SANGUINACCI, Jacopo
– Figlio di Giovanni, nacque a Padova intorno al 1400.
Sulla sua vita, a fronte di una consistente mole di testi tramandata da un’articolata tradizione manoscritta, non sappiamo moltissimo. Si dedicò agli studi liberali, conseguendo il dottorato (artium doctor) nella locale università il 14 aprile 1426, dopo essere stato licenziato nelle arti il 20 settembre 1425. Il 10 febbraio 1427 risulta tra i centum cives imbussolati ad officia e nel 1429 fra i consiglieri del Comune, carica che conservò anche l’anno successivo; non abbandonò tuttavia gli studi, anzi frequentò le lezioni di diritto come scolaro utriusque iuris, secondo quanto appare dal cod. 970 della Biblioteca Trivulziana di Milano (c. 5r), contenente tra l’altro sue rime e due lettere in prosa volgare di cui una, frammentaria e adespota, attribuibile a Sanguinacci e l’altra, intera, esplicitamente a lui attribuita (entrambe sono prive dell’indicazione del destinatario). Aveva possedimenti in Tencarola, poco lontano da Padova, come si ricava da una pergamena del locale Archivio civico (fondo Bagarotto-Polcastro, mazzo CXCVIII, n. 3947), che ricorda l’investitura iure livelli fatta dall’abate del monastero di Peraga a un certo Jacopo q. Pietro Maroni, relativa a un appezzamento nel territorio di Tencarola, in contrada de precem, confinante con i beni di Jacopo Sanguinacci.
Nel 1434 giunse alla corte di Ferrara, attratto dal mecenatismo degli Estensi, che aveva già reso diversi favori a letterati e artisti. Durante il suo soggiorno si costruì fama di improvvisatore volgare, ammirato da Guarino Veronese, che insegnava allora a Ferrara, «sì per la spontaneità della vena poetica, come per la facilità con cui tesseva l’encomio ed il biasimo del medesimo soggetto alla maniera dei sofisti» (Sabbadini, 1904, p. 246). È in questa occasione che Leonello, non ancora marchese (lo diverrà nel 1441, succedendo al padre Niccolò III), gli commissionò «una poesia che lo consigliasse sull’opportunità o meno di seguire gli impulsi d’amore» (Pantani, 2002, p. 41).
Dall’invito nacque la canzone Non perch’io sia bastante a dechiararte, la creazione più nota e fortunata di Sanguinacci, recitata in un’esibizione di poesia alla corte di Ferrara; fu in quel frangente, e in relazione a questa canzone, che Guarino formulò il giudizio appena citato.
Essa è infatti divisibile in due parti, la prima delle quali offre «un elenco dei topoi letterari di biasimo per l’amore e le donne», mentre la seconda «cambia registro ed esalta Amore-dittatore e la donna ispiratrice di poesia, con modi stilnovistici e petrarcheschi» (Tissoni Benvenuti, 1972, p. 34). Il cambio di registro si avvale, tra l’altro, del supporto di alcuni autori classici come Ovidio, Omero e Virgilio, innestati sullo sfondo delle tre corone volgari: «per amor fece aquisto / d’ogni sua laude Ovidio, el nostro lume; / per amor Dante e ’l tuo Boccaccio caro, / lassando gli altri, avranno eterna fama [...]. / Vedi la fonte d’ogni bel costume, / d’ogni eloquenzia e d’ogni bel vulgare, / poeta singulare, / misser Francesco, che Fiorenza onora! [...]. // Per amor scrisse Omer sì alti versi / che sempre viverà la sua memoria; / perpetua fama e gloria / del buon Virgilio sempre serà al mondo» (Balduino, 1980a, p. 16; vv. 93-96, 99-102, 106-109). Sotto l’insegna dell’amore il poeta padovano riesce dunque a raggruppare tradizione classica e letteratura in volgare, seppure in uno scenario in cui, per quanto riguarda Omero, Virgilio e Ovidio, non si va oltre un generico riconoscimento di fama e gloria eterne come merito per i propri versi d’amore.
Il soggiorno ferrarese dovette essere comunque abbastanza breve, se è vero che già nel 1435, da Padova, Sanguinacci inviava al doge Francesco Foscari il lungo serventese Oh incoronato regno sopra i regni, un vero e proprio «Triumphus in laudis civitatis Venetiarum», come recita la didascalia del codice Isoldiano (Bologna, Biblioteca universitaria, 1739, c. 167r). È comunque certo che il poeta si trovava nella città di Antenore dal 1436; nel 1439 tornò a rivolgersi al doge Foscari, a nome dei concittadini (dinanzi ai pericoli che sembravano minacciarli in seguito alla congiura tentata da Marsilio da Carrara), con la canzone Vorei, principe excelso, inclito e pio, appellandosi alla sua «somma excelsitudine» (v. 107) affinché «a tanta amaritudine» (v. 108) prestasse «soccorso con dolcezza» (v. 109), e cercando soprattutto di dimostrare che Padova non meritava «infamia, né tristezza» (v. 113). La canzone Inclita dona, intrepida e pudica si riferisce invece a fatti politico-militari che, in quello stesso 1439, si andavano sviluppando nella zona cruciale della terza guerra veneto-viscontea. Anche se formalmente si tratta di un appello rivolto a «Bresa fedelissima e virile» (v. 56) per rincuorarla e incitarla alla lotta, più verosimilmente fu scritta da Sanguinacci per confermare «la sua sincera partecipazione al destino dei domini della Repubblica» (Balduino, 1980b, p. 301), della quale tornava a esaltare i condottieri e la generosità. Negli atti dell’Archivio notarile di Padova il nostro autore appare fino al 1441, ed è lui stesso forse quel «Jacomino de Sanguinaccis» che figura tra i testimoni in un processo all’Ufficio della Volpe il 17 luglio 1442; dopo questa data non troviamo più cenno di lui e appare quindi lecito ipotizzare che sia morto, presumibilmente a Padova o nelle vicinanze, verso la fine del 1442 o poco dopo.
La sua produzione poetica consta almeno di 30 componimenti (oltre a questi, c’è qualche raro caso d’incerta attribuzione): 5 sonetti, 13 canzoni, 9 serventesi (capitoli quadernari), 2 frottole e 1 sestina, con una netta prevalenza dei metri lunghi su quelli brevi che è già indice di un notevole distanziamento dall’esempio petrarchesco. Tale allontanamento trova conferma sul piano dei contenuti, dove il tema amoroso, pur rimanendo quello più trattato, deve subire la forte concorrenza di testi di carattere politico, autobiografico, morale e religioso, in uno scenario molto diverso dalla quasi monotematicità amorosa dei Rerum vulgarium fragmenta.
Questi dati si riflettono inoltre sulla tradizione manoscritta, non a caso notevolmente frammentaria e dispersiva: allo stato attuale delle ricerche, infatti, sono noti ben 59 manoscritti che riportano componimenti del poeta padovano, molti dei quali caratterizzati dalla presenza di uno o due testi, sintomo di una fruizione principalmente antologica della sua poesia.
L’opera di Sanguinacci risulta visibilmente eterogenea, e attardata su modalità proprie della poesia cortigiana trecentesca. Particolarmente familiari a Jacopo risultano infatti esperienze poetiche come quelle di Francesco di Vannozzo, padovano anch’egli, Antonio da Ferrara e Simone Serdini, nella cui produzione predominano i toni parenetici e sentenziosi. Dai tre autori appena citati Jacopo eredita, tra l’altro, una forte dose di autobiografismo che è tra le cifre più tipiche della sua poesia e che lo porta a descriversi, nel sonetto Un longo ben faremo, ozi farò, come un inguaribile squattrinato preda degli usurai: «Ogni dì imparo e sempre manco so, / impoverisco e vengo più cortese; / io biasmo meco molte enorme spese / e poi spendo più de quel che ho. // Sotto mille stracolli e mille usure / vivo in affanno [...]» (Cestaro, 1913, p. 29, n. 2, con qualche modifica alla punteggiatura; vv. 5-10). Ne consegue, in sintonia con la produzione poetica cortigiana trecentesca, una certa predilezione per i toni del «lamento» e della «disperata», particolarmente congeniali alla poetica di Jacopo: «così senza mai pace al mio dispetto / camino a morte, e cum pianti e sagure / de ozi in domane ognor pezo m’avene» (vv. 12-14).
Per quanto riguarda la fortuna di Sanguinacci, giova segnalare che la sua canzone Deh, muta stil ormai, giovenil core è citata integralmente dal poeta e umanista padovano Francesco Baratella nel Compendium particulare Artis Ritmice in septem generibus dicendi (1447) come esemplare della Cantio moralis extensa in pratica, con la sottolineatura, al termine di ogni strofa, della presenza del ritornello (Retornellus). Infine, a testimoniare che il soggiorno ferrarese di Jacopo lasciò tracce durature in ambito estense, abbiamo diverse riprese, da parte di Boiardo (Amorum libri tres, L’inamoramento de Orlando I e II, Pastorale X), di versi di Sanguinacci (Esposito, 2014, p. 6): lo stile oratorio di Jacopo risultava dunque fruibile e almeno discretamente in voga, a Ferrara, ancora all’altezza dei primi anni Ottanta del Quattrocento.
Opere. Si segnalano i codici più importanti, per quantità o rilevanza di testimonianze, contenenti testi di Sanguinacci: Berlino, Deutsche Staatsbibliothek, Hamilton 348; Bologna, Biblioteca Universitaria, 1739 (codice Isoldiano); Firenze, Biblioteca Riccardiana, 1154; Mantova, Biblioteca Castiglioni, Codice di rime volgari; Milano, Biblioteca Trivulziana, ms. 970; Oxford, Bodleian Library, Canoniciano it. 81; Padova, Biblioteca Universitaria; Udine, Biblioteca comunale Vincenzo Joppi, 10 (codice Ottelio); Città del Vaticano, Biblioteca apostolica Vaticana, Vaticano Latino 5166; Reginense Latino 1973; Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, It. IX.105 (= 7050).
Edizioni: F. Baratella, Compendium particulare Artis Ritmice in septem generibus dicendi, edizione a cura di G. Grion, Bologna 1869 (rist. anast. Bologna 1970, pp. 193-197); G. Ferraro, Alcune poesie inedite del Saviozzo e di altri autori tratte da un ms. del sec. XV e pubblicate dal prof. G. Ferraro, Bologna 1879, pp. 11-14; A. Cinquini, Un’importante silloge di rimatori italiani dei secoli XIV e XV, in Classici e Neolatini, V (1909), pp. 121-128 e 222-244, VII (1911), pp. 373-386 (in partic. pp. 374-377), VIII (1912), pp. 1-38, 121-152 e 364-378; L. Frati, Le rime del codice Isoldiano, Bologna 1913, I, pp. 264-280, 284-300, II, pp. 67-69; L. Banfi, Il manoscritto Trivulziano 970 (con una frottola e una sestina di J.S.), in Giornale storico della letteratura italiana, LXXIII (1956), pp. 207-226 (in partic. pp. 216-225); G. Arrighi, Canzone per Leonello d’Este raccolta da Felino Sandei dello studio di Ferrara, in Rinascimento, s. 2, 1962, vol. 2, pp. 203-210; A. Balduino, Rimatori veneti del ’400, Padova 1980a, pp. 14-17.
Fonti e Bibl.: L. Giustinian, Poesie edite e inedite, a cura di B. Wiese, Bologna 1883, pp. 349-351 (rist. anast. Bologna 1968); E. Pèrcopo, J. S., in Giornale storico della letteratura italiana, IV (1886), pp. 496-498; L. Biadene, Un manoscritto di rime spirituali (cod. Hamilton 348), in Giornale storico della letteratura italiana, V (1887), pp. 185-214 (in partic. pp. 209-210); E. Lamma, Di alcuni petrarchisti del secolo XV, in Il Propugnatore, XX (1887), parte II, pp. 202-236 e 384-407 (in partic. pp. 205, 220-222 e 225); R. Sabbadini, La scuola e gli studi di Guarino Veronese, Catania 1896, p. 161; M. Vattasso, Una miscellanea ignota di rime volgari dei secoli XIV e XV, in Giornale storico della letteratura italiana, 1902, vol. 39, pp. 32-53, vol. 40, pp. 66-119 (in partic. p. 91); R. Sabbadini, Briciole umanistiche, ibid., 1904, vol. 22, pp. 244-258 (v. briciola XV alle pp. 246 s.); B.C. Cestaro, Rimatori padovani del secolo XV, Venezia 1913, pp. 22-34, 174-179; A. Tissoni Benvenuti, Quattrocento settentrionale, Bari 1972, pp. 33-38; A. Balduino, Le esperienze della poesia volgare, in Storia della cultura veneta, III, 1, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980b, pp. 265-367 (in partic. pp. 299-304); D. De Robertis, L’esperienza poetica del Quattrocento, in Storia della letteratura italiana, dir. da E. Cecchi e N. Sapegno, III, Il Quattrocento e l’Ariosto, Milano 1988, pp. 429-432 e 784; B. Bentivogli, La poesia in volgare, in Storia di Ferrara, VII, Ferrara 1994, pp. 173-213 (in partic. pp. 176-186); I. Pantani, «La fonte d’ogni eloquenzia». Il canzoniere petrarchesco nella cultura poetica del Quattrocento ferrarese, Roma 2002, pp. 11 s., 40-42, 100-105; C. Montagnani, La festa profana. Paradigmi letterari e innovazione nel Codice Isoldiano, Roma 2006, pp. 24, 24n, 28, 31 s., 33n, 36, 38n, 40, 110, 120-122, 130, 154, 156 s., 164; D. Esposito, Le rime di J. S., tra memorie classiche e tradizione volgare, in Studi (e testi) italiani, XXX (2012), pp. 9-30; Id., Eredità della poesia padovana di primo Quattrocento, in I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo. Atti del XVII Congresso dell’ADI - Associazione degli Italianisti, ... 2013, a cura di B. Alfonzetti - G. Baldassarri - F. Tomasi, Roma 2014, http:// www.italianisti.it/Atti-di-Congresso?pg= cms&ext =p&cms_codsec=14&cms_ codcms=581 (v. pp. 6-7; 2 agosto 2017); Id., J. S., in Atlante dei canzonieri in volgare del Quattrocento, a cura di T. Zanato - A. Comboni, Firenze 2017, pp. 688-690.