Racine, Jean
La poesia del teatro
Jean Racine è stato poeta e autore drammatico, uno dei più grandi della storia della letteratura francese. Tuttavia, a differenza di quanto, nello stesso periodo, è accaduto ai connazionali Pierre Corneille e Molière, l’attività di letterato di Racine non ha coinciso completamente con quella teatrale, che è anzi durata relativamente pochi anni, dal 1664 al 1677
La famiglia di Jean Racine era molto vicina agli ambienti di cultura giansenista e lo scrittore, nato a La Ferté-Milon nel 1639, ricevette una solida educazione classica a Port-Royal. Il giansenismo era un movimento religioso che sosteneva che l’uomo, dopo il peccato originale, non è più in grado di compiere il bene con le sue sole forze: attratto dalla vita terrena e carnale, non può salvarsi se non con l’aiuto di Dio. Il legame di Racine con il rigore giansenista si allentò al momento del debutto letterario. A ventuno anni scrisse un’ode per il matrimonio del re Luigi XIV, e si legò agli ambienti aristocratici della corte. Per il teatro cominciò a scrivere solo a partire dal 1664: Molière mise in scena, con la sua compagnia, la tragedia Tebaide o i fratelli nemici, e l’anno dopo Alessandro Magno, che però Racine offrì, scorrettamente, anche al teatro rivale di Molière, l’Hôtel de Bourgogne. Da quel momento in poi, fu questo il teatro in cui vennero rappresentate tutte le sue opere. Contribuirono alla sua fama, oltre alla speciale qualità delle opere, anche la sua noncuranza per le abitudini teatrali e la violenza dei suoi attacchi ai critici e ai tragediografi rivali.
Nel 1667, l’attrice Thérèse Du Parc lasciò la compagnia di Molière per passare in quella dell’Hôtel de Bourgogne. L’attrice portò al successo la tragedia Andromaca, considerata uno dei capolavori di Racine. Morta prematuramente la Du Parc, il suo posto, sia nella vita pubblica sia in quella privata di Racine, fu preso da Mademoiselle Champmeslé, che sarebbe stata la prima interprete delle più importanti tragedie: Berenice, Bajazet, Mitridate, Fedra.
Racine fa raramente dichiarazioni esplicite d’estetica drammaturgica. In apparenza, è un letterato che si attiene alle regole del teatro classicista, basato cioè sui principi desunti dalle tragedie greche e teorizzati da Aristotele.
Nella prefazione all’Andromaca dichiara che non sta a lui cambiare le regole del teatro. Le accetta, purché non si scontrino con quello che dichiara essere il fine principale della sua opera: suscitare l’emozione e la riflessione dei suoi spettatori. Le sue tragedie, tuttavia, sono profondamente diverse da quelle allora in voga: Racine non costruisce trame che stupiscano per il loro carattere avventuroso o eroico, ma solo storie estremamente coerenti e relativamente semplici. La loro spettacolarità è costituita dalla complessità dell’azione psicologica dei personaggi e dalla creazione di ampi e variegati ventagli di passioni ambigue e violente.
Fedra (1677) è forse la sua opera più famosa. Fedra, moglie di Teseo, per opera di Venere, avversa alla sua famiglia, s’innamora del figliastro Ippolito; cerca di resistere a questo amore e lo esterna solo alla falsa notizia della morte del marito. Ma poi, ferita dall’orrore di Ippolito di fronte alla sua dichiarazione, lascia che il giovane sia accusato falsamente, causandone l’esilio.
Così, Fedra diventa indirettamente responsabile della morte di Ippolito, alla cui notizia si uccide, dopo aver confessato la sua colpa. È una storia cupa, gonfia di passione. Racine riesce però a creare nello spettatore e nel lettore un moto di simpatia per l’incestuosa Fedra, vittima di Venere.
Racine privilegia i soggetti classici, i più adatti al pubblico raffinato, di corte, cui le tragedie sono spesso destinate. Ma la mitologia che popola la sua opera non è una semplice convenzione letteraria: i suoi dei sono forze vive, irrazionali e spaventose, portatori di un terribile potere magico.
Dopo il 1677 Racine ricevette la nomina a storiografo del re e abbandonò l’attività teatrale. Si riaccostò alla religione e agli ambienti giansenisti, e si sposò.
Tra il 1689 e il 1691 scrisse altre due grandi tragedie, di argomento biblico, Ester e Atalia. Erano destinate, però, non al teatro pubblico e professionale, ma alle recite del collegio femminile di Saint-Cyr, protetto dalla marchesa di Maintenon che Luigi XIV aveva sposato morganaticamente (cioè senza che lei potesse condividere i privilegi e le prerogative regali del marito) dopo la morte della moglie. Morì a Parigi nel 1699.