Feyder, Jacques
Nome d'arte di Jacques Frédérix, regista, sceneggiatore e attore cinematografico belga, nato a Ixelles (Belgio) il 21 luglio 1885 e morto a Prangins (Svizzera) il 25 maggio 1948. Tra i più importanti registi del cinema muto francese, mise a frutto anche nel sonoro una rilevante conoscenza del mezzo cinematografico e uno spiccato gusto per i valori figurativi del film. Accusato di freddezza rispetto a quei modelli letterari che, in molti casi, furono la materia dei suoi film, il lavoro di F. ha rivelato a distanza di tempo una maggiore complessità. Il distacco e la chiarezza con cui il regista ha rinnovato e approfondito la tradizione del realismo, la cura per l'ambientazione, per l'articolazione del racconto e per la recitazione diedero un'impronta 'classica' a tutto il suo cinema.
Abbandonato il tetto paterno per amore dell'arte, rivelando molto presto interessi per la pittura, nel 1911 F. giunse a Parigi e, attratto dal mondo dello spettacolo, prese lo pseudonimo da Rue Faider, una strada percorsa nel suo vagabondaggio verso Parigi. Iniziò così la carriera di attore, sia in teatro sia nel cinema, lavorando anche come assistente di Gaston Ravel. Ben presto divenne regista, realizzando nel 1916 Têtes de femmes, femmes de tête. Dopo aver sposato l'attrice Françoise Rosay, in seguito interprete favorita di alcuni suoi film, nel 1917, e fino alla conclusione della guerra mondiale, F. fu impegnato come attore di una troupe militare diretta da Victor Francen. Di ritorno in Francia, il regista avviò in modo sistematico la sua attività con La faute d'ortographe (1919). A partire dal 1920 egli girò i suoi film più significativi, il primo dei quali fu L'Atlantide (1921; Atlantide). Celebre e fortunato esempio di kolossal, tratto dal romanzo di P. Benoît su Atlantide, fantasmagorica città sommersa, ricco di un intreccio assai suggestivo e di grandiosi effetti visivi, il film fece emergere in modo originale la presenza di un paesaggio denso, quasi allucinante, come se fosse il paesaggio stesso il vero protagonista della storia. Con Crainquebille (1923, tratto dal racconto di A. France) F., autore anche delle scenografie, seppe narrare in modo rapido ed efficace la vita dei sobborghi parigini. Il racconto, d'impianto realistico, possiede però un deciso registro grottesco, e F. riuscì a trovare un equilibrio visionario a metà strada fra le suggestioni di David W. Griffith e gli effetti visivi di Georges Méliès, come si evince dalla sequenza del tribunale, in cui, attraverso un trucco semplice ma didascalico, la figura gigantesca del pubblico ministero stride con la figura piccolissima, quasi inerme, dell'unico teste della difesa. In Visages d'enfants (1925; Volti di fanciulli) sia per il tema (l'infanzia) sia per la scelta di un linguaggio semplice e lineare, sono presenti i motivi che caratterizzano la sua produzione più riuscita. Dopo una storia di ossessioni e di 'doppi', intorno al ritratto fotografico di una donna reale vanamente cercata, L'image (1925), con Gribiche (1926, da una novella di F. Boutet) F. riprende il tema dell'infanzia, trattato con sensibilità e delicatezza. Seguirono Carmen (1926), con protagonista Raquel Meller, e Thérèse Raquin (1928; Teresa Raquin). Mentre il primo pecca di freddezza e non coglie né la semplice sensualità del racconto di P. Mérimée, né la sferzante raffinatezza dell'opera di G. Bizet, il secondo film è sorretto da un saldo impianto narrativo. Con Thérèse Raquin F. contribuì al consolidamento di quella scuola di naturalismo francese che poi, nel decennio 1930-1940, avrebbe trovato la sua massima espressione. Nel 1928 F. accettò un contratto con la Metro Goldwyn Mayer e si trasferì a Hollywood. L'esperienza risultò deludente e l'unico film di rilievo fu The kiss (1929; Il bacio), in cui il regista diresse Greta Garbo nel suo ultimo film muto. Rientrato in Francia nel 1931, F. realizzò Le grand jeu (1933; La donna dai due volti), scritto con Charles Spaak. Riappare il 'doppio' in una storia che gioca sul tema (preso poi in prestito da A. Hitchcock) di un uomo ossessionato dalla visione di una donna bionda un tempo amata e che ritorna nella figura di una donna bruna. Il film non è esente da una certa confusione narrativa. Tuttavia F. mostrò una discreta ingegnosità, arrivando a utilizzare il doppiaggio per arricchire i meccanismi del turbamento con la scelta di far parlare la protagonista, Marie Bell, sia con la propria voce sia con quella di Claude Marcy, a seconda del personaggio che riveste. Con Pension Mimosas (1934; Pensione Mimosa) e La kermesse héroïque (1935; La kermesse eroica) F. realizzò i suoi ultimi film importanti. Il primo, scritto con Ch. Spaak, si avvale delle scenografie di Lazare Meerson per seguire la storia di una donna che si innamora del figlio adottivo, il quale non mostra alcuno scrupolo nello sfruttare la situazione. La kermesse héroïque, che molti ritengono il capolavoro di F., condensa molto dello spirito e dello stile del regista. Ambientato nel 17° sec., il film narra l'arrivo del duca di Olivares, governatore spagnolo dei Paesi Bassi, in una cittadina delle Fiandre, ricostruita da grandi scenografi come Meerson, Alexandre Trauner e Georges Wakhévitch. Le donne del paese, superando il risentimento dei loro uomini, preparano un caloroso quanto ambiguo, esagerato benvenuto. Sull'attrazione e repulsa per il 'nemico', F. costruisce un florilegio di cura delle immagini e della forma, rifacendosi con precisione alla pittura fiamminga cinquecentesca e seicentesca. All'uscita, il film fu da alcuni criticato e giudicato reazionario. F. decise quindi di lasciare la Francia dirigendosi a Londra, dove Alexander Korda gli commissionò Knight without armour (1937; La contessa Alessandra), tratto da un racconto di J. Hilton, con Marlene Dietrich. Ancora in Francia realizzò poi nel 1939 La piste du Nord, noto anche come La loi du Nord, un film proiettato nella versione originale solo nel 1942. Durante l'occupazione nazista, F. e la moglie si rifugiarono in Svizzera e nel 1944 scrissero un libro di memorie, Le cinéma, notre métier. L'ultimo lavoro di F. fu la supervisione di Macadam (1946; L'albergo della malavita) di Marcel Blistène.
P. Billard, L'âge classique du cinéma français. Du cinéma parlant à la Nouvelle Vague, Paris 1995, passim.