COROT, Jean-Baptiste-Camille
Pittore, nato a Parigi ll 16 luglio 1796, morto ivi il 22 febbraio 1875. Nei suoi primi studî, consistenti in vedute di Parigi e di Saint-Cloud (collezione David-Weill nel Musée Carnavalet, Parigi) e dipinti verso il 1822, risentì l'influsso di Bonington; conobbe anche il Michallon (1796-1822), che gli diede utili consigli. Nel 1825 il C. partì per l'Italia e vi passò tre anni, principalmente a Roma; a quest'epoca risalgono i suoi studî più celebri, come la Veduta del Foro e il Colosseo visto dall'alto del Palatino (1826), da lui lasciati al Louvre, e parecchi altri non meno preziosi (Basilica di Costantino, Veduta del ponte di Narni, ecc.), pure al Louvre. Essi si distinguono per un'accuratezza e una freschezza proprie d'un "primitivo", per la sobrietà del disegno e della composizione, e, soprattutto, per una vibrazione d'atmosfera e di tonalità che in questi ritratti della realtà inserisce un elemento d'emozione e di poesia. A questo soggiorno a Roma, egli dovette quella comprensione sottile della beltà antica che conservò per tutta la vita, e quel genere d'immaginazione che lo ravvicina al Poussin e a Claudio Lorenese e che gli dà un posto a sé nel movimento romantico. Egli fu il più personale e nello stesso tempo il più classico dei suoi contemporanei per aver saputo trarre dalla natura e dai magnifici orizzonti romani una speciale nozione del grandioso e del ritmo, una certa musica di forme, una struttura del quadro, insomma un complesso di formule di composizione, che nell'insegnamento delle scuole si erano disseccate e che egli ritrovava per istinto. Il C. ritornò in Italia nel 1834 e a Roma nel 1843. Da questo viaggio datano parecchi suoi studî famosi, come la Terrazza della villa d'Este, della collezione Rouart. E molti quadri della sua maturità sono "ricordi" dell'Italia: Ricordo d'Albano, Ricordo delle Isole Borromee. I primi lavori che il C. espose al Salon (la grande veduta del ponte di Narni, 1827) furono abbastanza bene accolti, quantunque in queste opere, eseguite nello studio alla stregua del paesaggio accademico, il pittore non riesca sempre a ritrovare la spontaneità e la freschezza dei suoi studî. Seguirono Agar nel deserto (1835), S. Girolamo (1836; nella chiesa di Ville d'Avray), la Fuga in Egitto (1840; chiesa di Rosny presso Mantes), Democrito (1841; museo di Nantes), il Battesimo di Gesù (1847; chiesa di Saint-Nicolas-du-Chardonnet a Parigi) e il patetico "notturno" del Monte degli Olivi (1849; museo di Langres). Con questi dipinti l'artista raggiunge l'apice nel genere della pittura classicheggiante. Ma frattanto ecco che egli, giunto quasi a 60 anni, sprigiona e fa sorgere improvvisamente un contenuto emotivo, una musica da tempo latente nelle sue opere. Questa trasformazione apparisce nella Danza delle ninfe (1851; Louvre), che è la prima delle sue opere veramente popolari, e nel Concerto di Chantilly (1855). Oramai v'è un non so che di più ondeggiante e di più vaporoso attorno alle cose, una prevalenza delle forme vegetali, degli stagni, dei prati, degli elementi naturali vaghi e pieni di fremiti della natura; un'atmosfera un po' magica, ombre verginali, cori, figurine pensose e isolate sembrano rappresentare l'essenza stessa delle cose, i sentimenti dell'artista e il suo stato d'animo. Questa nuova pittura ebbe un successo immenso E invero alcuni di questi quadri sono bellissimi, come il Bagno di Diana (1855; Museo di Bordeaux), Dante e Virgilio (1859), la Toilette (1858; coll. Desfossés), o il gran Baccanale del museo di Glasgow. Peraltro, la parte solida dell'opera di C. consiste sempre negli studî che egli non cessò mai di fare dal vero. Tutti gli anni nella buona stagione soleva viaggiare per esplorare una dopo l'altra tutte le provincie francesi, dapprima quelle del Mezzogiorno (tra il 1830 e il 1850), con escursioni anche nella Svizzera e in Olanda; nella seconda parte della sua vita si volse piuttosto verso il Settentrione della Francia. Il motivo in apparenza più semplice e più umile gli bastava per produrre miracoli di nobiltà e di poesia; il Castello di Beaume-la-Rolande e la chiesa di Marissel (1867; collezione Moreau-Nélaton, al Louvre), la Strada di Sin-le-Noble e i capolavori, Campanile di Douai, Cattedrale di Sens (1873 e 1874; Louvre), sono il testamento del vecchio artista, che s'innalzò a sempre maggiore perfezione e semplicità senza perdere mai nulla della sua ingenuità e morbidezza. Insieme coi paesaggi il C. si dilettò sempre a dipingere figure. Queste figure indossanti un'armatura o ravvolte in una cocolla, ma più spesso in qualche veste logora d'orientale o di contadina italiana, non furono per il C. che passatempi, e non bisogna cercarvi né pensiero, né dramma e nemmeno un titolo: in tutta la sua pittura non v'è nulla di meno letterario, ma anche nulla che tanto si avvicini alla pratica dei grandi maestri, d'un Vermeer e talvolta perfino d'un Giorgione. Molti di questi lavori si conservano ancora in collezioni private (Jamot, Dr. Viau, A. Henraux, P. Rosemberg), ma parecchi sono ormai al Louvre: basterà citare l'Uomo dall'armatura, la Monaca, la Perla (1870), l'Abito azzurro (1873), il Laboratorio. Ciò che il Chardin era stato cent'anni prima, e anche più, fu il C. nel secolo scorso. Dal 1860 i giovani tutti lo acclamavano maestro: da lui dipendono Jongkind, Eugène Boudin, Lépine; a lui si ricollegano i primi passi di Monet, di Cézanne, di Berthe Morizot; i Campi di corse di Degas e i suoi verdi così fini non sarebbero stati possibili senza l'esempio del C., che insegnò di nuovo ai pittori quanto valga l'intimità, e ricordò loro che il motivo più modesto, penetrato dal sentimento, può trasformarsi in bellezza. "La natura dà il tema: il sentimento completa". Qui è il punto di partenza dell'impressionismo, e con lo studio dell'ambiente aereo e dei "valori" il C. dava un linguaggio a quest'arte nuova della fine del sec. XIX. (V. tavv. LXXXV e LXXXVI).
Bibl.: H. Dumesnil, Corot, souvenirs intimes, Parigi 1875; R. Robaut e E. Moreau-Nélaton, L'Oeuvre de Corot, Parigi 1904-06, voll. 4; E. Moreau-Nélaton, C., Parigi 1905; P. Cornu, in Thieme-Becker, Künstler-Lexikon, VII, Lipsia 1912 (con la bibl. precedente); G. Geffroy, C., Parigi s. a.; A. Jaccaci, in Art in America, I (1913), pp. 77-90; II (1914), pp. 1-13; P. Jamot, in Revue de l'art anc. et mod., L (1926), pp. 273-81; E. Moreau-Nélton, C. raconté par lui-même, Parigi 1924, voll. 2; J. Meier-Graefe, Der Figurenmaler C., in Der Cicerone, XXI (1929), pp. 601-607; id., C., Stoccarda 1930; F. Fosca, C., Parigi 1930; P.-A. Lemoisne, in Gaz. des beaux-arts, 1931, p. 114 segg.