GAUFRIDO, Jacopo (Giacomo)
Nacque a La Ciotat, in Provenza, nei pressi di Marsiglia, presumibilmente intorno al 1610. Il padre, notaio, gli fece studiare medicina presso l'Università di Bologna, dove strinse rapporti di amicizia con letterati e scienziati, tra i quali Cesare Marsili. Nel 1632 l'ambasciatore francese a Venezia lo fece entrare alla corte di Parma, al servizio di casa Farnese. Inizialmente assunto come maestro di francese del duca Odoardo, in breve il G., colto e dotato di indubbio fascino, seppe farsi apprezzare dal duca, di cui era quasi coetaneo, che lo tenne accanto a sé prima come consigliere e favorito, poi come segretario di Stato. Da questa data in poi il G., lasciati gli studi letterari, si diede completamente all'attività politica e diplomatica, che gli procurò una rapida fortuna.
Negli anni che seguirono, fino alla morte di Odoardo Farnese (12 sett. 1646), egli influenzò fortemente la politica del duca, compiacendo o, secondo i contemporanei - che lo ritennero addirittura una spia del cardinale Richelieu -, spingendo Odoardo all'abbandono della tradizionale alleanza con la Spagna per entrare nell'orbita della Francia.
Il duca Odoardo, ambizioso e spregiudicato, sperava che l'appoggio francese - come il cardinale Richelieu gli assicurava - avrebbe potuto consentirgli la conquista di una posizione di maggiore prestigio nell'ambito degli Stati italiani e un ampliamento territoriale del Ducato a spese dei domini lombardi della Spagna, che in quel momento erano al centro del conflitto europeo. Sicuramente però né il carattere né l'indubbia influenza del G. bastano a spiegare il mutamento di alleanza, che fu condiviso del resto da altri Stati come Modena, Mantova e dal Ducato di Savoia e che va inserito nelle alterne vicende della guerra dei Trent'anni.
L'occasione per la rottura con la Spagna fu il rifiuto di accogliere un presidio militare spagnolo nella cittadella di Piacenza e la sua sanzione fu il trattato del 20 apr. 1633, con il quale il duca si impegnava ad armare un esercito e ad appoggiare le forze francesi in Italia. La reazione fu dapprima il sequestro da parte della Spagna di tutti i beni farnesiani in Abruzzo, poi l'invasione del territorio parmense. Odoardo, accompagnato dal G., si recò a Parigi a chiedere aiuti militari ed economici, ottenendo però solo manifestazioni di amicizia e vaghe promesse. Di conseguenza, trovato al suo ritorno il Ducato in condizioni rovinose, con la città di Piacenza stretta d'assedio, il duca si convinse a riconciliarsi con la Spagna e, grazie alla mediazione del cognato Ferdinando II de' Medici e del papa, riuscì a ottenere condizioni di pace non troppo dure.
Nonostante la pace con la Spagna, Odoardo mantenne con la Francia stretti legami di amicizia e non pensò ad allontanare il G., principale ispiratore della sfortunata politica filofrancese, ma volle anzi ufficializzarne l'ascesa politica e sociale a corte conferendogli prima il titolo di marchese di Castelguelfo e in seguito il feudo di Felino con il titolo comitale. A questi importanti riconoscimenti seguiva il matrimonio con Vetruria Anguissola di Grazzano, figlia del marchese Galvano: un matrimonio prestigioso che inseriva il G. tra le principali famiglie della nobiltà piacentina. Le nozze furono celebrate l'8 marzo 1643 con grandi festeggiamenti alla presenza del duca e cantate dal poeta ufficiale di corte, il conte Bernardo Morando, nell'epitalamio Venere la celeste.
Le ingenti spese della guerra contro la Spagna avevano costretto Odoardo a fare ricorso a prestiti pubblici, a Roma noti come Monti Farnesi, i cui interessi dovevano essere pagati con le rendite - appaltate ai banchieri romani Siri - del feudo di Castro e Ronciglione, assegnato nel 1536 da Paolo III al figlio Pierluigi Farnese e ai suoi discendenti. La rescissione del contratto, suggerita ai Siri dai potenti nipoti di Urbano VIII Barberini, e la necessità di pagare i creditori metteva il duca Odoardo in serie difficoltà, cui egli reagiva con arroganza facendo fortificare Castro. Iniziava così il grave contrasto con la Santa Sede che portò, su consiglio del G., a espellere dal Ducato il vescovo di Piacenza e altri ecclesiastici ritenuti troppo ligi al papa e, dopo la scomunica del duca il 13 genn. 1642, alla guerra di Castro. Con la decisione di Urbano VIII di attaccare il Ducato di Parma, la guerra si allargò a Venezia, Toscana e Modena, che si unirono in una lega in aiuto al Farnese. Dopo fasi alterne, in cui il conflitto si trascinò senza risultati di rilievo, il cardinale Mazzarino riuscì a far stipulare la pace tra la Repubblica veneta, il Granducato di Toscana, Modena e il papa e, separatamente, tra il papa e Odoardo Farnese. La pace, conclusa a Venezia il 31 marzo 1644, ripristinò la situazione anteriore e pose provvisoriamente fine al conflitto, i cui costi erano ammontati complessivamente a 12 milioni di scudi.
La conclusione della guerra fu celebrata a Parma con grandiose feste che durarono otto giorni, con carri trionfali, balli in maschera, combattimenti in piazza, di cui il G., che a Venezia aveva brillantemente negoziato la pace per il duca di Parma, fu protagonista.
Due anni dopo, alla morte del duca, salì al trono il giovane figlio Ranuccio II sotto la reggenza della madre Margherita de' Medici e dello zio, il cardinale Francesco Maria Farnese. Nel testamento il duca Odoardo aveva provveduto largamente al G. con doni e lasciti e lo aveva raccomandato con calore al figlio come il suo più caro e fidato servitore. Il G. pertanto mantenne la sua posizione di prestigio nel Consiglio ducale e continuò a godere del favore del nuovo duca, anche se fu avversato da Margherita.
Nei primi anni del nuovo governo il G. indusse Ranuccio II a seguire una linea di prudente neutralità per non urtarsi con Francia e Spagna, la cui influenza nell'area padana era cruciale. Ma l'aver rinunciato all'appoggio francese doveva in seguito dimostrarsi negativo per le sorti del feudo di Castro e, indirettamente, dello stesso Gaufrido. Una divergenza con Innocenzo X per la nomina a vescovo di Castro del barnabita Cristoforo Giarda, non gradito a Ranuccio II, riaprì le ostilità con lo Stato della Chiesa. Il 18 marzo 1649 il nuovo vescovo fu assassinato mentre si recava a prendere possesso della sua sede: l'odiosità del crimine fu fatta ricadere sul G., anche se circolava apertamente la voce che Ranuccio II avesse ordinato il delitto. La guerra era dunque ormai inevitabile: mentre le truppe pontificie entravano nel territorio di Castro, quelle del duca di Parma si preparavano ad attaccare lo Stato pontificio invadendo il territorio bolognese. Le comandava, per quanto inesperto di strategia militare, il G., il quale sperava in un successo personale che lo avrebbe rafforzato sul suo più temibile rivale, il lucchese Giuseppe Serafini, favorito della duchessa Margherita e maestro di campo generale. Lo scontro con le armi pontificie, guidate dal generale Mattei, fu però fatale per le forze ducali, che il 13 ag. 1649 a San Pietro in Casale, presso Bologna, furono messe in fuga dopo aver subito grosse perdite.
Il comportamento in battaglia del G. è stato diversamente giudicato: secondo il contemporaneo V. Siri (molto critico in generale sul G., considerato un ambizioso che il favore dei suoi padroni aveva illuso di essere un grande letterato, uno statista e un condottiero) era restato sempre in retroguardia e, appena vista la mala parata, aveva cercato solo di mettersi in salvo, mentre testimoni oculari diedero giudizi più benevoli.
Rientrato a Parma con pochi uomini, il 18 agosto il G. sperava ancora nella benevolenza del duca, ma la sua posizione era ormai decisamente compromessa: i suoi avversari, tra cui la duchessa madre e Serafini, ma anche esponenti della nobiltà piacentina, cui dava ombra il suo eccessivo potere, avevano convinto il duca a prendere le distanze dal G. e a far ricadere su di lui la responsabilità della guerra e del suo insuccesso. Anche nei confronti del papa era poi necessario trovare un capro espiatorio cui infliggere una condanna esemplare. A malincuore Ranuccio II consentì a far arrestare il suo favorito per tradurlo nella cittadella di Piacenza, di cui Serafini era castellano. Impossibilitato a giustificarsi direttamente con il duca, il G. era ormai completamente nelle mani dei suoi avversari. Contro di lui fu istruito un processo il cui esito apparve scontato fin dall'inizio e al termine del quale il G. - ritenuto colpevole di fellonia, di falso e di violata immunità - fu condannato alla confisca dei beni e alla pena capitale.
L'esecuzione ebbe luogo l'8 genn. 1650, davanti a una folla enorme e, per ammissione dei contemporanei, fu affrontata con grande dignità dal G., che lasciò la giovanissima moglie, da quel momento ritiratasi a vita riservatissima, e due figlie. Al suo posto nel Consiglio ducale fu chiamato il filospagnolo Piergiorgio Lampugnani, che fece suo anche il titolo di conte di Felino.
Nell'ambito letterario bolognese, il G. fu ascritto all'Accademia della Notte, presso la quale pronunciò una Apologia pro philautia naturae (Bononiae 1632). Sempre nel 1632 compose e pubblicò a Bologna una Epistola ad illustriss. et reverendiss. Claudium Fliscum, studio critico sul Ratto d'Elena di Guido Reni (una lettera sul medesimo argomento in Fermi, 1907, pp. 98 s.). Allo stesso periodo risale anche l'amicizia con il letterato e poeta marinista Claudio Achillini, sodalizio testimoniato dalla pubblicazione delle Decas amoenissimarum epistolarum (Parmae 1635), una raccolta di lettere, corrispondenti per argomento, che i due si erano scambiati. In questi anni, tramite Marsili, il G. entrò in contatto con Galileo Galilei.
Il primo accenno allo "studente franzese" nei carteggi galileiani è contenuto in una lettera indirizzata dallo scienziato pisano a Marsili il 29 nov. 1631. Alla benevolenza manifestata nei suoi confronti il G. rispose prontamente con una lettera a stampa: Galilaeo Galilaeo, Lynceorum duci, philosophorum primo Iacobus Gaufridus salutem (Bononiae 1631; in Opere di G. Galilei, XIV, pp. 313-316), contenente un elogio del nuovo metodo scientifico e un'adesione incondizionata al sistema copernicano, verso il quale il Sant'Uffizio stava già manifestando ostilità (altra lettera del G. a Galilei in data 26 marzo 1632, ibid., p. 338).
Un suo progettato viaggio a Firenze, del quale si parla in una lettera di Marsili a Galilei (16 marzo 1632), non ebbe probabilmente mai luogo: in quello stesso anno infatti il G. fu colpito dalla censura ecclesiastica per la composizione di una Apologia del re cristianissimo e si rifugiò a Venezia. Durante quel breve soggiorno conobbe Giovan Francesco Loredano e frequentò l'Accademia degli Incogniti. È probabilmente a questo periodo che si deve fare risalire il progetto, realizzato però soltanto dopo l'inizio del servizio presso i Farnese, della composizione di un romanzo politico in latino (il Philogenes) che eguagliasse la fama dell'Argenis (1622) di J. Barclay.
Risale al primo anno di permanenza presso i Farnese il trattatello in latino, dedicato al fratello Blasio, Spectacula comoediarum ad mores (Placentiae 1633), rassegna delle maschere della commedia dell'arte. Rimangono inoltre alcuni manoscritti di opere composte anch'esse perlopiù in latino.
Del Philogenes, rimasto inedito, non è pervenuto un manoscritto completo. Nel 1907 Fermi individuò diciotto fogli non numerati del terzo libro presso Gaetano Tononi, studioso piacentino. Rimane inoltre piuttosto incerta la datazione dell'opera. Lo scambio epistolare con il letterato B. Morando sembra infatti collocarla intorno al 1635-37, ma nel sonetto anonimo anteposto ai frammenti individuati (in cui si elogia l'autore per il ritratto del duca Odoardo Farnese contenuto nella dedicatoria al romanzo) il G. è chiamato marchese, titolo acquisito nel 1643: il che lascerebbe supporre una collocazione del romanzo successiva al 1643.
Tra gli altri manoscritti indicati dal Fermi, l'interesse del G. per il teatro è confermato dai primi due atti della commedia Della pietà crudele. Rimangono anche alcuni Distici ed epigrammi latini e greci (di argomento religioso, storico o d'occasione), alcune Lettere a diversi (in latino) e brevi scritti di vario argomento (osservazioni mediche, elogi ed epigrafi): tutti manoscritti che risultavano nel 1907 in possesso di un privato. In una lettera inviata da J. Chapelain al G. (1° sett. 1636) si parla inoltre di un'opera di filologia alla cui composizione egli attendeva da molto tempo e della quale auspicava la pubblicazione.
Infine, tra le amicizie del G. va ricordato il poeta Fulvio Testi, segretario del duca di Modena; tra il settembre del 1642 e il maggio 1645 i due, a nome dei rispettivi signori, si scambiarono corrispondenza riguardante perlopiù le vicende del Ducato di Castro.
Fonti e Bibl.: Parma, Biblioteca comunale, Ms. Pollastrelli 313: Vita e morte del marchese G.; V. Siri, Il Mercurio, overo Historia de' correnti tempi, XIV, Casale 1682, pp. 163-168, 181-184; G. Cinelli Calvoli, Biblioteca volante, III, Venezia 1746, pp. 22 s.; J. Chapelain, Lettres, a cura di P. Tamizey de Larroque, I, Paris 1880, p. 115; G. Galilei, Opere (ediz. nazionale), XIV, pp. 312-317, 319, 325, 328, 334, 336, 338; F. Testi, Lettere, a cura di M.L. Doglio, III, Bari 1967, ad indicem; R. Galluzzi, Istoria del Granducato di Toscana sotto il governo della casa Medici, VI, Livorno 1781, pp. 79, 82, 237 s., 240 s., 244; Disgrazia e morte del marchese G. G… Frammento di storia inedita da G. Rinalducci esistente nella Magliabechiana di Firenze, a cura di S. Tomani Amiani, Fassa 1866; L. Grottanelli, Il ducato di Castro. I Farnesi ed i Barberini, Firenze 1891, pp. 51, 133, 137 s., 143 s.; G. Demaria, La guerra di Castro e la spedizione dei Presidi (1639-1649), in Misc. di storia italiana, s. 3, IV (1898), pp. 250, 252, 254 s.; L. Cerri, J. G. (episodio di storia piacentina del sec. XVII), in Bollettino storico piacentino, I (1906), pp. 28-38, 77-87; S. Fermi, Due amicizie letterarie di G. G. (G. Galilei e C. Achillini), ibid., II (1907), pp. 97-106; Id., Romanzieri piacentini della decadenza, ibid., pp. 157-159; F. Picco, Un poetico accenno a J. G., ibid., III (1908), pp. 88 s.; S. Fermi, Di un presunto carme di I. G. in lode di Odoardo Farnese, ibid., pp. 139 s.; P. Negri, Nuove amicizie letterarie di J. G., ibid., IV (1909), pp. 113-128; G. Drei, I Farnese, grandezza e decadenza di una dinastia italiana, a cura di G. Allegri Tassoni, Roma 1954, pp. 204 s., 218-224, 234 s., 267; E. Nasalli Rocca, I Farnese, Varese 1969, pp. 164 s., 171, 187, 189-191; G. Tocci, Il Ducato di Parma e Piacenza, in Storia d'Italia (Utet), XVII, I Ducati padani, Trento e Trieste, Torino 1979, pp. 267, 269, 278-280; A. Favaro, Amici e corrispondenti di Galileo, a cura di P. Galluzzi, Firenze 1983, p. 436; G. Fiori, Politica espansionistica ed ambizioni dinastiche dei Farnese, in Archivi per la storia, 1988, 1-2, pp. 227 s.
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