LANDONI, Jacopo
Nacque a Ravenna il 25 luglio 1772 da Luigi, notaio, e da Agnese Braghini, che morì nel darlo alla luce. Affidato al nonno materno, nel 1780 perse anche il padre e a tredici anni entrò in seminario. Nel 1790 si iscrisse alla facoltà di medicina dell'Università di Padova; presto, però, si accostò agli ideali giacobini e, abbandonati gli studi di medicina, si dedicò alla letteratura seguendo insieme con l'amico P. Costa le lezioni di M. Cesarotti. Classicista di formazione e membro, dalla metà degli anni Novanta, delle accademie dell'Arcadia e dei Filergiti, il L., lungi dalla semplicità propugnata dalla scuola romagnola, fu incline a uno stile ricco ed enfatico fin dalle prime liriche di una produzione d'occasione che l'attitudine all'improvvisazione rese particolarmente feconda.
Due anni dopo il suo ritorno a Ravenna (1795), con la città occupata dai Francesi, il L. fu segretario del Circolo costituzionale istituito da V. Monti (1797) e ricoprì vari incarichi, prima come scrivano, poi come maestro di retorica nelle scuole pubbliche. Infine, per compensarlo dell'impegno da lui profuso nella protesta contro la riforma della costituzione cisalpina attuata dall'ambasciatore C.-J. Trouvé, fu nominato direttore scolastico (1798).
Nella seconda metà del 1799, durante la breve reazione, oltre a far stampare su fogli volanti quattro sonetti satirici in dialetto, unica testimonianza della sua produzione vernacolare, il L. compose versi sacri e celebrativi per l'ingresso degli Austriaci a Ravenna: questo contegno non gli evitò, tuttavia, di finire in un elenco di giacobini e perciò stesso di essere rimosso dalla cattedra.
Ripristinata nel luglio del 1800 la Repubblica Cisalpina, il L., dopo aver sposato la nobile Laura Gentili di Corinaldo - che morì l'anno successivo -, riebbe la cattedra per perderla di lì a poco, accusato della vendita dei libri delle scuole pubbliche; una ulteriore disavventura gli occorse nel 1802, quando dovette ammettere la paternità di alcune satire anonime contro la Municipalità e subire una denuncia per oltraggio che lo portò in carcere per circa venti giorni. Da allora mise da parte la politica per occuparsi a tempo pieno di letteratura e ricavare di che vivere, avendo già acquisito quella notorietà che nel tempo, anche grazie agli episodi burleschi di cui fu protagonista, lo avrebbe trasformato in un personaggio della tradizione popolare ravennate, come testimonia L'Ombra d'Landôn, settimanale ispirato alla sua figura, apparso nel 1894.
A Bologna, dove si trasferì nel 1806, il L. aprì una scuola privata che ebbe fra i suoi allievi anche G. Rossini, e compose i Versi a Clori (Venezia 1807), sette elegie d'amore in terza rima che riecheggiano quelle giovanili di V. Monti.
Dopo una decina d'anni era di nuovo a Ravenna, come attestano un dispaccio del delegato apostolico datato 1816, da cui risulta che gli era stato intimato di rimpatriare per non aver subito formale processo di espulsione penale, e un foglio del commissariato di polizia di Ravenna, che lo riteneva un soggetto temibile per i suoi scritti satirici. Rimasto disoccupato, il L. ottenne grazie all'interessamento di V. Monti una cattedra di retorica a Fusignano, ove si stabilì e sposò Anna Manfredi; ma nel 1819, dopo la nascita del figlio Teodorico, fece ritorno a Ravenna pubblicandovi il carme Il ritorno in patria (1819), con dedica a G. Gordon Byron.
Nel suo classicismo il L. era comunque orientato verso una lingua più ricca e aperta anche a modelli cinquecenteschi: ne sono prova le Maccheronee dieci di Merlin Coccajo tradotte in ottave vulgari (Milano 1819), ove in realtà il L., assertore e conoscitore della tradizione burlesca italiana, rielaborò l'originale di T. Folengo sintetizzando le influenze stilistiche di A. Tassoni, F. Berni, L. Ariosto, L. Lippi, e aggiungendovi allusioni a fatti ravennati. Poi, sempre nell'orbita del classicismo, il L. attese a un poemetto didascalico in versi sciolti sul matrimonio, Le sponsalizie (Ravenna 1821), in cui si servì di allegorie, di miti e di una tenue ironia di imitazione pariniana.
Fallito nel 1820 il concorso alla cattedra di umanità e retorica del collegio ravennate, da cui restò escluso per l'influenza sulla commissione del cenacolo letterario di P. Farini, prossimo a riprendere il rettorato del collegio, il L. reagì pubblicando Lo maestro Ircone (ibid. 1823), opuscolo derisorio volto al discredito della scuola del Farini: in una bizzarra forma artificiosa, ispirata allo stile pedantesco del Cinquecento, il L., attraverso il personaggio caricaturale di maestro Ircone, riprendeva le tesi di G. Perticari e tracciava un profilo burlesco e critico dei puristi. L'anno dopo ottenne la cattedra di eloquenza a Pesaro, entrando così a far parte dell'Accademia Pisaurica per i cui membri pronunciò un discorso (pubblicato in appendice a Ravenna dall'anno 1500 sino all'anno 1513, ibid. 1826) in cui, oltre a rimpiangere gli amici ravennati, affermava la necessità di riformare le accademie.
Durante la permanenza pesarese il L. pubblicò il Discorso dopo due proposizioni su la poesia ed i poeti dell'Italia ultimamente pubblicate da P. Giordani (Pesaro 1825), confutazione di alcune affermazioni di quest'ultimo a proposito dei prosatori italiani; Ravenna dall'anno 1500 sino all'anno 1513, cit., volgarizzamento dell'ottavo libro dell'omonima opera cinquecentesca in latino di G. Rossi; nonché, ancora, il volgarizzamento Odi XXXIV di Orazio Flacco (Pesaro 1827).
Sul finire del 1827, rimosso dalla cattedra di eloquenza per l'inimicizia di alcuni notabili pesaresi, rientrò a Ravenna e nel 1833 fu nominato per concorso professore di eloquenza nel collegio, fatto che lo costrinse a rinunciare a una cattedra vinta nel 1832 a Savignano. Tuttavia il prefetto della congregazione degli Studi, cardinale P. Zurla, gli negò l'incarico a causa del suo orientamento liberale, ribadito nella temperie insurrezionale del 1831 con alcuni scritti, e la cattedra fu affidata a P. Farini. Da allora il L. trascorse circa un decennio in ristrettezze economiche, cui cercò di far fronte con lezioni private e numerose pubblicazioni.
Sono di questo periodo: la raccolta di Alcune rime… (Ravenna 1833), in cui confluirono, oltre al Maestro Ircone, componimenti poetici precedenti, fra cui alcune poesie burlesche, nonché un saggio di traduzione italiana in versi sciolti delle Georgiche di Virgilio; i Passatempi satirici (ibid. 1836), critica dei costumi contemporanei attraverso sette profili morali in terza rima, cui si aggiunsero un sonetto d'introduzione, un Brindisi ad un esimio bevitore e la rassegna delle principali osterie della città; le Terze rime burlesche (ibid. 1837), satire in forma di capitoli in terza rima, ove figurano anche i Passatempi satirici, nonché alcuni versi giocosi già apparsi nelle Rime del 1833; La gastronomia (ibid. 1838), libera traduzione in ottava rima dell'omonimo poemetto in francese di J. de Berchoux; Il pineto (Bologna 1841), poema didascalico in versi sciolti basato su un trattato storico-scientifico di F. Ginanni, Istoria civile, e naturale delle pinete ravennati… (Roma 1774).
Principalmente per la sua età avanzata e le precarie condizioni economiche, nel 1842 il L. ottenne la cattedra di grammatica superiore del ginnasio di Ravenna, un anno dopo aver concorso invano a quella di eloquenza presso il collegio. Tuttavia nel 1844, per un riordinamento degli studi secondari che portò all'abolizione del ginnasio comunale, il L. fu messo a riposo ricevendo dal Comune una provvisione di 144 scudi l'anno.
Vari furono i lavori degli ultimi anni: il carme in ottave L'anno ottantesimo di mia età (Ravenna 1851); le Elegie di Cneo Cornelio Gallo volgarizzate (Bagnacavallo 1853), attribuite dal L., in linea con le posizioni di diversi critici, a Massimiano, poeta latino del VI secolo d.C.; il Cantafavole dieci (Ravenna 1854), dieci capitoli giocosi in terza rima; l'edizione dell'orazione Della utilità della morte (ibid. 1854), pronunciata da V. Carrari durante i funerali del pittore L. Longhi (1580).
Vittima dell'epidemia di colera, il L. morì a Ravenna il 21 luglio 1855.
Il figlio Teodorico (nato a Fusignano di Romagna il 23 apr. 1819 e morto il 25 sett. 1886) fu appassionato cultore di Dante e bibliofilo. L'interesse per le antiche edizioni, che lo indusse a viaggiare per l'Italia alla ricerca di esemplari pregiati, è attestato - oltre che dalla ricca biblioteca - da alcune edizioni da lui curate di opere rare della tradizione umanistica, rinascimentale e sei-settecentesca (Lettere scritte a P. Aretino, Bologna 1873; Due rarissimi componimenti di L. Ariosto…, ibid. 1875). Dotato di felice vena epigrafica, Teodorico fu segretario stabile nella Commissione per i testi di lingua (dal 1861), partecipò ai lavori di revisione della Bibliografia dantesca (1865) di P. Colomb de Batines (I-II, Prato 1845-46 [ma 1848]) e collaborò alla Rivista bolognese di E. Panzacchi. Produsse diversi lavori critici, fra cui: Dichiarazioni di alcuni luoghi del Paradiso di Dante (Ravenna 1855); Sopra alcuni luoghi dell'Inferno e uno del Purgatorio di Dante. Chiose (Bologna 1872).
Fonti e Bibl.: F. Mordani, Vita di J. L. ravennate, Forlì 1868; O. Guerrini, Brandelli. Serie seconda, Roma 1883, pp. 88 ss.; A. Zaccherini, Ricordi e note…, Imola 1889, pp. 36-43; S. Muratori, I tempi, la vita e l'opera letteraria di J. L., Ravenna 1907; P. Poletti, Addio vecchia Ravenna, Ravenna 1924, pp. 39 s.; G. Federzoni, Raccoglimenti e ricordi, Bologna 1935, p. 188; C. Cordié, Travestimenti maccheronici nella Milano del primo Ottocento (La "Moscheide" di F. Antolini e le "Maccheronee dieci" di J. L.), in Arch. stor. lombardo, LXXVIII-LXXIX (1951-52), pp. 237-252; E. Cortesi, Invasione francese nelle Romagne, in Rass. storica del Risorgimento, VIII (1921), pp. 191, 206 ss., 210; G. Mazzoni, Storia letteraria d'Italia. L'Ottocento, Milano 1934, ad ind.; P. Uccellini, Diz. storico di Ravenna e di altri luoghi di Romagna, Bologna 1968, p. 249; Catalogo dei libri italiani dell'Ottocento, Milano 1991, pp. 2543 s.; M. Cortellazzo, Il dialetto, in Storia di Ravenna, V, L'età risorgimentale e contemporanea, a cura di L. Lotti, Venezia 1996, pp. 105, 110, 269.