NARDI, Jacopo
– Nacque a Firenze, popolo di S. Piero Scheraggio, il 20 luglio 1476, figlio di Salvestro di Piero e di Lucrezia di Bardo, in una famiglia ottimatizia i cui membri in passato avevano ricoperto non di rado cariche pubbliche.
Non si sa molto dei suoi primi 25 anni di vita e tutto quello che si può dire relativamente alla sua educazione, forse maturata nell’ambito dello Studio fiorentino, è che dovette essere improntata a una forte religiosità e caratterizzata da una cultura umanistica. Il pensiero successivo di Nardi testimonia la sua adesione alla predicazione e alla dottrina savonaroliane, tuttavia, a eccezione di qualche raro riferimento autobiografico, non siamo in grado di documentare la sua partecipazione attiva alle vicende legate al frate domenicano, che si conclusero con il rogo del 1498.
All’inizio del nuovo secolo risalgono le prime opere letterarie di Nardi note e i suoi primi incarichi politici. Collocabili intorno al 1501 sono due poesie latine inviate ad Alessio Lapaccini, mentre la Comedia di amicitia venne scritta presumibilmente negli anni 1502-03. Almeno dal 1505 ricoprì alcuni incarichi minori, mentre nell’ultimo bimestre del 1509 fu priore e nel 1511 gonfaloniere di compagnia. Nel frattempo, fu un assiduo frequentatore del cenacolo culturale degli Orti Oricellari, dove ebbe modo di frequentare Machiavelli. La restaurazione medicea del 1512 non gli nocque più di tanto: fu in buoni rapporti con i Medici al punto che molte delle sue opere furono associate alle celebrazioni di quella famiglia.
Nel 1513 scrisse I sette trionfi del secol d’oro in occasione dei festeggiamenti per l’elezione al soglio pontificio di Leone X (Giovanni de’ Medici) e in quello stesso anno dedicò a Lorenzo de’ Medici duca di Urbino la sua commedia I due felici rivali. Alla figura di Lorenzo si ricollega anche la Canzona sopra il carro delle tre dee, che sembrerebbe essere stata composta nel 1518 in occasione del matrimonio del Medici con Madeleine de la Tour d’Auvergne.
In quegli stessi anni Nardi ricoprì anche diverse cariche pubbliche, come approvatore degli Statuti delle arti e membro dei Sedici gonfalonieri. Nel 1517 sposò Lena (Elena) di Piero Bettini, appartenente a una famiglia dalle solide tradizioni savonaroliane: il fratello Luca fu autore di una nota apologia in difesa del frate e la stessa Lena viene ricordata nelle cronache per una miracolosa guarigione ricondotta a un ritratto del predicatore domenicano. Sappiamo che nel 1524 i due avevano già avuto cinque figli maschi.
Del breve periodo repubblicano iniziato nel 1527 con l’espulsione dei Medici da Firenze e durato fino al 1530, quando, con l’ausilio delle armi imperiali, papa Clemente VII de’ Medici riprese il controllo della città a beneficio della propria famiglia, Nardi fu uno dei protagonisti, ricoprendo l’incarico di cancelliere delle Tratte. A seguito della restaurazione medicea, contro l’inevitabile ritorsione a nulla valsero le parole di raccomandazione spese in suo favore dall’amico Girolamo Benivieni: il 2 dicembre 1530 fu condannato a un esilio triennale a Petigliolo, a poche miglia da Firenze, in una residenza di sua proprietà. Nel novembre 1533, al termine del bando, la pena fu inasprita e gli venne imposto un trasferimento a Livorno che mirava, per lui come per molti altri, a indebolire il legame con Firenze e con i suoi cittadini.
La definitiva introduzione di un principato ereditario, con cui culminò la serie di riforme introdotte dai Medici per superare l’assetto repubblicano, e la nomina di Alessandro de’ Medici a duca di Firenze tolsero presumibilmente a Nardi le speranze di rientrare in patria. Prese dunque una decisione che avrebbe segnato per sempre la sua vita: nel dicembre 1533 ruppe il confino e si trasferì a Venezia, all’epoca culla degli esuli fiorentini antimedicei. L’inevitabile conseguenza di quella scelta non tardò ad arrivare: con un provvedimento degli Ufficiali dei ribelli datato 4 luglio 1534 fu dichiarato ribelle e fu decretata la confisca dei suoi beni.
Molto ben accolto a Venezia, in breve tempo divenne uno dei protagonisti del folto gruppo dei fuoriusciti repubblicani fiorentini. La situazione economica in cui versava non era florida e a dispetto della fatica che gli costavano leggere e scrivere si dedicò a lavori di traduzione dal latino al volgare che gli consentirono di guadagnare qualcosa per sé e per i propri figli. Al contempo fu anche tra i principali protagonisti – a livello sia politico sia letterario – delle molte trame che miravano alla riconquista di Firenze e che ripresero vigore dopo la scomparsa dell’‘odiato’ papa Clemente VII e la successiva elezione di Paolo III Farnese.
In quel periodo si dedicò, oltre che alla traduzione del Pro Marcello di Cicerone, alla redazione di due scritti polemici ad alto tasso di impegno politico. Il primo, il Discorso fatto in Venezia contro i calunniatori del popolo fiorentino, a quanto sembra venne recitato il 20 settembre 1534, soltanto cinque giorni prima della scomparsa di Clemente VII, già malato da tempo. Si tratta di un vero e proprio manifesto politico, che si propone di giustificare la presenza e l’azione degli esuli fiorentini a Venezia al cospetto delle autorità locali. Nardi vi contrappone platealmente la ‘tirannide’ medicea alla ‘libertà’ repubblicana, ripercorrendo i fatti recenti della storia fiorentina dal 1494 in poi con un tono fortemente ideologizzato: il periodo repubblicano è mitizzato mentre il governo mediceo viene bollato come un regime dispotico e sanguinario. Nardi passa in rassegna i vari membri della famiglia Medici che si sono succeduti al potere, mantenendo immutato il suo giudizio fortemente negativo per i danni da essi arrecati a Firenze e alla sua tradizionale libertà repubblicana. Un posto di primo piano nella sua invettiva è riservato a Clemente VII, di cui si sottolineano l’empietà, l’avarizia e l’ambizione, colpevole di aver rivolto le armi straniere contro la sua stessa patria e di aver fatto spargere il sangue dei suoi concittadini. La polemica però non è circoscritta ai soli Medici e ai loro sostenitori: nel mirino ci sono anche gli ottimati che hanno escluso i popolari dal governo di Firenze, favorendo implicitamente l’affermazione di un principato che a sua volta li avrebbe estromessi dal potere.
Seguì a breve distanza di tempo il Discorso fatto in Venezia dopo la morte di papa Clemente settimo l’anno 1534 ad istanza di alcuni gentiluomini viniziani per informazione delle novità seguite in Fiorenza dall’anno 1494 insino al detto anno 1534. L’opera, certamente meno rilevante dell’altro Discorso, altro non è che una sintetica rassegna di fatti storici e in realtà si concentra sui primi anni dell’arco di tempo considerato, analizzando quasi esclusivamente gli eventi succedutisi fino al 1512.
Nei due anni successivi, più che in qualsiasi altro momento della sua vita, l’afflato politico che emergeva dalle opere del Nardi si spostò dal piano letterario a quello dell’azione concreta. Il 1535 e il 1536 furono segnati dalle estenuanti trattative diplomatiche dei fuoriusciti fiorentini al cospetto dell’imperatore Carlo V d’Asburgo per estromettere il duca Alessandro e poter rientrare a Firenze. Dopo un primo abboccamento nel 1535 a Barcellona, l’incontro decisivo avvenne nel gennaio 1536 a Napoli, dove l’imperatore era arrivato pochi giorni prima di ritorno dalla vittoria di Tunisi. In quell’occasione Nardi rivestì un ruolo da protagonista, sia perché venne eletto tra i sei procuratori di libertà sia perché prese personalmente parte alla stesura di molti dei documenti presentati per perorare la causa dei repubblicani.
Tra questi, vanno ricordati il Discorso porto in Napoli agli agenti cesarei in favore dei fuorusciti di Firenze, essendo S.M. in quella cittàa’ dì 2 di gennaio 1536, e l’Esposizione del salmo quinto «Verba mea auribus percipe», redatta da Nardi dopo l’incontro con Carlo V e inviata all’imperatore. Il testo più noto apparso in quella circostanza è tuttavia l’Orazione a Carlo V, la cui redazione attuale apparentemente non è del tutto conforme a quella originale, ma che venne certamente recitato dal letterato fiorentino al cospetto dell’imperatore. Una delle argomentazioni centrali di quegli scritti era costituita dal presunto tradimento degli accordi del 1530 da parte del duca Alessandro, che formalmente si era impegnato a rispettare la libertà di Firenze, di cui lo stesso Asburgo si era fatto garante. Secondo Nardi, l’imperatore era stato ingannato, in quanto gli era stato fatto credere che nel 1527 i Medici fossero stati cacciati a forza da Firenze, mentre erano andati via spontaneamente. L’atteggiamento tirannico del duca era il nodo attorno al quale i fuoriusciti costruivano l’impianto argomentativo finalizzato a ottenere un intervento di Carlo V per modificare l’assetto istituzionale di Firenze e ripristinare la Repubblica. In quest’ottica venivano elencati i presunti soprusi compiuti da Alessandro e da Clemente VII, inclusi gli esili, le incarcerazioni e le esecuzioni di molti oppositori. A essi si aggiungeva l’aggravante secondo cui il duca era un usurpatore, asceso al governo contro la volontà popolare.
Come era prevedibile, le invocazioni di Nardi e degli altri fuoriusciti non ebbero l’effetto sperato. Carlo V aveva sostenuto Alessandro de’ Medici sin dal primo momento e, al di là degli idealistici richiami a giustizia e libertà, non aveva nessun motivo specifico per intervenire su una realtà politica e istituzionale che aveva già ampiamente avallato. Al contrario, in quello stesso anno fu celebrato il matrimonio tra il duca Alessandro e Margherita d’Austria, figlia naturale di Carlo V, un gesto plateale e inequivocabile che comprovava ulteriormente l’appoggio imperiale ai Medici.
La scarsa fortuna incontrata con Carlo V non fu l’unico dei problemi dei fuoriusciti, che nel 1535, complice un avvelenamento apparentemente organizzato dallo stesso Alessandro, avevano perso il loro candidato alla successione alla guida di Firenze, Ippolito de’ Medici. La loro causa, infine, fu ulteriormente indebolita da un’insanabile spaccatura interna, che vide contrapposti i ‘grandi’ ai ‘popolari’, spesso divisi sugli obiettivi e sui modi per ottenerli. Logica conseguenza di questa congiuntura negativa fu il riflusso che portò alla dispersione del gruppo degli esuli, incluso Nardi, il quale ottenne la nomina a podestà di Cingoli e si ritirò temporaneamente nelle Marche.
Nel gennaio 1537 l’improvviso assassinio del duca Alessandro per mano di Lorenzino de’ Medici aprì nuovi spiragli per la causa repubblicana e lo stesso Nardi si fece coinvolgere nel gaudio generalizzato scaturito dalla scomparsa del ‘tiranno’. In conseguenza di quell’inaspettato accadimento, Nardi – che pure si definiva «vecchio, debole e senza un soldo» (Pieralli, 1901, p. 169) – tornò a Venezia, dove si trovavano gli altri esuli repubblicani fiorentini, incluso Filippo Strozzi, il loro esponente più rappresentativo. Tuttavia, dopo sette mesi di progetti e speranze, la sconfitta dell’esercito dei fuoriusciti a Montemurlo contro le truppe del nuovo duca Cosimo I de’ Medici e la conseguente incarcerazione di Strozzi misero nuovamente fine al sogno della restaurazione repubblicana a Firenze. Nardi, che ancora una volta aveva preso parte in prima persona allo svolgersi degli eventi riversandovi tutto il suo entusiasmo, dovette subire l’ennesima cocente delusione e decise di ritirarsi a vita privata.
Da quel momento in poi visse quasi sempre a Venezia, dove continuò a essere uno degli membri più rappresentativi della folta comunità fiorentina. Ormai anziano, stanco e disilluso, si riavvicinò al duca Cosimo (dal quale a partire dal 1543 ricevette anche un sussidio di cinque ducati al mese) e ripiegò sull’attività letteraria ed epistolare.
Per cominciare, lavorò alla traduzione delle Deche di Tito Livio, che pubblicò per i Giunti a Venezia nel 1540 con dedica ad Alfonso d’Avalos. Negli anni Quaranta e Cinquanta fu autore di molte lettere all’amico Benedetto Varchi (all’epoca intento a redigere la Storia fiorentina), nelle quali ripercorreva a beneficio del sodale gli avvenimenti degli ultimi decenni. Alla volontà di assecondare le richieste di Benedetto però faceva da contraltare la riluttanza di Nardi a ripercorrere eventi per lui dolorosi: «Io volentieri vorrei non mi ricordare di nulla», scriveva nel 1548 (Pieralli, 1901, p. 183).
Nello stesso periodo si dedicò alla stesura di due delle sue opere più note. Del 1548 è la Vita di Antonio Giacomini Tebalducci Malespini, inviata nel 1552 al nipote del biografato e pubblicata postuma soltanto nel 1597 (Firenze, M. Sermartelli), in una versione corretta e censurata.
Incentrata sulle vicende di Giacomini, celebre commissario della Repubblica fiorentina negli anni a cavallo tra fine Quattrocento e inizio Cinquecento, l’opera servì da pretesto a Nardi per ripercorrere una serie di temi a lui cari, quali un’inesaurita tensione per il repubblicanesimo e l’attaccamento alla patria.
Ancora più importante sono le Istorie della città di Firenze, che iniziò a scrivere intorno al 1553 e lo tennero occupato per molti degli anni successivi. Rimasta incompiuta, l’opera fu pubblicata postuma a Lione nel 1582 dal tipografo Thibaud Ancelin.
Le Istorie ripercorrono gli anni dal 1494 al 1538 pur dedicando alcune pagine anche a quelli 1375-1494 e alla guerra di Siena. Conformemente al suo ideale politico, Nardi si sofferma con maggiore attenzione sui due periodi repubblicani, trattando in maniera molto più sbrigativa gli anni del regime mediceo. L’ampio spazio riservato alle trattative del 1535-36 e agli eventi del 1537 successivi all’assassinio del duca non fanno che confermare che si tratta di un’opera militante e in buona parte autobiografica, nella quale Nardi intende illustrare le vicende repubblicane, che ha vissuto in prima persona, e non a fornire un resoconto equilibrato e uniforme di tutto il periodo da lui preso in esame. Le Istorie si distinguono comunque per una costante tensione interpretativa che ne fa un’opera di grande spessore culturale, oltre che intensa e avvincente, ben al di là dell’afflato politico filorepubblicano che la contraddistingue. La religiosità che a tratti affiora non impedisce al testo di tradire un certo pessimismo di fondo, inevitabile conseguenza di un bilancio politico che è anche il bilancio di un’esistenza fatta di speranze e delusioni.
Non molto è dato sapere di Nardi dopo il 1555, quando venne eletto governatore della nazione fiorentina di Venezia e insieme ad altri due membri si occupò di redigerne gli statuti.
Morì a Venezia l’11 marzo 1563, «assalito da un subbito catarro» che lo soffocò (Bramanti 1997, p. 321), non prima di avere disposto che tutti i suoi scritti venissero dati alle fiamme.
Opere: le edizioni più recenti della Comedia di amicitia e de I due felici rivali sono in Tre commedie fiorentine del primo 500, a cura di L. Stefani, Roma 1986; I sette trionfi del secol d’oro, in Trionfi e canti carnascialeschi toscani del Rinascimento, a cura di R. Bruscagli, I, Roma 1986, pp. 72-74; la Canzona sopra il carro delle tre dee, in F. Bausi, 1987, pp. 191 s. Il Discorso fatto in Venezia dopo la morte di papa Clemente settimo l’anno 1534, in T. Picquet, 2004, pp. 127-137; il Discorso fatto in Venezia contro i calunniatori del popolo fiorentino, l’Esposizione del salmo quinto «Verba mea auribus percipe» e il Discorso porto in Napoli agli agenti cesarei in favore dei fuorusciti di Firenze, in Vita di Antonio, Giacomini e altri scritti minori, a cura di C. Gargiolli, Firenze 1867; l’Orazione a Carlo V, in Orazioni scelte del secolo XVI, a cura di G. Lisio, Firenze 1897, pp. 103-129. L’edizione più recente della Vita di Antonio Giacomini è a cura di V. Bramanti (Bergamo 1990), con l’elenco dei manoscritti e delle stampe (pp. 39-41). Il censimento delle edizioni delle Istorie, in Storici e politici..., 1994, pp. 1053-61; le più recenti sono quelle curate da L. Arbib (Firenze 1842) e da A. Gelli (Firenze 1858). Le lettere sono edite in A. Pieralli, 1901, pp. 149-192; V. Bramanti, 1999; S. Lo Re, La crisi della libertà fiorentina..., Roma 2006, pp. 212-249, 252-257.
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