BRASSEUSE (Brayselve, Braisilva), Jean de
Di nobile famiglia francese e originario della località omonima nel dipartimento dell'Oise, il B. accompagnò in Italia nel 1265 Carlo d'Angiò, dal quale fu nominato in data non precisata, ma con tutta probabilità già nello stesso 1265, maresciallo dell'ancora non conquistato Regno di Sicilia.
Poco si sa di lui in questo primissimo periodo della conquista angioina. Con tutta probabilità partecipò nel febbraio del 1266 alla battaglia di Benevento, nella quale Manfredi di Svevia perse il regno e la vita. Con sicurezza sappiamo solo che poco dopo questa battaglia Carlo I d'Angiò lo mandò a ricevere dalle università, città, terre e località del Regno un destriero o la somma equivalente come pegno di sottomissione al sovrano angioino. Sempre nel 1266 il B. assediò alla testa di truppe angioine la ribelle Stilo in Calabria. Nella primavera del 1267 seguì Carlo I in Toscana, dove papa Clemente IV, "vacante imperio", gli aveva conferito titolo e funzioni di paciere. Il B. risulta anche presente, sempre al seguito del re, alla corte pontificia di Viterbo, in occasione della ratifica (27 maggio 1267) del trattato di Viterbo che concedeva a Carlo I d'Angiò la sovranità feudale sul principato di Acaia.
In questo stesso periodo il re nominò il B. suo primo vicario in Toscana. La data precisa della nomina non è nota: papa Clemente IV ne informò i Toscani il 5 giugno 1267, raccomandando caldamente di ubbidire al Brasseuse. Nella complicata situazione della Toscana, dilaniata da aspre lotte tra guelfi e ghibellini, il B., impavido cavaliere ed esperto condottiero, dovette apparire al re l'uomo più adatto a sostenere la causa guelfa e a potenziare l'espansione angioina.
Tuttavia il B. iniziò il suo vicariato con un'azione che provocò la viva disapprovazione del papa: invase il territorio degli Ubaldini che si erano rifiutati di prestare il giuramento di obbedienza dovuto a Carlo, contando opportunamente di potersi valere dell'influenza esercitata in Curia dal cardinale Ottaviano Ubaldini, loro parente. Costretto dalle proteste pontificie ad abbandonare il territorio degli Ubaldini, il B. nello stesso giugno del 1267 assalì con i suoi cavalieri francesi il monastero femminile fortificato di S. Ellero nella valle superiore dell'Arno, dove si erano trincerati un gran numero di ghibellini - in tutto più di ottocento uomini - che dopo un breve assedio costrinse alla resa. I vincitori massacrarono molti assediati, senza risparmiare le monache.
Alla notizia di questo primo clamoroso successo, altri castelli ghibellini della regione si arresero al B. che, dopo aver conquistato Montepulciano, si diresse contro Siena divenuta, dopo la vittoria di Montaperti del 1260, la roccaforte dei ghibellini toscani. Tuttavia la notizia che un esercito ghibellino di Tedeschi e Pisani si dirigeva contro di lui lo fece desistere da questo progetto, ed egli mosse contro queste milizie che si erano fermate a Poggibonsi. Il B. iniziò subito l'assedio della città, senza riuscire tuttavia a conquistarla, nonostante l'arrivo di truppe ausiliarie mandate su sua richiesta da Firenze, Lucca, Pistoia e Prato. A metà luglio Carlo I d'Angiò in persona arrivò nel campo degli assedianti, ma la città gli si arrese solo nell'ottobre. All'inizio di questo mese il B. era stato mandato dal sovrano contro un esercito pisano accorso in aiuto degli assediati di Poggibonsi: il B. riuscì a sconfiggerlo completamente presso Collegalli nella valle dell'Elvola. Nel dicembre successivo si diresse contro la stessa Pisa e distrusse Porto Pisano, senza però riuscire a soggiogare la città ghibellina .
Quando nella primavera del 1268 Carlo I d'Angiò fu costretto a rientrare nel Regno, dove la rivolta ghibellina serpeggiava sempre più minacciosamente, lasciò il B. in Toscana, in una situazione estremamente difficile e pericolosa. All'inizio del 1268 era disceso in Italia, trionfalmente accolto da tutti i ghibellini, Corradino di Hohenstaufen col proposito di riconquistare l'eredità paterna, il Regno di Sicilia.
Com'era facilmente prevedibile, la sua venuta riportò anche in Toscana la fazione ghibellina sulla cresta dell'onda. Nel maggio del 1268, quando Corradino giunse a Pisa, il B. si trovava a Lucca con cinquecento cavalieri, ma evitò lo scontro aperto, lasciando devastare dalle genti di Corradino il contado lucchese per dieci giorni consecutivi. Da Pisa Corradino passò a Siena, mentre il B. si ritirò con le sue truppe nella sicura Firenze. Il 24 giugno 1268 ripartì da Firenze, fermamente deciso a impedire il passaggio di Corradino nel Regno. Si fece accompagnare dalle truppe fiorentine fino a Montevarchi. Da qui però, il giomo seguente, volle proseguire con le sue sole truppe per Arezzo, preceduto da un'avanguardia comandata da Guglielmo d'Estendart. Mentre l'Estendart riusciva a raggiungere Arezzo con i suoi trecento cavalieri, il B., quando meno se l'aspettava (i suoi soldati marciavano in disordine e senza tenersi in pieno assetto di guerra), fu assalito dal grosso delle truppe di Corradino a Monte a Valle presso Laterino (oggi Ponte al Romito): gran parte delle milizie angioine fu massacrata e il B. fu fatto prigioniero.
La grave sconfitta subita dal B. e la sua prigionia costituirono un duro colpo per la potenza angioina in Italia. Appena se ne diffuse la notizia, nel Regno divampò di nuovo la rivolta antiangioina, mentre i ghibellini toscani si consideravano ormai vincitori. Quando nel luglio Corradino di Hohenstaufen partì dalla città di Siena alla volta del Regno, trascinava con sé il B. in catene. Gli fece tagliare la testa la mattina del 23 ag. 1268, prima di iniziare la battaglia risolutiva contro Carlo d'Angiò, presso Tagliacozzo, che doveva segnare la fine irrevocabile della dominazione sveva nel Regno di Sicilia.
Splendido campione della tradizione feudale e cavalleresca francese, il B. ebbe fama di grande maestro della vita cortese. Celebri furono il suo stile di vita, l'abito del perfetto gentiluomo, l'estrema raffinatezza della sua educazione cavalleresca esaltati da poeti e trattatisti. Secondo la testimonianza di Francesco da Barberino al B. stesso si dovrebbe la stesura di un trattato della vita cortese (Libellum de benignitate nobilium) del quale non esiste più alcuna traccia.
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