Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’opera teatrale di Jean Racine fiorisce nella già splendida e matura civiltà francese del Seicento, ma il genio di questo grande drammaturgo ha saputo fondere, con insuperata armonia poetica, l’esplorazione delle pieghe più profonde dell’animo umano e delle sue passioni più laceranti con il senso della grande tragedia greca, cui si adegua mirabilmente la severa e impietosa educazione giansenista di un Dio muto e terribile.
Le opere poetiche
Già dalle prime prove poetiche del giovane Jean Racine (1639-1699), come il gruppo di odi intitolato Il paesaggio o le passeggiate di Port-Royal des Champs (1657) e il poemetto La ninfa della Senna (1660), è possibile intravedere gli sviluppi letterari e i segni di un destino illuminato dalla poesia, che approderà nel 1694 alla forza innografica dei Cantici spirituali, e dalla fascinazione del teatro.
L’educazione giansenista introduce nel giovane Racine la coscienza del tragico, di una fatalità che non ammette modificazioni all’esito finale delle vicende umane e alla salvezza dell’uomo. Ognuno porta con sé il segno misterioso di una colpa o la promessa di una redenzione. L’adesione travagliata al giansenismo imprime nell’acuta e delicata intelligenza del giovane Racine l’idea dolorosa e radicale della miseria dell’uomo e della sua inappellabile condanna.
Le prime tragedie
I primi lavori teatrali, ancora privi delle grandi introspezioni psicologiche che caratterizzeranno le opere della maturità, risentono, sia pure in modo non pedissequo, di schemi corneliani e di certe modulazioni di Jean de Rotrou.
All’unico testo comico del drammaturgo francese, I litiganti (1668) in cui si sente aleggiare l’ombra di Molière, segue la tragedia Andromaca (1667) in cui si delineano interamente le disposizioni poetiche e sentimentali di Racine. Con quest’opera egli mette a fuoco il regno delle passioni e la ricerca della verità dell’anima. Su uno sfondo eroico si consuma il dramma e la sofferenza di una donna. Non è più la magniloquenza stoica e feudale di Pierre Corneille, ma la passione introversa del cuore infelice.
Dopo il successo, non senza contrasti, di Andromaca, la rivalità tra Racine e Corneille si fa più aspra. Se Andromaca era stata elogiata da un corneliano come Saint Evremond, con Berenice, rappresentata nel 1670, Racine si contrappone in modo decisivo a Corneille, il quale, a sua volta, fa rappresentare quasi contemporaneamente alla tragedia di Racine una commedia eroica dal titolo Tito e Berenice.
Jean Racine
Oreste in predo al delirio
Andromaca, Atto V, scene 4-5
Scena 4 - ORESTE solo
ORESTE: Che vedo? Ermione? Che ho inteso? Per chi scorre il sangue che ho versato? Sono, a darle ascolto, un traditore, un assassino. È Pirro che è morto? Ed io sono infine Oreste? Come? soffoco in me la ragione che m’illumina; assassino, con dolore, un re che riverisco; violo in un sol giorno i diritti dei re, degli ambasciatori, degli uomini, perfino quelli degli altari dove il mio furore lo assedia: divento parricida, assassino, sacrilego. Per chi? Per un’ingrata, a cui l’ho promesso; che, anzi s’egli non muore, non acconsentirà più a vedermi; di cui adotto la rabbia. E quando l’ho servita, mi richiede il suo sangue, la sua vita. Lo ama! e io sono un mostro furioso! La vedo allontanarsi per sempre dai miei occhi! E l’ingrata, fuggendo, mi lascia per mercede i nomi odiosi che ho meritati per piacerle!
5 - ORESTE, PILADE e soldati di Oreste
PILADE: Dobbiamo partire, Signore. Usciamo dalla reggia, o decidiamoci a non uscirne più. I nostri Greci per un momento ne difendono le porte. Tutto il popolo riunito c’insegue a mano armata. Tutto è sottoposto agli ordini di Andromaca; la trattano da regina, e noi da nemici. Andromaca stessa, così avversa a Pirro, gli rende tutti i doveri d’una vedova fedele, ordina che sia vendicato, e forse vuol vendicare su noi anche Troia e il primo marito. Orsù! Non aspettiamo d’essere circondati: i nostri Greci ci raggiungeranno; e, mentre il popolo è ancora occupato di Ermione, ecco la nostra strada, mettiamoci in salvo.
ORESTE: No, no, amici, debbo seguire Ermione. Non posso sopravvivere alla sua ultima sentenza. Partite: io ho commessa la colpa, ed io la espierò.
PILADE: Ermione, Signore? Dovete dimenticarla. Come? Sempre strumento ed oggetto del suo furore, cercate nuovi oltraggi perfino tra i morti? E perché essa muore, dovete morir voi?
ORESTE: Muore? Dei! che sento?
PILADE: Come? lo ignoravate? Rientrando nella reggia l’abbiamo incontrata che correva verso il tempio inquieta, smarrita. Ha trovato Pirro portato a braccia da soldati eccitati dal suo sangue a vendicarlo. Senza dubbio, a vederlo, il suo sdegno s’è commosso; dall’alto della porta l’abbiamo vista chinarsi su Pirro stringendo un pugnale, levare gli occhi al cielo, colpirsi e cadere.
ORESTE: Vi ringrazio, Dei! La mia sventura supera le mie speranze. Sì, ti lodo, cielo, della tua perseveranza. Intento a punirmi senza tregua, m’hai fatto pervenire al colmo del dolore. Il tuo odio s’è compiaciuto nel formar la mia miseria; ero nato per fornire un esempio della tua ira, per essere un modello della sventura. Ebbene! muoio contento, e il mio destino è compiuto. Dove sono i due amanti? Perché la mia gioia sia perfetta debbo immergermi nel loro sangue e nel mio; morendo, voglio contemplare l’uno e l’altra. Riuniamo questi tre cuori che non si son potuti accordare. Ma quale fitta notte m’avvolge all’improvviso? Di dove uscire? Perché rabbrividisco? Quale orrore s’impadronisce di me? Grazie al cielo, intravvedo. Dei! quali fiumi di sangue mi scorrono intorno!
PILADE: Ah! Signore!
ORESTE: Come? Pirro, t’incontro di nuovo? ti troverò dappertutto, rivale aborrito? Trapassato da tanti colpi, come ti sei salvato? Guarda, guarda, ecco il colpo che t’ho riserbato. Ma che vedo? Ermione lo abbraccia sotto i miei occhi? Viene a strapparlo al colpo che lo minaccia? Dei! che orribili sguardi getta su di me! Quali demoni, quali serpenti si trae dietro? Ebbene! Furie, figlie dell’inferno, siete pronte? Per chi sono i serpenti che fischiano sulle vostre teste? A chi è destinato il corteo che vi segue? Venite forse a rapirmi nella notte eterna? Venite pure, Oreste s’abbandona ai vostri furori. Ma no, ritiratevi, lasciate fare ad Ermione: l’ingrata meglio di voi saprà dilaniarmi; le porto finalmente a lacerare il mio cuore.
PILADE: Vaneggia. Amici, il tempo stringe: approfittiamo del suo delirio. Salviamolo. I nostri sforzi sarebbero impotenti se col suo furore ricuperasse qui il senno.
J. Racine, Teatro, a cura di M. Ortiz, Firenze, Sansoni, 1963
Il successo va tutto a favore della Berenice di Racine, che viene riconosciuta come tragedia esemplare, e che ha nello stile, più che nell’esile trama, la sua forza e la sua grandezza. È uno stile intessuto di reticenze, accenni e silenzi, che traducono una vicenda interiore, ma anche il dramma della rinuncia e della necessità etico-politica della ragion di Stato.
Nel 1669 Racine porta in scena il Britannico, straordinaria tragedia storica, in cui le fosche tinte tacitiane si riverberano nei movimenti interiori dei personaggi. La maestria stilistica di Racine rende Nerone, Burro, Agrippina, Britannico complessi e allo stesso tempo lucidi protagonisti di una verità storica che si approfondisce nei contrasti fra elementi contrari. La dolcezza e la ferocia si contendono la scena, ma è quest’ultima a occupare costantemente la scena nei volti speculari di Nerone e Agrippina.
Fedra
Nel 1677, l’anno in cui viene rappresentato uno dei suoi capolavori, Fedra, Racine si ritira dal teatro. Le motivazioni del suo ritiro sono da ricercare anche in un altro duello teatrale cui egli deve sottoporsi, quello con Pradon, autore di una tragedia Fedra e Ippolito, e profondamente ostile a Racine.
Pradon sembra avere la meglio per l’affluenza e il consenso del pubblico, ma il suo successo resta effimero. La forza della tragedia raciniana s’impone alla fine irresistibile come la voce suprema della sua protagonista. Ma le polemiche che scaturiscono da queste vicende amareggiano così profondamente Racine da indurlo a uscire di scena, a non scrivere più per il teatro.
Fedra, tuttavia, resta insieme ad Atalia l’opera più alta del drammaturgo francese. Racine riesce a penetrare nelle ombre di un mito remoto con una intelligenza spietata, tanto da far trasparire in modo audace e quasi crudele la natura incestuosa dell’amore di Fedra per Ippolito.
Allo stesso modo Racine si dimostra acutissimo nella resa poetica e nella coscienza tragica dell’impossibilità di vincere il male, che animano il dramma.
Le modulazioni del verso lo rendono duttile e fermo allo stesso tempo, plastico e rigoroso, in accordo con il concerto ritmico dello spartito tragico. L’armonia non si stempera mai nell’enfasi, una misura cristallina forma l’esplosione dei sentimenti e la tragedia tremenda di un amore assoluto, condannato al nichilismo di un dolore senza redenzione.
La straordinaria abilità teatrale di Racine sta proprio nel recupero antieroico ed euripideo della tragedia, dove le circostanze (fatalità, destino, passioni) impongono le condizioni del conflitto umano. Queste circostanze non fanno che amplificare la dimensione umana del teatro raciniano, che in fondo è un rincorrersi doloroso di passioni e sentimenti oppressi dall’impossibilità di una corrispondenza.
L’anima è sola con il proprio corpo e il proprio desiderio. Lo spostamento continuo della soluzione della vicenda crea poi una sospensione atroce del tempo della tragedia. In questo tempo, che pare un presente immobile, tutti gli eventi precipitano attratti nell’oscura voragine della disfatta o di una risoluzione quasi inumana.
Atalia
Con la tragedia d’argomento biblico Atalia, Racine raggiunge un vertice tragico fino ad allora mai realizzatosi così compiutamente. La natura fatale e religiosa dell’opera, priva di contrasti d’amore, avvicina Atalia alla densità tragica e selvaggia del teatro greco. La severità dell’azione teatrale, il rapporto continuo tra fede e predestinazione, umano e soprannaturale, fanno di Atalia una tragedia cupa e dura, di una violenza biblica, impietosa e imperscrutabile.
Jean Racine
Il turbamento di Atalia
Atalia, Atto II, scena 5
Scena 5 - MATHAN, ATALIA, ABNER, seguito d’ATALIA.
MATHAN: Mia regina, che luogo frequentate? In quali turbamenti smarrita vi agitate? Che cosa, fra i nemici, voi venite a cercare? Questo tempio profano osate avvicinare? Avete abbandonato quella viva avversione...
ATALIA: A tutti e due chiedo la massima attenzione. Non voglio affatto qui ricordare il passato, né rendervi ragione del sangue che ho versato. Ciò che io ho fatto, Abner, fu azione necessaria e non eleggo a giudice una turba temeraria: e qualunque calunnia di me sia stata detta, mi ha offerto il cielo stesso una giusta vendetta. Con strepitose imprese io mi sono affermata, dall’uno all’altro mare Atalia è rispettata. Per me Gerusalemme gode calma profonda: più non vede il Giordano l’Arabo vagabondo, né in continui saccheggi il Filisteo altero come ai tempi dei re infesta le riviere; da regina e sorella il Siriano mi onora; dalla mia casa, infine, il perfido oppressore, che fino a me voleva spingere la sua ira, il barbaro Gehu, già trema in Samaria. Pressato da ogni parte da un potente vicino che seppi sollevare contro quell’assassino, mi lascia in questi luoghi l’assoluto potere. Il mio piano sagace mi potevo godere. Ora sopravvengono avversità importune a interrompere il corso delle mie fortune. Il sogno (è tale, un sogno, da potermi inquietare?) rode il cuore, insiste, non smette di assillare. L’evito ovunque, ovunque mi circonda nell’orrore di una notte profonda. La madre Gezabel mi si è innanzi mostrata, sul letto funebre riccamente ammantata. Ne aveva, il dolore, smorzato la fierezza; anzi, ancora, quella finta bellezza con cure, con espedienti labili, al riparar degli anni le sfide irreparabili. “Figlia di me ben degna, ella mi ha detto, trema; su te il crudele Dio ebraico si scatena. Madre mia, ho pietà: in quelle mani odio se cadrai”. E finendo le frasi spaventose, sopra il mio letto l’ombra si voleva chinare. Io tendevo le mani per poterla abbracciare. ATALIA: Ma in un miscuglio orrendo mi sono ritrovata di carni e ossa infrante, e nel fango trascinato un viluppo di sangue e membra repellenti che dei mastini in lotta strappavano coi denti.
ABNER: Gran Dio!
ATALIA: In tanto orrore mi appare chiaramente un fanciullo coperto del drappo rilucente di cui i preti ebrei si sogliono ammantare: La visione i miei spiriti sta per rianimare; ma quando riprendendomi dall’incubo funesto fissavo quel bel volto, così dolce e modesto, un acciaio assassino sentii che in pieno cuore immergendo mi andava di colpo il traditore. Questo assurdo convergere di cose disparate direte che per caso mi furono mandate. Per un po’, con vergogna, ebbi la convinzione che non fosse null’altro che un’allucinazione. Ma da questo ricordo la mente inorridita; per due volte, dormendo, quella scena ha subita. Due volte il triste sogno ritornò per infliggermi ancora quel fanciullo sul punto di trafiggermi. Poi stanca degli orrori da cui ero assalita andai supplice a Baal, pregai per la mia vita, cercai un po’ di quiete prostrata ai suoi altari. Quanto può la paura sul cuore dei mortali! Per istinto ora al tempio dei Giudei io mi avvio concepisco il pensiero di placare quel Dio, certa che qualche offerta ne lenisse l’asprezza, che il Dio, chiunque fosse, mi mostrasse dolcezza. Pontefice di Baal, scusate la mia resa. Entro: ecco gente in fuga, cerimonia sospesa, ecco su me il gran prete avventarsi con furore. E mentre lui mi parla, o sorpresa! o terrore! vedo ancora il fanciullo dal gesto minaccioso che il pensiero mi finse nel sogno spaventoso. L’ho visto: stesso aspetto, il lino in cui è avvolto, il passo, e quello sguardo, i tratti di quel volto. Lui. Al gran sacerdote camminava affiancato, ma presto alla mia vista l’hanno dissimulato. Ecco quale inquietudine mi ha fatta qui fermare, sulla quale voi due ho voluto consultare. Mathan, che presagisce il prodigio incredibile?
J. Racine, Britannico, Bajazet, Atalia, trad. it. di M. L. Spaziani, Milano, Garzanti, 1986
Il teatro di Racine ha una regolarità classica che però non cede mai al gusto di una geometria esterna e astratta. Il crescendo delle peripezie e delle passioni fino alla risoluzione tragica è costruito con una sapienza prodigiosa, che scruta, serena e impassibile, sentimenti e conflitti, luci e ombre del cuore e del suo caos interiore.
La capacità lirica dell’alessandrino raciniano, con la sua musicalità alta e tormentata, dolce e terribile, è certo il più luminoso esempio di poesia pura nella Francia letteraria del XVII secolo.
Jean Racine
Le ultime parole di Fedra
Fedra, Atto V, scena 7
FEDRA: Cari mi sono gli istanti, Teseo. Ascoltatemi, io sono stata a posare i miei occhi incestuosi e profani su quel figlio casto e rispettoso. Il cielo pose un fuoco funesto nel mio petto; l’esecrabile Enone fece il resto. Aveva temuto che Ippolito, saputa la mia furia, palesasse un fuoco che gli faceva orrore. La perfida, abusando dell’estrema mia debolezza, s’è affrettata di presentarlo sotto accusa. Punita essa si è da sé, e sfuggendo la mia ira ha cercato nelle onde un troppo dolce supplizio. Il ferro avrebbe già troncato il mio destino; ma la virtù gemette nei sospetti. Ho voluto, esporre i miei rimorsi innanzi a voi, discendere da una via più lenta sino ai morti. Ho preso, ho fatto scorrere nelle mie vene ardenti un veleno che Medea in Atene recò. Già sino al cuore arrivato m’è il tossico, in quel cuore che spirando sta, un ignoto freddo; già non vedo più che attraverso una nube il cielo, e il mio sposo al quale è oltraggio la presenza mia. La morte ora, togliendo la luce a questi occhi, restituisce al giorno tutta la sua purezza.
PANOPE: Sta spirando, signore.
TESEO: Di un’azione così nera potesse insieme a lei morirne la memoria! Del mio errore Illuminati, ahimè! a mischiare al sangue del mio povero figlio ai nostri pianti. Andiamo ad abbracciare ciò che rimane di quel caro figlio, ad espiare il furore d’un voto che detesto, rendergli gli onori meritati; e, per meglio placare gl’irritati suoi mani, malgrado i complotti di un’ingiusta famiglia, che l’amante sua mi faccia oggi le veci di figlia.
J. Racine, Fedra, trad. di G. Ungaretti, Milano, Mondadori, 1950