LÉGER, Jean
Nacque il 2 febbr. 1615 a Villasecca, in Val San Martino, da Jacques e Catherine Laurens, che godevano di una certa posizione nella Comunità.
Il padre era sindaco di Faetto e nel 1631 fu nominato dal duca Vittorio Amedeo di Savoia console generale della vallata, carica che manterrà fino alla morte (1640). Lo zio paterno, Antoine (1594-1661), era una personalità di spicco della Chiesa valdese, cui i Léger appartenevano: pastore e teologo, fu per otto anni cappellano dell'ambasciatore olandese a Costantinopoli, Cornelio Sage; eletto moderatore della Tavola valdese, nel 1643 fu costretto a riparare a Ginevra, nella cui Accademia insegnò teologia ed ebraico per i restanti anni della sua vita. A lui si deve l'Apologia delle Chiese riformate del Piemonte circa la loro confessione di fede, edita in italiano a Ginevra nel 1662 proprio dal L., che contiene la confessione di fede tuttora fondante per la Chiesa valdese (ed. recente in V. Vinay, Le confessioni di fede dei valdesi riformati…, Torino 1976, pp. 189-204). La madre, ancora in vita nel 1658, originaria di Chiotti, in Val Germanasca, era figlia del medico Jean e di Marie Rostain; suo nonno, il pastore Henri Rostain, era assai noto per avere raggiunto l'età di 115 anni e aver predicato regolarmente fin oltre i 100.
Come tutti i giovani valdesi che desideravano proseguire gli studi, nel 1629 il L. abbandonò le valli per studiare teologia a Ginevra. Lì, narra nell'autobiografia posta in appendice alla sua Histoire, salvò la vita a Gustavo Adolfo, il futuro re di Svezia, che stava annegando nel lago Lemano. Nel 1639 tornò in patria e il Sinodo riunito a San Germano lo consacrò pastore, destinandolo alla cura delle comunità di Prali e Rodoretto. L'anno successivo sposò Marie Pellenc, figlia del capitano di Villar e di Beatrisina Costa, di una nobile famiglia di Vigone che si era rifugiata nella valli per motivi di fede.
I rapporti tra i duchi di Savoia e i loro sudditi di confessione valdese erano regolati dall'accordo di Cavour del 1561; le clausole non erano state sempre rispettate dai valdesi, che si erano insediati anche al di fuori delle zone loro assegnate, ma neppure dalle autorità, che non impedivano che essi venissero variamente e ingiustamente vessati. La particolare collocazione geografica, la prossimità ai domini francesi, dove risiedevano gruppi numerosi e combattivi di riformati, gli scambi sempre più stretti con Ginevra e gli altri Cantoni non cattolici avevano garantito alle comunità valdesi una relativa tranquillità; a partire dagli anni Trenta del XVII; però, i duchi di Savoia avevano intensificato i controlli emanando ripetutamente editti e ingiunzioni che accusavano i valdesi di delitti gravi e prevedevano pene sempre più severe.
Nel 1643, nonostante l'ingiunzione che lo convocava a Torino con l'accusa di lesa maestà, il moderatore Antoine Léger riparò a Ginevra; il Sinodo elesse al suo posto il L. e gli affidò la comunità di San Giovanni. Il L. si trovava così a gestire uno dei periodi più difficili nella storia della sua Chiesa. Con notevole determinazione e senza risparmio di energie replicò instancabile con lettere, appelli, suppliche alle ordinanze della corte e delle autorità locali, che in un crescendo di vessazioni culminarono nelle feroci persecuzioni del 1655, allorché i duchi di Savoia diedero seguito alle minacce e misero in atto una dura repressione, che passò alla storia come Pasque piemontesi o primavera di sangue. Con l'aiuto di milizie francesi destinate all'assedio di Pavia e con il rinforzo di un contingente di mercenari irlandesi, tra il 17 aprile e i primi di maggio il marchese Giacinto de Simiane di Pianezza cacciò i valdesi dalla bassa Val Pellice, li inseguì sui monti e mise a sacco anche le altre valli, bruciando case, chiese, intere borgate e sterminando la popolazione. Il tempio di San Giovanni fu uno dei primi a essere distrutto; il L. fuggì, portando in salvo la moglie e i suoi undici figli in Val Chisone, in terra francese.
La reazione dei valdesi fu immediata: mentre Bartolomeo Jahier di Pramollo e Giosuè Gianavello di Rorà organizzavano bande armate sui monti della Val Chisone e della Val Pellice e riuscivano anche a costituire un battaglione a cavallo, il L. iniziò a percorrere l'Europa informando gli Stati protestanti - ma anche la Francia - di quel che succedeva in Piemonte e diffondendo la Lettre des fidèles exilés, cronaca cruda e immediata della repressione in atto, stesa a Pinasca il 27 aprile dai dirigenti della Chiesa e indirizzata ai pastori di Ginevra. Le notizie dei massacri rimbalzarono nelle pagine della Gazette di Parigi dell'8 maggio e diventarono un caso internazionale. Il L., sulla cui testa veniva posta una taglia di 600 ducatoni (23 maggio), si recò di persona a Parigi (2 maggio) e riuscì a mettere in moto una pressione diplomatica internazionale, che, insieme con gli insuccessi sul campo, costrinse il duca di Savoia ad accettare una tregua e aprire trattative con i sudditi ribelli.
In questo frangente l'Inghilterra di O. Cromwell svolse un ruolo di primo piano, non solo per gli aiuti materiali forniti ai valdesi (39.000 sterline raccolte con una colletta, oltre una contribuzione annua di 12.000 sterline, che però Giacomo I rifiutò di versare), ma per la determinazione con cui il lord protettore si impegnò a loro favore, fino a subordinare la propria alleanza con la Francia alla fine delle persecuzioni in Piemonte.
Incalzato dagli ambasciatori svizzeri e da quello inglese, sollecitato anche dall'alleato francese, il duca acconsentì all'apertura di trattative che, condotte di fatto dall'ambasciatore di Francia Ennemond Servient e dal L., si conclusero con la stipula della Patente di grazia firmata a Pinerolo il 18 agosto, che riconfermava l'accordo di Cavour e consentiva il rientro del Léger.
La Patente non garantì tuttavia il ritorno alla pace. Sui monti continuava la resistenza contro le truppe sabaude, mentre le autorità locali persistevano nei soprusi contro la popolazione valdese e i suoi ministri. Il L. dovette difendersi dalle accuse di aver stornato parte degli aiuti inglesi, e anche di continuare a fare "instruttion di dottrina", che veniva equiparata alla vietata predicazione. Riprese così i suoi viaggi per l'Europa, per chiarire la propria posizione nei confronti dei generosi amici e tenere sveglia l'attenzione sulle vicende italiane. Nel 1661, essendogli stato ingiunto di comparire a Torino per rispondere di un numero esorbitante di accuse, alcune delle quali prevedevano la pena di morte, con il consenso del Sinodo riunito a Villar, abbandonò per sempre l'Italia.
In compagnia del cugino Davide Laurens arrivò a Ginevra pochi giorni dopo la morte dello zio Antoine; ripartì poi per Berna e, munito di lettere commendatizie per l'Inghilterra, l'Olanda, l'Assia, il Brandeburgo e il Palatinato, iniziò un lungo giro attraverso i paesi protestanti chiedendo - e ottenendo - solidarietà e aiuti per sé e i suoi confratelli. A sua discolpa venne anche stesa una Apologia delle Chiese riformate delle valli di Piemonte fatta in diffesa dell'innocenza del signore Giovanni Legero, pastore della Chiesa riformata di San Giovanni et moderatore del loro Sinodo; contra le imposture di un Michaele Villanova, et Giovanni Virtu, et altri falsi delattori esaminata et sottoscritta, nell'assemblea de esse Chiese alli Malani, li 23 sett. 1661. Presentata agl'eccellentissimi, ed illustrissimi signori delegati di s.a.r. per le cause contra dette valli (stampata a Harlem nel 1662). Ciononostante, nel febbraio 1662 la sua casa venne distrutta, i beni confiscati e la condanna a morte eseguita in effigie.
Il L. accettò allora la proposta della comunità di lingua francese di Leida che lo aveva richiesto come pastore. A novembre consegnò alla Biblioteca di Ginevra i documenti della Chiesa valdese che aveva con sé, stese una Remonstrance touchant la violation et altération de la Patente de Pignerol e dopo essersi recato, sotto mentite spoglie, a salutare la famiglia rifugiata a Briançon, partì per la nuova destinazione. Nel maggio 1663 si insediò nella comunità, continuando però a seguire, anche con frequenti viaggi, le vicende dei suoi correligionari e mantenendo desta l'attenzione europea sulle vicende italiane.
Nello stesso anno moriva intanto la moglie Marie. Due anni più tardi, il 27 nov. 1665, sposò Catherine Le Maire du Corbet, una vedova di Utrecht, e cercò di ricomporre la sua famiglia dispersa tra le valli piemontesi e il Delfinato. Nella riconquistata tranquillità, benché molto malato, il L. mise finalmente mano a quella storia della sua Chiesa che sin dal 1646 si era impegnato a scrivere. In quell'anno il Sinodo gli aveva infatti affidato l'incarico di proseguire la Histoire ecclésiastique des Églises réformées (Genève 1644) di Pierre Gilles, chiedendogli di "prendre la chose de plus loin que n'avaient fait Perrin et Gilles e d'insister sur la doctrine et la discipline des anciens vaudois" (Jalla, 1929); e il L. aveva cominciato a raccogliere la documentazione necessaria a completare quella che già possedeva in quanto moderatore e che risaliva fino al 1563. Nel 1655 aveva però perduto tutto, i documenti e anche la sua biblioteca: gli era restata solo, come racconta nella nota manoscritta apposta sul frontespizio, la sua Bibbia nella traduzione di Giovanni Diodati (oggi conservata nella Cambridge University Library).
I due tomi della Histoire générale des Églises evangéliques des vallées de Piémont ou vaudoises uscirono a Leida nel 1669 (ed. anast. Sala Bolognese 1980). In essi il L. ripercorre la storia dell'origine dei valdesi, descrive con ricchezza di particolari le valli e le diverse parrocchie, riproduce alcuni manoscritti medievali, narra le molte persecuzioni subite dalle comunità, fino a quelle recenti di cui era stato testimone, protagonista e vittima. I volumi presentano un apparato iconografico insolitamente ricco: una grande carta delle valli e molte incisioni che raffigurano la repressione del 1655: incendi, distruzioni, torture.
L'opera del L. non è particolarmente originale: tranne che per le vicende vissute in prima persona egli usa ampiamente l'opera di Samuel Morland (The history of the Evangelical Churches of the valleys of Piedmont, London 1658), al quale, peraltro, aveva a suo tempo generosamente fornito tanta documentazione; essa è, inoltre, apertamente apologetica, giacché il L. si ripromette di confutare quanto, sulle vicende della Chiesa, aveva scritto nella sua Histoire généalogique de la Royale Maison de Savoie (Lyon 1660, in tre tomi) S. Guichenon, suo vecchio compagno di studi divenuto poi cattolico e dichiarato nemico dei valdesi. La Histoire incontrò un discreto successo: il primo volume, dedicato agli Stati generali, fu subito tradotto in fiammingo (Leyden 1670), più tardi arrivò anche l'edizione tedesca (Breslau 1750).
Il L. si spense a Leida nel 1670.
Fonti e Bibl.: G. Claretta, Storia del regno e dei tempi di Carlo Emanuele II, I, Genova 1877, p. 385; A. De Lange - J. Léger, Biografisch Lexikon voor de geschiedenis von het Nederlands protestantisme, IV, Kampen 1998, p. 303; J. Jalla, La véridicité de l'histoire de J. L., in L'Écho des vallées, 3 febbr. 1922; Id., Giovanni L. (1615-1665), Torre Pellice 1925; Id., L'historien J. L., in L'Écho des vallées, 22 marzo 1929; T.G. Pons, L'ultimo decennio della vita di Giovanni L. e la sua "Storia", in Boll. della Società di studi valdesi, 1960, n. 107, pp. 37-68; A. Armand-Hugon, Baretti e i valdesi, ibid., 1968, n. 113, p. 50; M. Van Oostveen, Correspondance de J. L., in Boll. della Società di studi valdesi, 1971, n. 130, pp. 55-82; 1972, n. 131, pp. 43-58; A. Armand-Hugon, Storia dei valdesi, II, Torino 1974, pp. 91-98; J.-D. Candaux, Le siècle de fer et de sang, in La glorieuse rentrée (catal.), Nyon 1989, pp. 33 s.