Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Protagonista della pittura en plein air, in cui fonde l’esperienza del vero e il controllo formale tratto dal classicismo seicentesco, Corot vive l’inizio della rivoluzione pittorica in Francia. Anche se non assume un ruolo attivo, la sua arte austera e antiretorica esercita una rilevante influenza su Barbizonniers e sugli impressionisti.
Premessa
Tra Sette e Ottocento l’Italia, per la bellezza della natura e la seduzione esercitata dalle rovine e da città come Roma o Napoli, attrae in gran numero i paesaggisti europei. Lavorando en plein air, secondo una prassi consolidata e diffusa, essi acquistano esperienza nella scelta del punto di vista, nella resa di luce e colori e nella tecnica esecutiva, necessariamente veloce e diretta.
Il viaggio in Italia: verità e metodo
Quando Jean Baptiste Camille Corot arriva in Italia nel 1825 ha ventinove anni; da tre dipinge nell’atelier del paesaggista neoclassico Jean-Victor Bertin e si dedica allo studio en plein air.
Stabilitosi a Roma, Corot entra a far parte della numerosa colonia dei pittori stranieri che abitano la città e ne assume le abitudini di lavoro. Durante la bella stagione gli artisti dipingono all’aperto, spesso in gruppo: i bozzetti che ricavano, per lo più di dimensioni ridotte e realizzati con la tecnica dell’olio su carta, mirano a cogliere la luce e l’atmosfera, a catturare la fugacità di un istante in natura. Considerata la loro qualità, molti di questi studi ci appaiono opere autonome, ma per Corot e i suoi contemporanei sono piuttosto strumenti di lavoro che circolano negli atelier, vengono mostrati ad amici e colleghi, e non sono destinati al pubblico. Sono infatti le composizioni e i grandi quadri a cui gli artisti lavorano in inverno, rielaborando gli studi dal vero, le opere che vengono esposte nella sede ufficiale del Salon. In un passo di Baudelaire di Scritti sull’arte, critico verso Théodore Rousseau, emerge chiara tale distinzione: “egli incorre nel tipico errore moderno, che nasce da un amore cieco della natura [...] giacché scambia un semplice studio per una composizione [...]. Un frammento di natura [...] diviene ai suoi occhi innamorati un quadro autonomo e perfetto. Ma tutto l’incanto che l’artista sa versare in questo lembo sottratto al pianeta non sempre basta a far dimenticare l’assenza di costruzione”. Il bozzetto è in definitiva uno strumento per riattivare la memoria del pittore in atelier, una specie di diapason visivo mediante il quale ritrovare il tono giusto, l’accordo luminoso e atmosferico: al pittore viene chiesto un intervento sul soggetto che non ne prescinda, ma che non si limiti neppure a restituirlo tale e quale sulla tela.
All’interno di questa tradizione Corot opera scarti di notevole portata, si possono confrontare ad esempio il bozzetto con Il ponte di Augusto a Narni del Louvre e la corrispondente Veduta presso Narni di Ottawa, esposta al Salon del 1827.
Mentre Pierre-Henri de Valenciennes – che esercita una grande influenza sui paesaggisti più giovani di Corot – nel suo trattato (1800) consiglia di affrontare lo studio di un motivo in natura direttamente con la tecnica della pittura a olio su carta, concedendosi un tempo ridotto, Corot introduce nell’attività en plein air la pratica del disegno e tempi lunghi. L’artista ricorre al disegno per chiarire a se stesso – prima di affrontare il bozzetto – i problemi di composizione posti dalla veduta che si accinge a studiare. Innumerevoli fogli a penna o a matita, nei quali sperimenta un segno volta a volta diverso, testimoniano la sua ricerca della forma, intesa come individuazione delle masse e dei volumi nel paesaggio.
Da questa fissazione preliminare, o forse meglio – poiché essa non sempre viene attuata – dal metodo e dalle intenzioni che esprime, i bozzetti di Corot deducono l’essenzialità di impianto e la concentrazione sugli elementi di spicco della veduta. Questi caratteri sono evidenti nel Colosseo visto attraverso le arcate della basilica di Costantino e nell’Isola Tiberina, anche se i due studi sono diversi per qualità: databile agli inizi dell’esperienza italiana, il primo mostra qualche incertezza, mentre il secondo è una perfetta realizzazione che risale al 1826-1828. Entrambi riproducono luoghi canonici di Roma, spogliati di ogni particolare aneddotico e risolti in accostamenti rigorosi di forme; in essi Corot mette a punto un linguaggio che oppone la sintesi all’eccesso di descrizione di molta pittura contemporanea. La semplificazione formale è la spia di un nuovo modo di vedere la natura, spregiudicato e diretto ma non ingenuo: la misura stilistica dell’artista risale alla visione ideale e classica di Poussin, espressione della clarté propria della cultura francese, lungo una linea che da David conduce a Cézanne.
La ricerca delle strutture primarie non rende tuttavia l’artista indifferente a quanto in natura è fenomenico e mutevole. È vero che Corot imprime nei bozzetti una solennità che eleva l’attimo a durata, ma questa misura interiore si innesta su una sincerità percettiva che nella gamma limitata dei colori, nella luce che cattura la densità dell’atmosfera e, più in generale, in uno stile sobrio e sintetico trova mezzi efficaci per esprimersi.
Le polemiche al Salon parigino
Dopo il ritorno in Francia, pur continuando negli anni a servirsi degli studi italiani per i dipinti ufficiali, Corot riprende l’attività en plein air e viaggia di frequente in Francia e all’estero. L’artista torna due volte in Italia (nel 1834 e nel 1843), va spesso in Normandia e in Bretagna, e trascorre inoltre lunghi periodi nella foresta di Fontainebleau dove, a partire dagli anni Quaranta, dipinge in compagnia di alcuni tra i pittori di Barbizon (Rousseau, Daubigny, Millet). D’ora in avanti il suo interesse per il paesaggio può dirsi dominante, ma non esclusivo; Corot infatti si dedica anche allo studio di figura e al ritratto, chiedendo ad amici e parenti di posare per lui.
A partire dal 1828 si costruisce l’immagine pubblica del pittore che passa (come è usuale nella Francia di allora) attraverso il Salon. Nelle composizioni di paesaggio a esso destinate, intorno agli anni Trenta Corot sperimenta un nuovo linguaggio, mentre il suo stile negli studi en plein air si mantiene piuttosto costante. La novità più carica di conseguenze, verificabile nella Veduta presso Narni eseguita per il Salon del 1827, è l’abbandono della pittura compatta, tesa a dar conto della realtà naturale anche in una visione ricomposta in studio. Nelle opere successive – come ad esempio nel Mattino (1850 ca.) – domina un sentimento elegiaco della natura e l’immagine, più che rappresentata, sembra evocata attraverso la memoria e la soggettività dell’artista. Quasi a sottolineare la presenza di questo filtro, spesso Corot introduce nel titolo la parola “ricordo”; nuove coordinate espressive (la pennellata di tocco, i colori attestati su tonalità argentee) rivelano che la sua attenzione si rivolge a un modello settecentesco: Jean-Antoine Watteau.
I sostenitori di Corot esaltano questa pittura romantica, evocativa e sono spinti – Théophile Gautier tra i primi, nel 1844 – a proporre concordanze con la poesia di Virgilio, Orazio, Teocrito. Più prosaicamente, molti critici che scrivono sul Salon scambiano per incapacità la vaghezza di questa poesia del paesaggio: si vorrebbe da Corot “un paesaggio in cui restituisse la natura precisamente come vuole e non solo come può”, scrive Delécluze sul Journal des débats nel 1851. Le umiliazioni arrivano a Corot anche dalla giuria del Salon che lo espone più volte a bocciature clamorose: nel 1842, per esempio, due dei cinque quadri da lui presentati vengono rifiutati e nel 1846 tre su quattro.
Le critiche e l’incomprensione tipiche del clima del Salon, attorno a cui si concentrano passioni e polemiche violente in quei decenni di forti innovazioni, sono compensate dal fatto che Corot – pur non essendo un innovatore in senso programmatico – è sostenuto dai critici d’avanguardia, come Champfleury e Zola. La sua influenza su Pissarro, Berthe Morisot e gli artisti della loro generazione (che con ironia significativa lo chiamano “Papa Corot”) è apertamente riconosciuta e quando la rivoluzione del 1848 cancella la giuria del Salon egli viene nominato dai suoi colleghi membro della nuova commissione esaminatrice, quasi a risarcirlo delle assurde esclusioni subite fino ad allora.
Il ruolo storico di Corot è leggibile in queste polemiche: per la vocazione antiretorica dei suoi paesaggi, i Barbizonniers e alcuni degli impressionisti vedono infatti proprio in lui, formatosi in anni in cui l’Accademia svolge un ruolo essenziale nella vita artistica francese, un precedente autorevole nella lotta contro quella istituzione.