Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Jacques-Louis David, anticonformista di razza, vive con intensa partecipazione emotiva e politica i grandi eventi della Rivoluzione e delle imprese napoleoniche. La sua attività artistica si presta quindi a interpretazioni fortemente ideologizzate, che non fanno bene i conti, a volte, con il dato cronologico.
Dagli esordi all’impegno politico
Di fronte all’esigenza più che legittima di reintegrare la storia dell’arte nel gran fiume della Storia, Jacques-Louis David si candida quale artista esemplare. Egli rappresenta il caso eccezionale di un pittore che fa davvero politica e in modo particolarmente incisivo negli anni della Rivoluzione francese.Il rischio di un’interpretazione fortemente ideologica consiste nel proiettare sull’intera esistenza dell’artista lo stesso ripetitivo cliché, sovrapponendo al David di prima della Rivoluzione, o al David ammaliato da Napoleone Bonaparte, il David giacobino degli anni di fuoco quando vota per la decapitazione del re (1793) o quando, appostato come un cecchino, attende il passaggio di Maria Antonietta la mattina fatale del 16 ottobre 1793, per disegnarne un ritratto feroce al momento di salire alla ghigliottina.
Incandescente è oggi il dibattito sul ruolo di David negli anni del Terrore, sulle sue responsabilità e sui margini di autonomia che la storia in quegli anni gli ha consentito.
Nato a Parigi nel 1748, entra giovanissimo nello studio di Joseph-Marie Vien, pittore dalle raffinate inclinazioni neogreche.
Il suo debutto non è trionfale: dal 1770 al 1774 subisce più volte l’umiliazione di vedersi rifiutare il Prix de Rome, un soggiorno di studio in Italia che sanciva l’ingresso fra i talenti e le promesse dell’arte. Per la delusione, nel 1772, David è a un passo dal suicidio.
Nel 1775 l’artista è chiamato a dirigere l’Accademia di Francia a Roma insieme a Vien: David finalmente attraversa le Alpi, sulla scia degli artisti francesi spediti in Italia per educarsi nel culto dell’antico e del classico e, viaggiando sulla diligenza, il 4 novembre 1775 raggiunge Roma a lungo sognata.Per quattro settimane, lungo il percorso Torino, Parma, Bologna, Firenze disegna nei luoghi della grande tradizione italiana, copiando Correggio, i Carracci e Michelangelo.
Gli anni vissuti a Roma (1775-1780) segnano il destino di David pittore: l’antichità, i grandi maestri da Raffaello a Caravaggio, il senso dell’epico e del tragico sono le rivelazioni che orientano l’artista verso una tematica storica e morale, alla ricerca di un’immagine semplificata e di grande impatto visivo.
Nascono allora le prime tele importanti, come lo Studio di nudo del Museo di Cherbourg (1779), dove David è attratto dal realismo degli studi anatomici, dalle violente opposizioni di luce e ombra e dalla pittura drammatica di Caravaggio.
È con Il giuramento degli Orazi (1784) che David illustra il suo manifesto pittorico: su quattro metri di base, egli definisce il nuovo alfabeto nelle sue componenti etiche e formali. Si faccia attenzione alla data: lo scarto è di cinque anni rispetto al fatidico 1789 e il committente è niente meno che il re.
Quello che per tutti diventerà presto il vessillo della Rivoluzione francese è in realtà un dipinto finanziato da Luigi XVI per la bella cifra di 4.000 livres. Per realizzarlo David, rientrato a Parigi nel 1780, sente il bisogno d’immergersi ancora nell’antico di Roma. Dopo sei mesi di lavoro febbrile, la tela è finalmente ultimata: l’effetto è quello di “una chiamata alle armi attraverso un’opera pittorica” (Rosenblum).
Entro la scatola prospettica di uno spazio molto teatrale, il dramma assume una forza esortativa e morale fino ad allora sconosciuta in pittura. La determinazione eroica degli uomini, che giurano sopra le spade di battersi per la patria fino alla morte, è contrapposta al destino delle donne affrante e impotenti.
La tragedia sepolta nelle pagine di Tito Livio assume un’evidenza sacrale proiettandosi sulla storia presente così come, nel Giuramento della pallacorda (1791) una vicenda contemporanea attinge la dimensione epica della storia antica. Il grande disegno a penna e bistro celebra il giuramento dei 630 deputati del Terzo stato che, riuniti in una sala di fortuna a Versailles dove si pratica il gioco della pallacorda, si costituiscono in Assemblea nazionale. David accetta di commemorare l’evento sotto forma di potente ritratto collettivo, rivelando nuove potenzialità comunicative della pittura attraverso la drastica semplificazione dell’immagine e la sua statuaria evidenza.
David dipinge poi la Morte di Socrate (1787), I littori portano a Bruto i corpi dei figli giustiziati (1789), l’Assassinio di Marat (1793). I temi sono a volte di bruciante attualità, veri spunti di cronaca nera recente: il delitto contro il giacobino Jean-Paul Marat, sorpreso dal pugnale di Charlotte Corday nelle acque emollienti della tinozza da bagno, dove cerca sollievo a una malattia delle pelle. Altre volte i temi prescelti da David sono esempi di antiche virtù come Socrate e Bruto, evocati a far fronte a sacrifici imminenti.
In verità, a distanza di quasi due secoli, un intelligente libro di Robert Herbert (1972) ha provato che in realtà il Brutus di David e la tragedia scritta anni prima da Voltaire –ispirati entrambi all’estremismo di Lucio Giunio Bruto, che aveva decretato l’esecuzione dei figli colpevoli di tradimento verso lo Stato: il bene pubblico prima di qualsiasi affetto – sono stati pensati senza riferimento alle implicazioni rivoluzionarie; Voltaire del resto muore nel 1778. Sono in realtà gli eventi tumultuosi del 1789 che ridefiniscono l’ideologia del dipinto e del dramma letterario, mentre dilaga il culto di Bruto, nuovo eroe nazionale dei giacobini.
Quando poi, nella produzione inflazionata dei busti, il volto accigliato di Bruto comincia ad ambientarsi nel verde dei parchi, a essere stampato sulle carte da gioco e replicato su piatti e tazzine in porcellana lucente di Sèvres (con la scritta, ahimè, volterriana: “Mio Dio! la morte ma non la schiavitù!”), quando ormai – ricorda la duchessa d’Abrantès – “anche l’ultimo garzone-parrucchiere del villaggio più remoto di Francia non poteva non chiamarsi Muzio Scevola o Bruto”, il pittore David reagisce esplorando un antico polemicamente diverso.
L’anticonformismo davidiano
C’è un paradosso rivelatore del non conformismo davidiano in tema di cultura e di mode. Facendo attenzione alle date, infatti, risulta evidente che i suoi dipinti più radicali e “politici”, quelli che i manuali assimilano alla dizione seduttrice di art engagé (arte impegnata), sono opere prerivoluzionarie, ispirate all’intransigenza di Sparta o all’etica austera di Roma repubblicana.
È in seguito che nell’animo inquieto di David prende quota il mito di Atene, la bellezza prima della libertà e prima ancora della bellezza una grazia alessandrina e sottile, estranea a ogni tensione morale. Accade così che nel 1789, anno cruciale quant’altri mai, l’artista presenti al Salon di Parigi gli amori dissoluti di Elena e Paride, per il piacere libertino del conte d’Artois, fratello scapestrato di Luigi XVI. Il capovolgimento non è solo sul piano dei valori morali (la seduzione fra Elena e Paride piuttosto che l’amore casto ed eroico della coppia simmetrica, Ettore e Andromaca) o su quello della tradizione galante (è l’uomo svestito, accanto all’amante fasciata nel peplo). È mutato radicalmente il linguaggio ed è sparito dal quadro ogni imperativo morale.
Ma non si può restare lontani dalla vita in anni percorsi da realtà così sconvolgenti, e David non rinuncia a fabbricare le icone destinate ad alimentare quel culto degli eroi, di cui è assetata la Rivoluzione. L’occasione è la morte di Joseph Bara, un ragazzo di quattordici anni, ucciso dai soldati controrivoluzionari di Vandea per essersi rifiutato di consegnare i cavalli dell’esercito repubblicano. Bara non è certo un eroe nazionale, ma Robespierre coglie l’occasione per farne un martire dal sacrificio esemplare, pretendendo per lui gli onori del Pantheon.
David viene allora incaricato di realizzare l’immagine “da esporre nelle scuole primarie di Francia”. Ma l’artista, prima ancora che uomo politico e deputato alla Convenzione, è pittore colto e grandissimo: il suo Bara incarna pertanto il mito universale della bellezza efebica, dell’eroe giovane e incontaminato, cui David risparmia la volgarità delle ferite e del sangue. Colpito a morte dalle baionette, nudo con in mano la coccarda tricolore, il corpo è intatto e seducente come nel mito erano i corpi di Narciso e Giacinto.
La pittura dunque fabbrica le icone di una nuova trascinante religione di Stato, di cui Napoleone viene a soddisfare le esigenze di protagonismo e di culto.
Ma, anche nel caso di Napoleone, l’immagine emblematica è quella dipinta da David: Bonaparte al valico del Gran San Bernardo (1801). Un ritratto non certo fedele, ma significativo del modo in cui l’eroe vuole essere ricordato. Al pittore che intende raffigurarlo in battaglia, Napoleone avrebbe obiettato: “Voglio essere ritratto calmo, su un fiero destriero... e che si avverta la presenza del genio”. Così quel passaggio attraverso le Alpi – avvenuto in realtà a dorso di mulo – si configura come l’eroica vittoria di un generale e del suo cavallo contro la furia degli elementi, contro l’inaccessibilità delle vette rocciose e soprattutto contro la grigia routine. Nel vento gelido che sferza la criniera e il mantello, Napoleone ascende verso la gloria assai più che verso il valico alpino, e negando ogni proporzione con i soldati raffigurati sul fondo, entra trionfalmente nella leggenda.
Su immagini di così eroica e sacrale bellezza corre la galleria dei ritratti di David, album di memorie tutte incancellabili, come il Ritratto dei coniugi Lavoisier (1788), quello della Marquise d’Orvilliers (1790), quello celeberrimo di Madame Récamier (1800) o il Ritratto di Madame Pastoret (1792). Nel dipinto Louise Pastoret ha 26 anni e un bambino nella culla le è raffigurato accanto. Essa appartiene all’alta borghesia parigina, quella più liberal e progressista e verrà imprigionata durante il Terrore. David la ritrae – prima ancora che bella – intelligente, moderna e non priva di spiritualità. L’interno è spoglio, lei indossa una veste da casa, i capelli sono molto nature. Cuce qualcosa per il suo bambino, come amano fare le donne colte che nel Settecento scoprono il piacere dei figli nel nuovo culto dell’affettività (domesticity), appena introdotto dall’Inghilterra. Ma è David che, stagliando il ritratto sul “non finito” del fondo, renderà memorabile Madame Pastoret e quel gesto sospeso, per guardare oltre il quadro.
L’esilio e lo “stile Bruxelles”
Alla caduta di Napoleone, David con coerenza sceglie l’esilio volontario a Bruxelles, né mai scrive quella lettera al re che gli avrebbe forse consentito il ritorno.
Dal 1814 fino alla morte, nel 1825, l’artista continua a misurarsi da lontano con la scena parigina, dove Anne-Louis Girodet, Eugène Delacroix e Jean-Louis-Théodore Géricault sono i nuovi astri nascenti, decisamente romantici.
Tuttavia lo “stile Bruxelles”, quello stile molto finito in cui David sposta radicalmente i termini del suo rapporto con l’antichità (un’antichità sentita in chiave intimista piuttosto che morale ed eroica), è solo l’evolversi di scelte avviate già in precedenza e pochissimo amate dai contemporanei (Saffo, Faone e Cupido, 1809). Scelte che David difende con audacia di fronte all’avanzare dell’onda romantica, e che gli consentono, a 75 anni, di resuscitare l’Olimpo e la Grecia in un arabesco elegante come Venere e Marte (1824) e d’immaginare nell’Ira di Achille (1819) un’Ifigenia languida e opalescente, di atemporale e affascinante purezza.
Il 29 dicembre 1825, dopo un attacco cardiaco, David spira fra le braccia del figlio Eugène. Il suo corpo viene imbalsamato e il cuore racchiuso in un’urna d’argento che da Bruxelles viene trasportata a Parigi nel cimitero di Père-Lachaise.