MAZZONI, Jacopo
– Nacque il 27 nov. 1548 a Cesena, da Battista, senatore e cavaliere, e da Innocenza Masini. Il padre aveva avuto due figli, Panfilo e Cesare, da un precedente matrimonio.
Compì i primi studi a Cesena e dal 1561 a Bologna, alla scuola di Sebastiano Regoli da Brisighella, autore di commenti a Virgilio e Cicerone. Ebbe anche occasione di udire le lezioni universitarie di Pompilio Amaseo e di Carlo Sigonio. Dal novembre 1563 proseguì gli studi a Padova, seguendo soprattutto il filosofo aristotelico Federico Pendasio. Serassi fa risalire già a questi anni di studio a Padova l’ambizione di raccogliere tutto il sapere in una serie di questioni da disputare: a questo fine il M. si sarebbe fin da allora dedicato totalmente ai libri dei filosofi antichi, a partire da Platone e Aristotele.
Alla morte del padre, nel 1567, tornò a Cesena per occuparsi degli interessi di famiglia; subì una divisione a lui sfavorevole dei beni tra i fratelli, ma ottenne una piccola villa sulla riva del Savio e si dedicò appieno agli studi e all’organizzazione delle questioni, anche utilizzando la biblioteca di Malatesta Novello (Domenico Malatesta), ricca di manoscritti greci e latini. Frequentò in quegli anni la cesenate Accademia dei Riformati, istituita una decina di anni prima da Giuliano Fantaguzzi, che si riuniva in casa del vescovo Odoardo Gualandi. Tra il 1570 e il 1571 la necessità di dare forma al suo grande progetto di sistemazione del sapere, diviso nelle tre sezioni della vita attiva, contemplativa e religiosa, lo riportò a Padova, dove chiese consigli ai suoi maestri e consultò Sperone Speroni.
Nel 1572 pubblicò a Cesena, presso B. Raverio, la sua prima opera, il Discorso de’ dittongi, originato da una discussione con alcuni letterati sulla pronuncia dei dittonghi antichi (il M. vi sostiene la tesi della pronuncia distinta delle due vocali) e dedicato a Francesco Maria Bourbon Del Monte. Nello stesso anno intervenne in una delle più note polemiche letterarie del Cinquecento: ricevuto dal cesenate Tranquillo Venturelli il Discorso violentemente antidantesco attribuito al misterioso Ridolfo Castravilla, rimasto a tutt’oggi non identificato, compose un Discorso in difesa della Comedia del divino poeta Dante e lo stampò prima con lo pseudonimo Donato Roffia a Bologna nel 1572 e l’anno successivo con il proprio nome, a Cesena, presso Raverio.
Il Discorso del M. difende la legittimità per i filosofi di dissertare intorno ai poeti, attività particolarmente proficua per la Commedia di Dante, dove si ritrovano le opinioni di tutti i filosofi e il sapere di tutte le scienze e le arti. Replica poi in generale alle accuse mosse ai poeti e passa finalmente al puntuale rifiuto di tutte le affermazioni di Castravilla, che negava radicalmente la possibilità di accettare Dante in un sistema poetico saldamente inquadrato su basi aristoteliche. Il M. sostiene invece che nella Commedia c’è vera imitazione di azione e non semplice narrazione di un sogno; che Dante fu, con piena consapevolezza, poeta comico, e anzi buon poeta comico, in tutti gli aspetti della sua opera: la favola, il costume (a questo proposito ribadisce che l’opera è commedia e non satira come voleva Castravilla, in quanto Dante ama il precettore Brunetto Latini e la patria, benché ne critichi i vizi), i concetti, le similitudini, la favella, gli episodi.
Le prime opere a stampa iniziarono a rendere noto il M. e a metterlo in contatto con i dotti d’Italia. Bourbon Del Monte lo invitò nel 1574 alla corte urbinate, che festeggiava il carnevale a Pesaro; nell’occasione furono messe in scena l’Erofilomachia di Sforza Oddi e l’Aminta di T. Tasso. L’incontro tra il M., Tasso e altri dotti cortigiani, alla presenza del duca Guidubaldo II Della Rovere e del figlio Francesco Maria, diede vita a vari ragionamenti letterari e filosofici e rappresentò la piena consacrazione della dottrina e della memoria prodigiosa del Mazzoni. Un decennio più tardi, nell’Apologia in difesa della sua Gierusalemme liberata Tasso ricorderà l’amicizia con il M. e queste discussioni pesaresi.
Tornato a Cesena, il M. riprese il progetto delle questioni filosofiche, rivolgendosi al cardinale Filippo Boncompagni, nipote di Gregorio XIII, che incontrò a Cesena nell’agosto 1574. Presto, però, dovette tornare a Pesaro quando, dopo la morte, avvenuta il 28 sett. 1574, del duca Guidubaldo, il M. fu chiamato dal figlio e successore Francesco Maria II a pronunciare l’orazione funebre, Oratio in funere Guidiubaldi Feltrii de Ruvere Urbinatium ducis (Pesaro, G. Concordia, 1574). Fu quindi accolto, con debito stipendio, alla corte del nuovo duca, dove conobbe il predicatore Francesco Panigarola. Nel luglio 1575 prese congedo e tornò a Cesena, sempre con l’intento di dedicarsi alla sua grande opera filosofica, che rinforzò dal punto di vista teologico grazie all’incontro con il francescano Ludovico Paffi e che portò avanti anche con l’aiuto di amici cesenati come Alessandro Martinelli e Giuseppe Gottifredi. Raccolse così 5197 questioni e le stampò a Cesena nel 1576, presso Raverio, con il titolo De triplici hominum vita, activa nempè, contemplativa, et religiosa methodi tres, quaestionibus quinque millibus, centum et nonagintaseptem distinctae. In quibus omnes Platonis, et Aristotelis, multae vero aliorum Graecorum, Arabum et Latinorum in universo scientiarum orbe discordiae componuntur.
La discussione avvenne a Bologna, nella chiesa di S. Domenico, nel gennaio 1577, per quattro giorni consecutivi alla presenza del vescovo, il cardinale Gabriele Paleotti, e del governatore Giambattista Castagna (in un primo momento si pensò però a Roma e al 1576, come risulta dal frontespizio di alcuni esemplari dell’opera). Per potervi accedere il M. dovette prendere (28 genn. 1577) la laurea in teologia.
Tutte le scienze sono divise in tre «vite»: attiva, che comprende etica, politica, economia e diritto; contemplativa, divisa in grammatica, logica, dialettica, retorica, filosofia, matematica, musica, astrologia, gnomonica, meccanica, fisica e metafisica, ma anche pittura e scultura; religiosa, dove il M. esamina anche, per confutarle, le religioni non cristiane e le eresie del cristianesimo. Le tre vie sono illustrate con il continuo ricorso a un gran numero di autori antichi, fatti concordare in una sinfonia che ricompone le differenze, in particolare tra platonismo e aristotelismo, secondo l’ideale già di Giovanni Pico, ma risolvendosi – a giudizio di Garin – in una «massa caotica di erudizione non dominata» (p. 607).
Dopo il successo bolognese il M. tornò a Cesena; qui iniziò a comporre un commento ai Dialoghi di Platone, dedicandosi soprattutto alla Repubblica, tra il 1577 e l’inizio del 1578. Il nuovo periodo di studio e di ritiro fu interrotto dall’invito di Gregorio XIII a recarsi a Roma (il 20 marzo 1578 il M. chiese licenza al duca d’Urbino), dove visse presso Giacomo Boncompagni, figlio naturale del pontefice, strinse amicizia con Lionardo Salviati, fu coinvolto nel progetto gregoriano di correzione del calendario (il 12 dic. 1579, in una lettera a Giulio Veterani, sollecitò il parere della corte di Urbino), collaborò con il cardinale G. Sirleto e fu ammesso nella congregazione dell’Indice (P. Segni nell’orazione funebre afferma che fu «eziandio ammesso a’ negozj della Santissima Inquisizione», p. 17). Il M. collaborò anche con il cardinale Felice Peretti, il futuro Sisto V, per l’edizione delle opere di s. Ambrogio, in sei volumi editi a partire dal 1579. Serassi (p. 147) segnala inoltre un Discorso di Giacomo Mazzoni d’una breve navigazione, che si può fare da Portogallo nell’Etiopia, e nel paese del Prete Janni…, testimonianza ulteriore dell’attività del M., negli anni romani, quale erudito dai vasti interessi.
A Roma il M. venne a conoscenza di varie reazioni al suo Discorso in difesa di Dante, che aveva dato origine a una discussione tra il senese Bellisario Bulgarini e il fiorentino Orazio Capponi, con i quali entrò in contatto. Una vicenda personale, però, rinviò per il momento un nuovo intervento in campo dantesco: dopo la morte dei fratelli senza figli, il M. tornò a Cesena e sposò, nel 1581, Pasolina, figlia del patrizio cesenate Giasone Pasolini, abbandonando così una possibile carriera ecclesiastica (si era parlato già di un vescovato). Da Pasolina ebbe tre figli, Giambattista, Romualdo e Giulia. A Cesena il M. rimise mano al commento a Platone, compì ambasciate per conto della città e tenne una cattedra nello Studio locale, esponendo l’Etica di Aristotele.
Intanto il fuoco della polemica dantesca, covato a lungo in dispute private e manoscritte, esplose con la pubblicazione nel 1582 del Breve et ingenioso discorso contro l’opera di Dante del padovano Alessandro Cariero, considerato un plagio da Bulgarini, il quale nel 1583 (in due diverse stampe a Siena) propose pubblicamente Alcune considerazioni sopra ’l discorso di Giacopo M., fatto in difesa della Comedia di Dante, stampato in Cesena l’anno 1573, con in appendice una lettera del M. del 1579, per provare la precedenza delle proprie osservazioni rispetto a quelle di Cariero. Il M. riprese allora i panni del difensore di Dante e, dal febbraio 1583, mise in piedi un vero e proprio atelier di collaboratori e amici per sfruttare appieno la sua celebrata erudizione e memoria, tanto da comporre in meno di un anno due vasti volumi, che oltre a rispondere alle accuse a Dante proponevano una completa teoria letteraria fondata sul pensiero degli antichi, probabilmente il massimo lavoro complessivo di poetica della seconda metà del Cinquecento. Il principale collaboratore fu Tuccio Dal Corno (1543-1615), che firmò anche la dedicatoria del primo volume dell’opera: Della difesa della Comedia di Dante. Distinta in sette libri. Nella quale si risponde alle oppositioni fatte al Discorso di m. Iacopo M., e si tratta pienamente dell’arte poetica e di molt’altre cose pertinenti alla philosophia, et alle belle lettere. Dei promessi sette libri uscirono soltanto i primi tre, in un volume stampato a partire dal 1585, inviato in lettura in forme parziali e completato nel 1587 (Cesena, B. Raverio). I rimanenti quattro libri, rimasti manoscritti, attireranno l’attenzione di Federico Ubaldini, che nel 1639 ottenne l’approvazione per la stampa (il funzionario della Curia romana incaricato della questione fu Bartolomeo Tortoletti, che si spinse anche a completare uno spazio lasciato in bianco dal M.), ma il secondo volume fu pubblicato soltanto nel 1688, a Cesena, a cura dei sacerdoti Mauro Verdoni e Domenico Buccioli.
La Difesa si apre con la dedica al cardinale Ferdinando de’ Medici, in data 21 febbr. 1587, di Dal Corno, che rivendica il proprio ruolo di stimolatore e amanuense. Segue una premessa A’ lettori (non firmata, ma riconducibile ancora a Dal Corno), che riassume le dispute che avevano spinto il M. a prendere la difesa di Dante, ripercorre la tortuosa vicenda editoriale della presente Difesa e si oppone alle critiche già ricevute dai primi lettori delle versioni provvisorie del testo. Il Proemio della Difesa, sempre dedicato al cardinale de’ Medici, esplicita la genesi fiorentina del lavoro: il M. si sarebbe fatto convincere a mettere mano alla difesa di Dante in particolare da Salviati. Centrali, anche nella fortuna novecentesca dell’opera, si rivelano però l’Introduttione e Sommario della difesa di Dante, divisi in 100 sezioni (ma la numerazione partiva già nel Proemio, da 1 a 6, fatto che ha causato non poche confusioni tra Proemio e Introduzione): una rielaborazione del discorso generale del M. sulla poetica, basata principalmente su Platone e Aristotele, ma con molti argomenti ripresi dai retori antichi. Le arti, che affrontano le cose in quanto fattibili, operano con tre categorie di oggetti, l’idea, l’opera e l’idolo: «L’idea è oggetto dell’arti imperanti, o vogliamo dire commandanti. L’opera è oggetto dell’arti facitrici. E l’idolo è oggetto dell’arti imitanti» (sez. 8, c. a3r). L’attenzione è quindi concentrata sull’idolo: il M. ricava dal Sofista di Platone la distinzione tra imitazione icastica (che riprende le proporzioni del reale) e imitazione fantastica (che trascurando la verità punta a realizzare immagini che appaiano belle di volta in volta) e la intreccia con la distinzione tra modo drammatico e narrativo ottenendo le quattro specie: drammatica fantastica, drammatica icastica, raccontativa fantastica, raccontativa icastica. Il soggetto proprio della poesia non è il vero né il falso, ma «il credibile», di conseguenza il poeta deve anteporre «le cose credibili alle vere, alle false, alle possibili e alle impossibili» (sez. 53, c. [b6r]). Proprio questa argomentazione porta il M. a una delle sue affermazioni più forti, ossia che la poesia, «per far più conto del credibile che del vero» debba essere collocata nell’ambito della sofistica. L’arte poetica stessa, però, è duplice: se «fabbrica e forma» l’idolo è poesia, riconducibile appunto alla sofistica, ma se lo giudica è poetica, dunque «arte imperante», che appartiene alla facoltà civile. Da questo punto di vista la poesia è gioco, cessazione necessaria di attività serie, con nobile ruolo pubblico. Di qui deriva un’altra posizione originale del M., l’idea che la Poetica di Aristotele sia da intendere come il nono libro della Politica. Impostata così la questione, il M. articola in modo coerente un altro caposaldo del pensiero critico cinquecentesco, il fine della poesia, che si specifica in tre obiettivi strettamente connessi: la poesia mira a rappresentare le immagini delle cose in modo conveniente, la rappresentazione ben condotta mira a dilettare, il piacere di questa natura mira a dilettare il popolo utilmente.
I sette libri in cui si articolano i due volumi della Difesa espongono, inoltre, organiche trattazioni di problemi critici relativi alla Commedia di Dante: nel libro I si discute se Dante finse di fare o non fare realmente «quel suo viaggio spiritale»; nel II il M. affronta il problema del genere cui appartiene l’opera, sostenendo che il poema di Dante è commedia monodica, del tipo di quelle narrate sulla scena da un singolo attore; nel III inizia a dimostrare partitamente che Dante è buon poeta, concentrandosi per il momento sulla «favola»; il libro IV tratta dei «costumi», difendendo Dante da varie accuse di immoralità e maldicenza; il V è dedicato ai «concetti» (il M. difende Dante dall’accusa di aver scritto cose non adatte a un poeta e di aver mentito); nel VI il M. si dedica alla «favella», rifiutando le critiche mosse a partire da Bembo e organizzando le motivazioni dei difensori della lingua poetica di Dante; nel VII si prova che Dante è buon poeta per quanto riguarda gli episodi.
Il volume stampato nel 1587 provocò subito molte reazioni. Bulgarini postillò fittamente una copia della Difesa, non tralasciando nemmeno la tavola degli autori, mentre Tasso si concentrò sulle pagine teoriche che aprono l’opera, che si dimostreranno di primaria importanza per l’elaborazione dei Discorsi del poema eroico. Ancora nel Seicento si ebbero diverse letture, opposizioni e riprese.
La fama del M. come teorico di poesia sarà confermata, nel 1592, dal dialogo Il Tasso ovvero della Natura del verso volgare italiano di Bernardino Baldi, dove il M. è introdotto come interlocutore del poeta.
Il successo della Difesa fu grande soprattutto in Firenze: il M. fu ascritto all’Accademia Fiorentina e a quella della Crusca, e nell’aprile 1587 fu invitato a tenere lezioni dantesche molto apprezzate. Tornato a Cesena, si trovò coinvolto in una nuova disputa, su una questione di storia letteraria greca, con Francesco Patrizi. Nella Difesa il M. aveva manifestato perplessità sull’opinione di Patrizi che Dafni e Litiersa fossero i titoli di due tragedie di Sositeo; per il M. si doveva piuttosto pensare a un’ecloga Dafni e Litiersa. Alla Risposta di Patrizi il M. replicò con un Discorso intorno alla Risposta e alle Opposizioni fattegli dal sig. Francesco Patricio, pertenente alla storia del poema Dafni, o Litiersa di Sositeo poeta della Pleiade, pubblicato a Cesena nel 1587 (B. Raverio) e, a un’ulteriore replica di Patrizi, con le Ragioni delle cose dette, e d’alcune autorità citate nel Discorso della storia del poema Dafni, o Litiersa di Sositeo, stampata nello stesso anno sempre da Raverio.
Nel novembre 1587 il M. si trasferì a Macerata, dove insegnò filosofia, ma soltanto per un anno, perché fu invitato da Ferdinando de’ Medici, divenuto granduca, a Pisa, dove dal 1588 al 1597 tenne la lettura ordinaria di filosofia aristotelica e quella straordinaria di filosofia platonica. Durante gli anni dell’insegnamento pisano il M. fu spesso richiesto di dare prova pubblica di eloquenza e di multiforme sapere: alla morte di Caterina de’ Medici regina di Francia (5 genn. 1589), pronunciò l’orazione funebre per le esequie solenni tenute a Firenze, Oratio habita Florentiae VIII idus Februarii, anno MDXXCIIX [stile fiorentino] in exequiis Catherinae Medices Francorum reginae (Firenze, F. Giunti, 1589, con dedica a Virginio Orsini). Nel 1589 e nel 1590 tenne lezioni assai celebrate all’Accademia della Crusca sui vini e il bere, partendo da un luogo dell’Ariosto; nel 1595 incontrò il vescovo Jacques Du Perron che andava a Roma per riconciliare il re Enrico IV con il papa e per il pontefice compose nell’occasione un’orazione che ne sosteneva la causa; l’anno successivo tenne un’altra orazione funebre, per il poeta latino Pietro Angeli da Barga (cfr. Sanleolini) e nello stesso anno fu invitato a Firenze dalla granduchessa Cristina di Lorena per spiegare il fenomeno di una cometa allora apparsa.
Il M. trascorreva le estati, libere dagli incarichi universitari, in patria, nella villa sulla riva del Savio, dove progettò nuove opere, come i libri De rebus philosophicis, pensati a imitazione di Varrone (a partire da F. Patrizi il M. sarà spesso definito «novello Varrone»), che nel novembre 1590 pensava di pubblicare prima della seconda parte della Difesa. Il ritorno dal periodo estivo del 1596 non fu tranquillo come gli altri: il M. fu accusato di aver commissionato l’omicidio di un concittadino, ma il processo, celebrato da un delegato apostolico inviato da Roma, riconobbe la sua innocenza.
Nel 1597 tornò a stampare un volume filosofico sulla comparazione tra Platone e Aristotele, rivedendo la giovanile convinzione nella conciliabilità del loro pensiero a favore di un metodo che mirava a ottenere «più frequenti scintille di verità» dal confronto o meglio dalla «collisione» dei due sistemi filosofici. Dell’opera, In universam Platonis et Aristotelis philosophiam praeludia, sive de comparatione Platonis, et Aristotelis liber primus (Venezia, G. Guerigli), sono valorizzati soprattutto gli spunti filologici che permettono di ipotizzare una prima fase platonica del pensiero di Aristotele, e l’impostazione del rapporto tra fisica e matematica, condotta su basi platoniche ma in un modo favorevole agli sviluppi della scienza moderna, in quanto teorizza l’estensione dell’indagine matematica allo studio dei corpi fisici. Non stupisce, quindi, che G. Galilei, studente e poi collega nell’ateneo pisano, scrivesse proprio al M., il 30 maggio dello stesso anno, un’importante lettera in cui difendeva le posizioni copernicane (nell’Ottocento G. Bezzuoli dipingerà il M. accanto allo scienziato nell’affresco Galileo Galilei esegue l’esperimento della caduta dei gravi per la tribuna di Galileo nel Museo della Specola di Firenze).
Nello stesso 1597 si concluse l’esperienza pisana: il M. fu invitato a Roma da Clemente VIII, che gli assegnò la cattedra di filosofia alla Sapienza, ma le lezioni furono presto interrotte da un nuovo incarico assegnatogli dal papa. Il M. fu inviato al seguito del cardinale Pietro Aldobrandini, comandante dell’esercito pontificio che muoveva su Ferrara per riottenere la città dopo la morte senza figli del duca Alfonso II d’Este. Nel gennaio 1598 il M. si recò in ambasceria a Venezia: fu ricevuto in Senato, ottenne doni e piene rassicurazioni di non ingerenza nella questione da parte della Serenissima. Tornato a Ferrara, si legò al comandante della cavalleria dell’esercito pontificio Lotario Conti, al quale donò l’unico manoscritto della seconda parte della Difesa di Dante.
Nominato riformatore dell’Università di Ferrara, stava iniziando a occuparsi dell’incarico quando fu colpito da febbre. Indebolito, tornò a Cesena, dove morì il 10 apr. 1598.
Fu sepolto nella chiesa dei domenicani Tommaso Martinelli tenne l’orazione funebre, subito stampata con l’accompagnamento di composizioni poetiche (Oratio habita Caesenae III Idus Aprilis anno MDXCVIII in funere Iacobi Mazonii, Caesenea 1598). La vedova Pasolina e la figlia Giulia fecero innalzare un busto sulla sepoltura. Un’altra orazione funebre fu tenuta da Piero Segni (Orazione di Pier Segni cognominato nell’Accademia della Crusca l’Agghiacciato, recitata da lui nella detta Accademia, per la morte di m. Iacopo M., Firenze 1599).
Fonti e Bibl.: F. Sanleolini, Delle lodi di Piero degli Angeli da Barga…, Firenze 1597, p. 36; P. Serassi, La vita di J. M. patrizio cesenate…, Roma 1790; B.T. Sozzi, Torquato Tasso e I. M. sulla scorta di postille tassesche inedite, in Id., Studi sul Tasso, Pisa 1954, pp. 257-268; A. Corsano, Per la storia del pensiero del tardo Rinascimento, IV, 1, M. e l’Aristotele perduto, in Giorn. critico della filosofia italiana, XXXVIII (1959), pp. 485-491; B. Weinberg, A history of literary criticism in the Italian Renaissance, Chicago 1961, I, pp. 324-328; II, pp. 636-646, 819-911, 1135 s. e ad ind.; B. Hathaway, The Age of criticism. The late Renaissance in Italy, Ithaca, NY, 1962, pp. 349-389 e ad ind.; E. Garin, Storia della filosofia italiana, II, Torino 1966, pp. 607 s.; P. Galluzzi, Il «platonismo» del tardo Cinquecento e la filosofia di Galileo, in Ricerche sulla cultura dell’Italia moderna, a cura di P. Zambelli, Roma-Bari 1973, pp. 39-79; S. Battaglia, L’arte come finzione (Torquato Tasso e I. M.), in Id., Esemplarità e antagonismo nel pensiero di Dante, II, Napoli 1974, pp. 97-125; A. Franceschetti, La «Difesa della Comedia di Dante» di J. M., in Quaderni d’italianistica, VII (1986), pp. 79 s.; C. Scarpati, Icastico e fantastico. M. tra Tasso e Marino, in Id., Dire la verità al principe. Ricerche sulla letteratura del Rinascimento, Milano 1987, pp. 231-269; E. Russo, Il rifiuto della sofistica nelle postille tassiane a J. M., in La Cultura, XXXVIII (2000), pp. 279-318; V.B. Leitch, Giacopo M., in The Norton Anthology of theory and criticism, New York 2001, pp. 299-302; C. Gigante, Per un’edizione critica della «Difesa della Commedia di Dante» di J. M., in Id., Esperienze di filologia cinquecentesca. Salviati, M., Trissino, Costo, il Bargeo, Tasso, Roma 2003, pp. 9-45; Enc. dantesca, III, pp. 875-877.