Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Dopo una giovinezza sofferta, Jean-Jacques Rousseau scopre la propria vena polemica grazie a un concorso dell’accademia di Digione. Nei Discorsi mette a punto una provocatoria critica del progresso: a tema è il nesso tra politica e morale che nel Contratto sociale e nell’Emilio fonda un’idea della politica e della società incentrata sull’autonomia individuale e la coesione sociale. Negli ultimi anni Rousseau consegna agli scritti autobiografici l’interpretazione autentica della propria irriducibile unicità.
Una giovinezza difficile
Jean-Jacques Rousseau nasce a Ginevra il 28 giugno 1712. Pochi giorni dopo il parto, la madre, Suzanne Bernard, perde la vita. Nel 1722 il padre Isaac, modesto artigiano di origine francese, è costretto a emigrare in seguito a una rissa. Jean-Jacques viene affidato alle cure di uno zio e trascorre l’adolescenza a Bossey, presso il pastore Jean-Jacques Lambercier, dedicandosi a letture vaste quanto disordinate nelle quali spiccano Plutarco, gli stoici e i classici latini. I primi impieghi sono estremamente modesti. È scrivano presso un notaio e apprendista nella bottega di un incisore; dopo un breve soggiorno a Torino nell’Ospizio dello Spirito Santo, viene assunto come lacchè dalla contessa de Vercellis, poi come segretario in casa del conte de Gouvon. Questi frustranti trascorsi – cui fa seguito una stagione di vagabondaggio tra la Francia e la Svizzera (Lione, Friburgo, Losanna, Neuchâtel, Berna) durante la quale si mantiene insegnando musica – foggiano un carattere risentito, ma danno anche modo di compiere diretta esperienza delle misere condizioni di vita imposte alla grande maggioranza della popolazione.
L’incontro con i philosophes e l’“illuminazione” di Vincennes
Jean-Jacques Rousseau
Discorso sulle scienze e le arti
Lo spirito ha i suoi bisogni, come il corpo. I bisogni del corpo sono il fondamento della società, quelli dello spirito il suo ornamento. Mentre il governo e le leggi provvedono alla sicurezza e al benessere degli uomini associati, le scienze, le lettere, le arti, meno dispotiche e forse più potenti, stendono ghirlande di fiori sulle ferree catene che li gravano, soffocano in loro il sentimento di quella libertà originaria per cui sembravano nati; li rendono amanti della loro schiavitù, ne fanno, come si dice, dei popoli civili. Il bisogno elevò i troni; le scienze e le arti li hanno rafforzati.
Jean-Jacques Rousseau, Scritti politici, a cura di M. Garin, Bari, Laterza, 1971
Jean-Jacques Rousseau
Ultima risposta di Gian Giacomo Rousseau di Ginevra
Discorso sulle scienze e le arti
Il lusso nutre cento poveri nelle nostre città e ne fa morire centomila nelle nostre campagne: il denaro che circola fra le mani dei ricchi e degli artisti per provvedere alle loro superfluità è perduto per i bisogni elementari dell’agricoltore che non ha un vestito proprio perché gli altri hanno bisogno di ornamenti. Lo spreco di ciò che serve a cibare gli uomini basta da solo a rendere il lusso odioso all’umanità. È una fortuna per i miei avversari che la colpevole finezza della nostra lingua m’impedisca di entrare a questo proposito in particolari che li farebbero arrossire della causa che osano difendere. La nostra cucina ha bisogno di sughi; ecco perché tanti malati non hanno brodo.
Jean-Jacques Rousseau, Scritti politici, a cura di M. Garin, Bari, Laterza, 1971
Tra il 1732 e il 1740 soggiorna a Chambéry, ospite di Madame de Warens, della quale diviene amante. Sono anni sereni, durante i quali consolida e approfondisce la propria formazione. La crisi del rapporto con la Warens lo costringe a nuovi spostamenti tra Lione (dove si impiega come precettore presso il magistrato Jean Bonnot de Mably, fratello dell’abate e di Condillac) e Parigi. Qui incontra i philosophes ed entra in contatto con la brillante vita mondana e culturale della capitale. Nell’autunno del 1743 è a Venezia, segretario del conte Pierre-François de Montaigu, ambasciatore di Francia. Frutto di questa travagliata esperienza, che lo mette a diretto contatto con i meccanismi istituzionali della Serenissima e i retroscena della politica internazionale (nelle Confessioni se ne dirà “indignato”, per la sistematica subordinazione dell’“autentico bene pubblico” e della “vera giustizia” all’“oppressione del debole” e all’“iniquità del forte”), è la redazione di decine di dispacci diplomatici destinati al re e alla corte francese. Benché la stagione della grande produzione teorica sia ancora lontana, il soggiorno veneziano può considerarsi fonte dell’intuizione della centralità della politica (da cui “tutto dipende radicalmente”) e l’avvio di una meditazione sul nesso tra politica e morale destinata a segnare tutta la sua vita.
Tornato a Parigi nel 1745, stringe amicizia con Condillac e Diderot, dal quale riceve l’incarico di stendere le voci musicali dell’Enciclopedia. Si lega alla giovane cucitrice Thérèse Levasseur, che gli darà cinque figli (tutti via via affidati alla pubblica carità). Si impiega come segretario in casa Dupin. Il 1749 è un anno di svolta o, meglio, il preludio di una nuova, cruciale stagione. Nel recarsi a Vincennes per far visita all’amico Diderot (agli arresti a seguito della pubblicazione della Lettera sui ciechi), legge sul “Mercure de France” il bando del concorso dell’accademia di Digione sul tema: “Se la rinascita delle scienze e delle arti abbia contribuito a purificare i costumi”. In una lettera a Malesherbes (12 gennaio 1762) farà risalire all’“ispirazione improvvisa” ricevuta in quel momento la scoperta dei principi della propria critica sociale e della propria visione del mondo: “L’ebbi appena letto che vidi un altro universo e divenni un altro uomo”. In un attimo gli si profilano “tutte le contraddizioni del sistema sociale”, “tutti gli abusi delle istituzioni”; e, nello stesso momento, gli si chiarisce un presupposto fondamentale: “l’uomo è naturalmente buono e soltanto a causa delle istituzioni gli uomini diventano malvagi”.
Critica del progresso e interesse generale
Jean-Jacques Rousseau
Discorso sulla disuguaglianza
Discorso sull’origine e i fondamenti dell’inegualianza tra gli uomini
Che si propone dunque, precisamente, questo discorso? Di stabilire, nel progresso delle cose, il momento in cui, succedendo il diritto alla violenza, la natura fu sottoposta alla legge; di spiegare per quale catena prodigiosa di fatti il forte poté risolversi a servire il debole e il popolo a comprare una tranquillità immaginaria a prezzo di una felicità reale.
Perché solo l’uomo è soggetto a rimbecillire? Non è forse perché torna al suo stato primitivo e perché, mentre la bestia che nulla ha acquistato e nulla ha da perdere mantiene sempre il suo istinto, l’uomo, tornando a perdere per vecchiaia o per altri accidenti quanto la sua perfettibilità gli aveva fatto conquistare, viene a cadere più in basso anche della bestia? Sarebbe triste per noi trovarci costretti ad ammettere che questa quasi sconfinata facoltà che ci distingue è la fonte di tutti i malanni dell’uomo.
Soprattutto non finiamo col concludere come Hobbes che l’uomo, non avendo alcuna idea di bontà, sia naturalmente cattivo, che sia vizioso perché non conosce la virtù, che rifiuti sempre ai suoi simili dei servizi che non crede di dover loro, e che, ritenendo a ragione di aver diritto alle cose di cui ha bisogno, immagini follemente di essere il solo padrone dell’universo. Hobbes ha visto molto bene il difetto di tutte le definizioni moderne del diritto naturale, ma le conseguenze che ricava dalla sua definizione dimostrano che le dà un senso non meno falso di quello delle altre. Ragionando sui principi da lui fissati questo autore doveva dire che lo stato di natura, essendo quello in cui la cura della nostra conservazione è meno suscettibile di recar pregiudizio alla conservazione altrui, era, di conseguenza, il più adatto alla pace, il più conveniente al genere umano. Mentre dice precisamente il contrario per avere introdotto inopportunamente nella cura della conservazione dell’uomo selvaggio il bisogno di soddisfare una molteplicità di passioni che sono opera della società e che hanno reso necessarie le leggi.
Il primo che, cintato un terreno, pensò di affermare questo è mio, e trovò persone abbastanza ingenue da credergli fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quante uccisioni, quante miserie e quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i paletti o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: “Guardatevi dall’ascoltare questo impostore. Se dimenticate che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, voi siete perduti”.
Incalzato dalle necessità, il ricco finì con l’ideare il progetto più avveduto che mai sia venuto in mente all’uomo: di usare a proprio vantaggio le forze stesse che lo attaccavano, di fare dei propri avversari i propri difensori, di ispirare loro altre massime e di dar loro altre istituzioni che gli fossero favorevoli quanto il diritto naturale gli era contrario. […] “Uniamoci, disse, per salvaguardare i deboli dall’oppressione, tenere a freno gli ambiziosi e garantire a ciascuno il possesso di quanto gli appartiene; stabiliamo degli ordinamenti di giustizia e di pace a cui tutti, nessuno eccettuato, debbano conformarsi […]”. […] Tutti corsero incontro alle catene convinti di assicurarsi la libertà; infatti avevano senno sufficiente per avvertire i vantaggi di una costituzione politica, ma non esperienza sufficiente per prevederne i pericoli.
Jean-Jacques Rousseau, Scritti politici, a cura di M. Garin, Bari, Laterza, 1971
È, in nuce, la base del programma teorico che troverà svolgimento nei due Discorsi e nell’Emilio. Incoraggiato da Diderot, scrive il Discorso sulle scienze e le arti, al quale il 9 luglio 1750 l’accademia conferisce il primo premio scorgendovi un brillante e provocatorio esercizio di retorica. La tesi sostenuta da Rousseau è nella sostanza originale e temeraria, nonché frontalmente contrapposta ai principi dei Lumi. “Le nostre anime si sono corrotte a misura che le nostre scienze e le nostre arti sono progredite verso la perfezione”. È un paradosso, ma soprattutto la premessa di un’intransigente requisitoria contro ciò che di superfluo e di moralmente corrotto vi è in un preteso “progresso” che sacrifica la giustizia all’ambizione e al lusso, e la sincerità (la “trasparenza” nei rapporti umani) all’ipocrisia e agli inganni.
La necessità di difendere il Discorso nelle aspre polemiche seguite alla sua pubblicazione gli offre l’occasione di precisare la propria posizione e di radicalizzarne la cifra critica. Nella Prefazione (1753) al Narciso, l’amante di se stesso (una commedia composta probabilmente a Chambéry) ribadisce la convinzione che “i vizi non appartengono tanto all’uomo, quanto all’uomo mal governato”; nell’importante voce “Economia politica” (apparsa nel quinto volume dell’Enciclopedia, 1755) mette ulteriormente a fuoco i guasti provocati dal prevalere dell’interesse particolare sul bene comune e abbozza una prima ipotesi di riforma sociale, basata sull’“educazione pubblica” della cittadinanza e su un uso della leva fiscale funzionale a un’equa distribuzione della ricchezza. Ma è il Discorso sull’origine e sui fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini (composto per partecipare al nuovo concorso bandito nel 1753 dall’accademia di Digione e pubblicato due anni dopo) che Rousseau mette definitivamente a fuoco i cardini della propria dirompente critica teorica e politica.
Jean-Jacques Rousseau
Studio sugli strumenti per perfezionare la mente umana
Discorso sull’origine e i fondamenti dell’inegualianza tra gli uomini, Parte I
Dopo aver mostrato che la perfettibilità, le virtù sociali, e le altre facoltà che l’uomo naturale aveva ricevuto in potenza, non si sarebbero mai potute sviluppare da sole, ma avevano bisogno per questo della collaborazione fortuita di parecchie cause esterne, che avrebbero potuto anche non sorgere mai e senza le quali egli sarebbe rimasto eternamente nella sua condizione primitiva, mi resta da indagare e mettere insieme i diversi casi che hanno potuto perfezionare la mente umana guastando la specie, rendere un essere malvagio rendendolo socievole.
Jean-Jacques Rousseau, Società e linguaggio, a cura di M. Antomelli, Firenze, La Nuova Italia, 1972
La storia naturale della società
L’obiettivo è molteplice. In primo luogo, il testo colpisce sul piano metodologico la “narrazione” sottesa alle principali opere dei giusnaturalisti moderni (Hobbes e Locke in particolare), i quali, nel raffigurare lo stato di natura e la natura originaria dell’uomo, hanno rappresentato in realtà l’uomo “civilizzato”, prodotto di migliaia di anni di storia. Nel “trasportare nello stato di natura idee prese nella società”, i teorici del diritto naturale “parlavano dell’uomo selvaggio e dipingevano l’uomo civile”, col risultato di conferire valore assoluto a una vicenda determinata e in larga misura deprecabile. Posta questa premessa, il Discorso descrive la condizione naturale dell’umanità, dichiaratamente desunta da ipotesi e congetture (nonché dalle testimonianze di geografi e viaggiatori e dalle grande letteratura filosofica e scientifica classica e moderna: da Lucrezio a Mandeville, da Buffon a Montaigne e Condillac).
Diversamente da quanto preteso dai teorici del diritto naturale, l’uomo naturale è, secondo Rousseau, un animale semplice, con bisogni limitati e passioni elementari, consegnato a un eterno presente perché incapace di riflessione e privo di immaginazione. Sarebbe pertanto assurdo giudicarlo sul piano morale, salvo osservare che la natura lo ha dotato di uno spontaneo equilibrio tra egoismo (“amore di sé”) e solidarietà (“pietà”) nei confronti degli altri esseri viventi. Il problema diviene quindi spiegare l’origine della violenza, dell’iniquità e, appunto, dell’ineguaglianza. Il Discorso risponde chiamando in causa una disposizione specificamente umana (la “perfettibilità”, cioè la capacità di evolvere in seguito a stimoli esterni, già messa in luce da Turgot) e soprattutto la crescente complessità delle relazioni umane.
Il testo ricostruisce quindi la “storia naturale” della società moderna, ponendone in risalto i tratti regressivi. Ad ogni “progresso” tecnico ha fatto eco l’aumento dei bisogni artificiali; a questo è seguita la propensione a scorgere nel prossimo una minaccia e, complice la divisione sociale delle funzioni, uno strumento da asservire al proprio vantaggio. L’avvento dell’“uomo dell’uomo”, che ha ormai scalzato l’“uomo naturale”, vede finalmente il trionfo dell’inganno e della violenza a seguito dell’istituzione della proprietà privata della terra (da Locke considerata prerogativa indiscutibile dell’individuo in società). La nascita delle istituzioni (sulla base di un patto leonino, nel quale il “ricco” ottiene dai poveri l’impegno a porsi sotto il suo unilaterale dominio) non fa che consacrare lo stato di cose tuttora esistente, segnato dall’ineguaglianza, dall’ingiustizia e dalla corruzione.
La teoria politica: autonomia e “volontà generale”
Jean-Jacques Rousseau
Contratto sociale
Il contratto sociale
L’uomo è nato libero e ovunque è in catene. Chi si crede padrone degli altri è nondimeno più schiavo di loro. Come è avvenuto questo mutamento? Non lo so. Che cosa può renderlo legittimo? Credo di poter risolvere questo problema. Se tenessi conto solo della forza e dell’effetto che ne deriva, direi: “Finché un popolo è costretto a obbedire, obbedisca; fa bene a far così; se appena può scuotere il giogo lo scuote, farà anche meglio; infatti recuperando la libertà in base al medesimo diritto che gliel’ha strappata, o fa bene a riprenderla, o hanno fatto male a togliergliela”. Ma l’ordine sociale è un sacro diritto che serve di base a tutti gli altri; tuttavia non ha la sua fonte nella natura; dunque si fonda su convenzioni.
Trovare una forma di associazione che protegga e difenda con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, mediante la quale ognuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso e resti libero come prima”. Ecco il problema fondamentale di cui il contratto sociale dà la soluzione.
Il popolo da sé vuole sempre il bene, ma non sempre lo vede da sé. La volontà generale è sempre retta, ma il giudizio che la guida non sempre è illuminato. Bisogna presentarle gli oggetti come sono, talvolta come debbono apparirle; mostrarle la buona strada che cerca; garantirla dalle lusinghe delle volontà particolari; accostare ai suoi occhi i luoghi e i tempi; controbilanciare l’attrattiva dei vantaggi presenti e percettibili col pericolo dei mali lontani e nascosti. I singoli vedono il bene che non vogliono; la collettività vuole il bene che non vede.
Jean-Jacques Rousseau, Scritti politici, a cura di M. Garin, Bari, Laterza, 1971
Mentre ancora infuriano le polemiche suscitate da queste tesi iconoclaste (in particolare Voltaire – al quale Rousseau indirizzerà di lì a poco, il 18 agosto del 1756, una Lettera sulla Provvidenza in polemica con il Poema sul disastro di Lisbona – lo investe con sarcastiche invettive, accusandolo di avere impiegato la sua indubbia intelligenza “per volerci rendere bestie” e per indurci a “camminare a quattro zampe”), Rousseau lavora al Saggio sull’origine delle lingue (1755-61, postumo) e ai manoscritti dell’abate di Saint-Pierre (dai quali trae un Estratto dal progetto di pace perpetua e la Polisinodia); quindi mette mano a Giulia, o la Nuova Eloisa (un romanzo epistolare di successo, apparso nel 1760 e la cui trama, incentrata sugli amori, i viaggi e il “matrimonio razionale” tra i protagonisti, riflette simbolicamente la relazione, forse platonica, intrecciata da Jean-Jacques con Madame d’Houdetot) e alle Lettere morali (1757-58, postume); risponde alla voce “Genève” di d’Alembert (ispirata da Voltaire) con la Lettera sugli spettacoli (1758), che sancisce la rottura definitiva con gli enciclopedisti; e, finalmente, avvia la composizione delle due opere maggiori (Il contratto sociale e l’Emilio, entrambi pubblicati nel 1762) che, insieme alle Confessioni (apparse, postume, tra il 1782 e il 1789), ne consacreranno la fama presso i posteri.
Il Contratto racchiude lo schema della società giusta, liberata dalle cattive eredità della storia ripercorsa nel secondo Discorso. Come Rousseau scrive nella prima versione dell’opera (il Manoscritto di Ginevra, composto verosimilmente tra il 1758 e il ’60), si tratta di “trarre dallo stesso male il rimedio che deve guarirlo”. La politica può condurre la società verso la virtù dalla quale la ha sin qui distolta. Come? La risposta risiede nella particolare versione del contratto sociale che Rousseau elabora, distaccandosi decisamente dai precedenti offerti da Hobbes (nel De cive e nel Leviatano) e da Locke (Secondo trattato sul governo). Il contratto rousseauiano concilia libertà individuale e coesione sociale in forza dell’“alienazione totale” dei singoli contraenti. I quali non cedono sovranità ad altri (non si tratta quindi di un pactum subjectionis) ma alla comunità, dunque a se stessi. Dal patto sorgono l’“io comune” della cittadinanza e il suo “corpo morale, sovrano assoluto e tuttavia (considerato il processo della sua costituzione) rispettoso – secondo Rousseau – dell’autonomia di ciascun cittadino.
Voce della comunità nata dal contratto e garante della sua autonomia (che nel nostro lessico definiremmo democratica) è la “volontà generale”, concetto-chiave del Contratto sociale. Essa ha due caratteristiche e vive della loro coincidenza: da una parte, è per sua natura correlata al bene comune: in questo senso è “sempre retta”, “pura” e “inalterabile”, e garantisce la vera libertà degli individui e della collettività; dall’altra parte, essa deve trovare espressione nei deliberati dell’assemblea legislativa, pena la rovina della comunità. Tutto il discorso di Rousseau si risolve nell’accorata perorazione del primato dell’interesse comune e della necessità che i singoli sappiano rinunciare al proprio particolare privilegiando il bene collettivo. Ma egli è consapevole del rischio che ciò non avvenga: i particolarismi possono persistere a valle del contratto e prevaricare l’interesse generale; la “volontà di tutti” (dei singoli, pervicacemente legati al proprio particolare) può eclissare la “volontà generale”, costringendola all’impotenza e al silenzio. Nuovamente in queste considerazioni risuona la preoccupazione, venata da cupo pessimismo, per la prevalente tendenza alla ricerca del benessere individuale e all’indifferenza per le sorti della comunità che già aveva ispirato i Discorsi.
Pedagogia e religione della coscienza
Jean-Jacques Rousseau
Emilio
Emilio
L’infanzia non è punto conosciuta: sulle false idee che se ne hanno, quanto più si va innanzi, tanto più ci si smarrisce. I più saggi si applicano a quello che importa agli uomini di sapere, senza considerare ciò che i fanciulli sono in grado d’imparare. Essi cercano sempre l’uomo nel fanciullo, senza pensare a quello che egli è prima di essere uomo.
Coscienza! Coscienza! Istinto divino, voce immortale e celeste; guida sicura d’un essere ignorante e limitato, ma intelligente e libero; giudice infallibile del bene e del male, che rendi l’uomo simile a Dio! Sei tu che fai l’eccellenza della sua natura e la moralità delle sue azioni; senza di te non sento niente in me che mi elevi al disopra delle bestie, se non il triste privilegio di smarrirmi di errore in errore, con l’aiuto di un intelletto senza regola e di una ragione senza principio
Jean-Jacques Rousseau, Opere, a cura di P. Rossi, Firenze, Sansoni, 1972
L’Emilio è, a sua volta, un “romanzo di formazione” che descrive il percorso individuale verso la moralità. È per un verso un grande classico della pedagogia moderna. Ma è anche il controcanto del Contratto, nella misura in cui, come abbiamo visto, non vi è, per Rousseau, possibile soluzione del problema politico senza contestuale soluzione del problema morale. Una “città” può governarsi nel segno della giustizia e della ragione solo se coloro che la abitano sono, essi per primi, virtuosi e consapevoli della necessaria prevalenza del bene comune. L’originalità dell’Emilio consiste nella “scoperta dell’infanzia”, della peculiarità delle sue caratteristiche ed esigenze, in precedenza sacrificate a un’immagine dell’adulto assunta come indiscutibile modello normativo. L’“educazione negativa” che discende da questa premessa si incentra intorno al principio secondo cui la formazione morale del bambino ne implica in primo luogo l’espressione spontanea: non si tratta di “insegnare la virtù e la verità”, bensì di “proteggere il cuore dal vizio e la mente dall’errore”. Lo sviluppo della personalità infantile richiede quindi il passaggio dalla sensazione alla riflessione e al giudizio sulla base di esperienze concrete, nella misura del possibile spontanee, piuttosto che di istruzioni libresche. Finalmente, occorre insegnare al bambino – “un selvaggio fatto per abitare le città” – la corretta sintassi delle relazioni sociali nel segno dell’autonomia individuale nel rispetto delle regole dettate dalla coscienza morale. Un importante capitolo dell’Emilio (anche in questo parallelo al Contratto sociale) illustra la concezione rousseauiana della religione. Si tratta della Professione di fede del vicario savoiardo, pervasa da una religiosità di chiara matrice innatistica (“il culto essenziale è quello del cuore”, non già la “verità rivelata” dei dogmi), che suscita la dura opposizione delle autorità ecclesiastiche.
Jean-Jacques Rousseau
Nascita della parola
Saggio sull’origine delle lingue
È dunque da credere che i bisogni dettarono i primi gesti e che le passioni strapparono le prime voci (...) Non la fame né la sete, ma l’amore, l’odio, la pietà, la collera hanno strappato loro le prime voci (...) la natura detta accenti, grida, gemiti. Ecco le più antiche parole che furono inventate, ed ecco perché le prime lingue furono cantanti e appassionate
Jean-Jacques Rousseau, Società e linguaggio, a cura di M. Antomelli, Firenze, La Nuova Italia, 1972
Censure e complotti
Jean-Jacques Rousseau
Le confessioni, Parte I
Ecco il solo ritratto d’uomo, dipinto scrupolosamente dal vero e con assoluta fedeltà, che esiste, e che probabilmente esisterà mai. Chiunque siate voi, che il mio destino o la mia fiducia hanno reso arbitro di questo scritto, per le mie sventure, per le vostre viscere, e a nome dell’intera specie umana, vi scongiuro di non distruggere un’opera utile e unica, la quale può servire come prima pietra di paragone per quello studio degli uomini che certamente si deve ancora cominciare, e di non spogliare l’onore della mia memoria del solo documento sicuro sul mio carattere che i miei nemici non abbiano ancora sfigurato.
Jean-Jacques Rousseau, Le confessioni, trad. it. di M. Rago, Torino, Einaudi, 1955
Il Contratto e l’Emilio sono subito condannati sia a Parigi che a Ginevra, dove il “Piccolo Consiglio” le definisce “temerarie, scandalose ed empie, tese a distruggere la religione cristiana e ogni governo”. Rousseau, ricercato a Parigi e nella città natale, fugge a Yverdon, quindi a Môtiers-Travers, nel principato prussiano di Neuchâtel. Ottenuto asilo politico da Federico II, reagisce alle accuse della Chiesa con la Lettera a Christophe de Beaumont, arcivescovo di Parigi, e a quelle della magistratura ginevrina (e degli stessi “empi” philosophes) con le Lettere dalla montagna, subito mandate al rogo a La Haye e a Parigi. Ma ormai prevalgono la stanchezza e l’ossessiva sensazione di essere accerchiato dall’inimicizia. Jean-Jacques sospetta ovunque insidie, inganni, complotti. Anche un breve soggiorno in Inghilterra, durante il quale inizia a scrivere le Confessioni, si conclude con una violenta rottura con David Hume, di cui è ospite. Rousseau decide di affidare la propria difesa a una serie di scritti autobiografici (i dialoghi di Rousseau giudice di Jean-Jacques, 1772-76; le Confessioni, 1766-70; le incompiute Fantasticherie di un passeggiatore solitario, scritte anch’esse a partire dal 1776) nei quali intende esporre se stesso “nella nuda verità della propria natura”, realizzando quella “autenticità” e “trasparenza” che la società corrotta di fatto impedisce.
Gli ultimi anni trascorrono in un sofferto isolamento, non certo nell’ignavia. Porta a compimento (1769) un Progetto di costituzione per la Corsica scritto su invito di Matteo Buttafuoco, quindi le Considerazioni sul governo di Polonia (1771-72) e le Lettere sulla botanica (1771-74). Ma ormai l’oppressione prevale e mette seriamente a repentaglio un già fragile equilibrio psichico. Da ultimo Rousseau accetta l’invito del marchese René de Girardin, che lo ospita a Ermenonville. Qui muore all’improvviso, dopo una passeggiata nel parco, il 2 luglio 1778. Nel 1794 le sue spoglie, dapprima sepolte nell’“Isola dei pioppi” di Ermenonville e ben presto meta di pellegrinaggi, vengono solennemente traslate nel Panthéon di Parigi per decreto della Convenzione Nazionale. L’autore dell’Emilio e del Contratto sociale è ormai un’icona della Rivoluzione.