MALOCELLO, Jacopo
Figlio di Guglielmo di Enrico (console del Comune nel 1207), nacque presumibilmente all'inizio del secolo XIII e appartenne al ramo della potente famiglia di parte guelfa, una delle più influenti nella politica genovese del tempo, che deteneva la signoria su Varazze, Celle e Albisola.
La prima notizia relativa alla sua attività è la menzione come componente del Consiglio degli otto nobili, che affiancava il podestà in particolare nell'amministrazione finanziaria, chiamato ad assistere Jacopo da Terzago nel 1236.
Il M. doveva in quel momento aver già percorso una discreta carriera; questa ipotesi è confermata dal fatto che nel 1239, subito dopo la rottura dei rapporti con l'imperatore Federico II, che fino a quel momento erano in precario equilibrio, e l'adesione del Comune di Genova al partito della Chiesa dopo il rifiuto di prestare atto di sottomissione all'autorità imperiale, egli fu incaricato di condurre, prima con Sozo Pevere, di antica famiglia consolare, e poi con Ugo Lercari, una ambasceria a papa Gregorio IX al fine di avviare le trattative per un'alleanza tra Genova e Venezia fortemente voluta dal papa in funzione antimperiale a dispetto dei contrasti che opponevano le due potenze almeno a partire dal 1204.
Forse anche grazie al successo delle trattative con Venezia da lui avviate, l'ascesa politica del M. proseguì rapidamente negli anni successivi, e nel 1241, nonostante la mancanza di esperienza nel settore, egli ricevette l'incarico, di grande importanza politica e strategica, di guidare la flotta genovese che doveva condurre a Roma i prelati e gli altri inviati al concilio convocato dal papa per discutere sulla condanna e la deposizione di Federico II.
Già prima della partenza da Genova fu però chiaro che l'impresa non era sfuggita a Federico e ai suoi sostenitori, e la scoperta di messaggi dell'imperatore nascosti in pani di cera, indirizzati ai ghibellini genovesi, i cosiddetti "mascarati", per incitarli contro i guelfi, scatenò un tumulto popolare al quale il M. prese parte, inviando i comiti e i marinai delle galee della sua flotta a partecipare all'assalto e alla distruzione delle case degli Streggiaporco, degli Spinola e dei Doria, accusati di connivenza con Federico; l'azione ritardò ulteriormente la partenza delle navi, e gli valse a posteriori non poche critiche.
Proprio a causa del ritardo, infatti, raggiunti i porti provenzali e imbarcati i prelati, il M. non accettò il consiglio dei suoi ufficiali che suggerivano di seguire la rotta a ovest della Corsica, più lunga ma più sicura, per scegliere invece la rotta a est dell'isola, pericolosamente vicina alle basi della flotta pisana. La mossa del M. era molto arrischiata, ma parve aver avuto successo quando la flotta superò senza incidenti le acque davanti a Porto Pisano; all'altezza dell'isola del Giglio scattò però l'agguato della flotta imperiale, guidata da uno dei più abili comandanti dell'epoca, il fuoruscito genovese Ansaldo De Mari, che circondò la squadra genovese. Dando prova di coraggio e di abilità, il M. tentò una disperata contromossa attaccando improvvisamente in formazione serrata il fianco della squadra nemica; ebbe un successo parziale, poiché solo altre cinque galee riuscirono a seguire l'ammiraglia attraverso il varco aperto nelle file nemiche prima che il De Mari riordinasse le sue forze, mentre le altre unità, appesantite dal sovraccarico, furono catturate.
La sconfitta del Giglio costituì un grave colpo per la politica pontificia: numerosi prelati furono condotti prigionieri in Puglia e dunque fu impossibile celebrare il previsto concilio. Si determinò così una situazione di immediato pericolo per Genova, rimasta praticamente priva di una flotta per difendersi dagli attacchi della flotta imperiale che operava di concerto con i ghibellini, intrinseci e fuorusciti. Con uno sforzo eccezionale, ampiamente celebrato dai cronisti coevi, i Genovesi riuscirono a ricostruire in tempi brevissimi una squadra di ben 51 galee che avrebbe rovesciato i rapporti di forza nel Tirreno. Il contraccolpo per la carriera del M. fu devastante: anche se non gli furono mosse accuse esplicite, forse per non dividere ulteriormente gli animi in un momento di difficoltà, egli non sfuggì al biasimo degli annalisti del Comune, che sottolinearono, sia pure in modo sfumato, le sue pecche come comandante della flotta, ma soprattutto egli fu tacitamente escluso per un lungo periodo da ogni attribuzione di incarichi di primaria importanza che prevedessero l'assunzione diretta di responsabilità.
Comunque, il M., anche in virtù della sua posizione sociale e del ruolo politico della sua famiglia, non fu estromesso dai circoli del potere, anche se dovette confinare la sua azione a orizzonti più ristretti.
Nel 1242 fece parte del Consiglio del podestà incaricato di ratificare con la Comunità di Savignone accordi particolarmente importanti, poiché quella località rivestiva grande valore strategico per la sua posizione alle spalle della ribelle Savona, divenuta principale base dei fuorusciti e della flotta imperiale; nel 1244 fu nuovamente membro della magistratura degli Otto nobili; nel 1250 partecipò alla ratifica del rinnovo delle convenzioni che dal 1171 regolavano i rapporti di Genova con la Comunità provenzale di Grasse.
La fine delle guerre federiciane seguita alla morte dell'imperatore (1250) produsse un nuovo mutamento della situazione generale del quale pare aver approfittato anche il M. per un parziale recupero delle sue fortune nel generale trionfo della parte guelfa. Già nel 1251 fu infatti incaricato di rappresentare il Comune nella cerimonia di consegna del castello di Segno da parte del marchese Iacopo Del Carretto, uno dei principali esponenti degli sconfitti ghibellini, e nello stesso anno prese parte in Varazze alla riunione del Consiglio del podestà per definire il trattato da imporre a Savona in cambio della pace. Nel 1252-53 il M. appare assai attivo: partecipò alla ratifica del rinnovo degli accordi del 1224 con gli Aleramici marchesi del Bosco, che controllavano posizioni strategiche nell'Oltregiogo ligure, e quindi fu incaricato di condurre, con Guglielmo Gabernia, Enrico Di Negro e Oberto Doria, un'inchiesta sui diritti spettanti ai Genovesi in Albisola; condusse poi per proprio conto trattative con un altro ramo degli Aleramici, i marchesi di Ponzone, per acquisire i diritti da loro vantati in Varazze, di cui era consignore per diritto ereditario, probabilmente per consolidare la sua posizione di potere in quella fondamentale area.
L'avvento al potere del capitano del Popolo Guglielmo Boccanegra, con il conseguente allontanamento dai posti di responsabilità politica degli esponenti dell'antica nobiltà consolare, costituì una nuova interruzione nel tentativo del M. di recuperare l'antica influenza politica, anche se, dopo il primo momento di contrapposizione, gli spazi di collaborazione concessi dal nuovo regime agli esponenti del vecchio ceto di potere gli consentirono di avere comunque un ruolo nelle vicende politiche, grazie anche alla parentela con la principale famiglia della vecchia nobiltà di parte guelfa, i Fieschi.
Il M. aveva sposato la sorella del potente cardinale Ottobono Fieschi, nipote di papa Innocenzo IV e capo riconosciuto della nobiltà guelfa genovese; probabilmente ciò spiega perché egli non abbia risentito in modo più pesante delle conseguenze del disastro del Giglio e come la sua carriera politica sia ripresa proprio in coincidenza con il pontificato di Innocenzo IV. La parentela con i Fieschi, che anche il regime di Boccanegra doveva considerare, gli valse l'incarico di rappresentare il Comune in ambascerie prestigiose, come quella guidata dal cardinale Fieschi inviata nel 1259 a papa Alessandro IV, e lo portò a legarsi anche ad altri esponenti della nobiltà italiana. A quest'ultima circostanza si ricollega la notizia della sua partecipazione, con altri tre nobili, Ottobono de Camilla, Guido Spinola e Ugo Fieschi, sempre nel 1259, alla missione del cardinale Ottobono, che si recava ad Asti per ottenere la liberazione dei figli di suo cognato, il conte Tommaso II di Savoia, trattenuti in ostaggio dal Comune piemontese.
Il riconoscimento dell'importanza del ruolo politico della vecchia aristocrazia da parte del Boccanegra fece sì che il M., come altri suoi congiunti, fosse chiamato nel 1261 a ratificare il trattato stipulato a Ninfeo con l'imperatore Michele VIII Paleologo, in seguito determinante per la politica oltremarina genovese. Con la caduta del capitano del Popolo, nel 1262, nel quadro del ritorno al potere della nobiltà il M. poté ancora una volta svolgere un ruolo politico attivo. In quell'anno egli fu infatti uno dei consiglieri del podestà chiamati a elaborare le commissioni per gli ambasciatori inviati a trattare una convenzione con Carlo d'Angiò, conte di Provenza, il cui potere andava estendendosi nelle terre ai confini del Dominium genovese tanto sulla Riviera, quanto nel Piemonte sudoccidentale. Nello stesso anno fu chiamato a partecipare alla ratifica della decisione di istituire un prestito di 30.000 lire per le questioni della Romania, altra area in cui, in conseguenza del trattato di Ninfeo, gli interessi genovesi erano in espansione ed era necessario approfittare del vantaggio acquisito nei confronti dei rivali veneziani.
Tuttavia il M., ormai probabilmente giunto sulle soglie della vecchiaia, non doveva più coltivare sogni di affermazione politica in Genova e dovette preferire concentrare la propria azione nel consolidamento delle posizioni di potere già detenute dalla sua famiglia fuori della città. Riprendendo le fila delle operazioni condotte un decennio prima, nel 1262 egli trattò infatti, insieme con il fratello Enrico e il nipote Lanfranchino, l'acquisto della quota di Varazze ancora detenuta dal marchese Enrico di Ponzone per la cifra di 1000 lire, e nel 1265 concluse con i già citati Enrico e Lanfranchino e con l'altro fratello, Lanfranco, la divisione dei consistenti beni fondiari situati fra Genova, il passo dei Giovi e Cogoleto, a ovest della città, e fra Genova e Quinto, a est, fino a quel momento mantenuti in possesso indiviso fra tutti i membri del consortile, definendo così più chiaramente la sua situazione patrimoniale e il ruolo da lui esercitato nell'area della strategica podesteria di Celle, Varazze e Albisola.
L'età ormai avanzata non dovette tuttavia consentirgli di approfittare di possibilità che il brevissimo pontificato del cognato Ottobono (11 luglio - 16 ag. 1276), divenuto papa Adriano V, avrebbe potuto offrirgli, e nel 1277 nominò procuratore generale, per la gestione dei suoi affari, Alberto di Rotofredo da Piacenza, probabilmente uno dei tanti banchieri piacentini attivi in Genova e strettamente legati alla Curia pontificia.
L'ultima sicura attestazione del M. è la locazione di una casa di sua proprietà in Genova all'albergatore Donato Mantello, desumibile da un contratto del 1281; egli risulta già defunto nel 1290.
Dalla moglie aveva avuto quattro figli: Nicolò, destinato alla carriera ecclesiastica e divenuto, sicuramente grazie all'influenza del potente zio cardinale, canonico della cattedrale di Cambrai, Tedexino, Antonio e Giorgio.
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