano state concesse al J. per ordine del papa, lo tenne in carcere per. più anni. Poi la fortuna gli arrise quando l'allora vescovo Mendoza, il futuro consigliere d' Isabella la Cattolica, lo prese a proteggere, nominandolo cappellano maggiore della cattedrale di Sigüenza e quindi vicario generale. In seguito, nel 1484, vestì in Toledo l'abito dei francescani, mutando in Francisco il suo nome di Gonzalo; e visse più anni, tutto dominato dalla passione religiosa, nei conventi del Castañar e di Salcedo. Finalmente, a cinquantasei anni, fece il suo ingresso nella vita politica. Infatti, fattasi vacante la carica di confessore della regina, per consiglio del Mendoza, Isabella, nonostante il suo rifiuto, gli affidò il delicato ufficio, che dava all'investito mansioni di vero e proprio consigliere della sovrana. E poi, sempre per indicazione del Mendoza, che lo propose per suo successore, alla morte di questo ultimo (1495) lo volle nominato arcivescovo di Toledo. Questa volta anche più reciso fu il rifiuto opposto dal J., contrario ad accettare qualsiasi ufficio che potesse distrarlo dalla sua vita di rinunzie: piegò alle insistenze della regina e agli ordini del papa soltanto dopo sei mesi (11 ottobre 1495), ma anche dopo, per più tempo, volle vivere secondo la sua regola. Nel 1507 Giulio II lo creò cardinale.
L'ardente fede che lo animava gli fu di sprone e di guida quando gli furono affidati importantissimi compiti politici, che egli accettò, ormai a tarda età, quasi come missione, rivelando un intuito di statista veramente eccezionale, generato in lui della sua intensa umanità, e una ferrea intransigenza legata alla sua passione religiosa, che se talvolta lo rese intemperante, come quando ordinò che fossero bruciati tutti i manoscritti arabi di Granata a eccezione di quelli di scienze mediche, lo costrinse anche a imporre, in tempi di lotte particolaristiche, nella vita politica il suo stesso spirito di sacrificio, anche con mezzi energici e brutali.
Come arcivescovo, molto si preoccupò per ricondurre l'unità fra i francescani, per restaurare l'ordine e la disciplina gerarchica fra il clero della sua diocesi, anticipando così l'opera della Controriforma per diffondere l'istruzione: opere sue furono la redazione e la stampa a sue spese della Bibbia poliglotta, per la quale ottenne la collaborazione dei più grandi dotti europei del tempo e di papa Leone X e che condusse a termine, dopo aver superato gravissime difficoltà, anche materiali, negli ultimi giorni della sua vita; e la fondazione dell'università di Alcalá, creata con larghezza di vedute e di mezzi, costituente una vera città nella città per la ricchezza di scuole, di collegi, d'istituti. Come sostenitore della fede in Spagna, molto si adoperò per la conquista al cattolicesimo dei Mori di Granata, che volle battezzare in gran numero con le sue mani; e, rinnovando nell'Europa del Rinascimento l'età delle crociate, si distinse nelle guerre nell'Africa maomettana, facendosene anche iniziatore e non disdegnando di prendere egli stesso le armi. Infatti, nel 1505 aiutò la campagna militare di quell'anno che portò alla conquista di Mazalquivir; nel dicembre 1508 riuscì a indurre re Ferdinando a tentare nuovamente la sorte, assumendo l'impegno di sostenere con le sue forze le spese della spedizione, e il 16 maggio dell'anno seguente, ormai settantenne, alla testa delle truppe comandate dal conte Pedro Navarro, da Cartagena mosse contro Orano, che poco dopo cadde in suo potere. Alla morte di Filippo di Castiglia (1506) mentre Ferdinando era in Italia, aveva assunto la reggenza dello stato; e in attesa del ritorno del monarca aragonese, da lui subito richiamato, ne difese i diritti contro le opposizioni dei grandi, che dominò con un forte contingente di truppe subito armate: il sovrano in ricompensa lo nominò allora inquisitore generale e gli ottenne il cappello cardinalizio. Ma il suo genio politico rifulse quando, alla morte di Ferdinando, fu di nuovo incaricato della reggenza dello stato. Si trattava di salvare l'eredità lasciata dai re Cattolici, minacciata all'interno e all'estero, e specialmente di conservare l'unità allo stato e di preparare la venuta del nuovo sovrano Carlo I, al quale sembrava opporsi lo stesso suo fratello Ferdinando, nato in Spagna. Contrario alle leve e agli allistamenti di gente raccogliticcia, organizzò una vera e propria milizia nazionale con la Gente de ordenanza che sotto di lui fu elemento d'ordine; rinnovò le autorità amministrative locali con competenti; riordinò la finanza rivêlando tanta competenza da guadagnare giustamente la riputazione di conoscitore profondo della materia, tenne testa ai numerosi tentativi compiuti dai Fiamminghi per impossessarsi del potere; frenò le opposizioni della nobiltà che invano macchinò contro di lui, imponendosi a casa d'Alba, sostenendo la tesi della sottomissione alla corona dei tre ordini militari, risolvendo d'autorità la questione del ducato di Medina-Sidonia; soffocò la rivolta in Malaga, in Valladolid, in Burgos, in León, in Salamanca, in Villafrades, e contemporaneamente facilitò il compito ad Alfonso d'Aragona, dal padre lasciato reggente in Aragona; energicamente represse i tentativi compiuti dagli Albret per restaurare il loro potere in Navarra; fece tutto il possibile per impedire i successi delle armi musulmane, comandate da Barbarossa; sorvegliò la politica e i tentativi di Pedro Navarro, allorché questi tradì la patria, continuando la politica estera di re Ferdinando verso la Francia e l'Inghilterra e difendendo il frutto delle sue conquiste in Italia. All'arrivo di Carlo in Spagna (19 settembre 1517) il J. era infermo nel convento dell'Aguilera; e amari furono gli ultimi giorni della sua vita per l'ingratitudine mostrata dal principe, il quale, appena giunto, s'affrettò a esonerarlo dal governo. Morì l'8 novembre 1517 in Roa.
Bibl.: Cartas del cardenal C. a D. Diego López de Ayala, Madrid 1867; Cartas de los secretarios del cardenal C. durante su regencia, Madrid 1875; K. Hefele, Der cardinal Ximenes, Tubinga 1844; J. Lyell, Cardinal Ximenes, Londra 1917; e specialmente Conde de Cedillo, El cardenal C. gobernador del reino, Madrid 1921. Per altre indicazioni bibliografiche cfr. B. Sánchez Alonso, Fuentes de la historia espanola e hispanoamericana, Madrid 1927.