FOSCARI, Jacopo
Figlio di secondo letto di Francesco e di Marina Nani, del ramo a S. Leonardo, nacque a Venezia intorno al 1416. Il padre, poco più che quarantenne, era al culmine di una fulgida carriera politica che lo avrebbe portato a raggiungere la massima carica della Repubblica appena qualche anno più tardi, nel 1423.
L'educazione del F. fu delle migliori, come testimoniano le diverse opere che gli dedicarono umanisti quali Francesco Barbaro, Poggio Bracciolini, Leonardo Bruni, Guarino Veronese e Lauro Querini, con i quali tutti egli intrattenne corrispondenza.
Quanto alla carriera politica del F., se pur vi fu, rimase allo stato virtuale: i registri del Pregadi ne riportano il nome tra quelli dei senatori per gli anni 1438-44, ma sempre accompagnato da cancellature, il che per solito vuol significare mancata o - tutt'al più - effimera prestazione di servizio.
Dopo la scomparsa del fratello Domenico, morto di peste nel 1438, il F. rimase l'unico superstite figlio del doge, che riversò in lui l'affetto e le speranze di un uomo tanto rigoroso e duro con gli avversari quanto indulgente con la prole. Si spiega in tal modo l'ostentazione di sfarzo e mondanità con cui vennero accompagnate le nozze contratte dal F., il 5 febbr. 1441, con Lucrezia Contarini di Leonardo di Pietro, da cui avrebbe avuto due maschi e altrettante femmine.
L'esibizione del Bucintoro per accompagnare la sposa a palazzo ducale, i giochi, i tornei banditi nella piazza di S. Marco, le feste protrattesi per oltre due settimane ebbero un forte impatto psicologico sulla città, così da trasformare una cerimonia privata in evento pubblico, quasi a suggerire una sorta di identificazione della potenza dello Stato con quella della famiglia ducale.
Una manciata d'anni sarebbe tuttavia bastata per trasformare l'ebbrezza di quei giorni in tragedia. Il 18 febbr. 1445 il Consiglio dei dieci decideva l'imprigionamento del F., a motivo di certe presunte collusioni con principi stranieri. Avuto sentore di quel che si preparava, il F. riparò a Trieste, in territorio imperiale, mentre il 20 febbraio i Dieci ne pronunciavano il bando perpetuo e l'esilio a Nauplia, nel Peloponneso; si inviava pertanto a Trieste il sopracomito Marco Trevisan a eseguire l'ordine e di lì a qualche giorno (3 marzo) veniva proibito alla dogaressa di recarsi nella città giuliana a rivedere il figlio.
Sin qui gli avvenimenti suggeriscono il quadro di una famiglia sgomenta, muta di fronte al violento attacco del Consiglio dei dieci, dei quali era capo Francesco Loredan, nipote di Pietro, l'eroe di Gallipoli che Francesco Foscari aveva sconfitto nell'elezione ducale e che era poi morto avvelenato: tanto bastò perché la letteratura (da Byron a Verdi, ma su su fino a studi recenti) si impadronisse della vicenda, presentandola come una vendetta attuata dai Loredan con freddo calcolo.
Gli elementi, a cercarli, non mancano, né è facile sottrarsi alla suggestione di ricomporli nel disegno di un tragico percorso, tuttavia - almeno in questa prima fase della lunga e tormentata vicenda - i documenti sembrano piuttosto descrivere l'agire dei Dieci come improntato a mitezza: il Trevisan salpò per Trieste non prima del 25 febbraio e, una volta a destinazione, non riuscì a catturare il F., visto che l'11 marzo gli inquirenti chiedevano al doge di persuadere il figlio a costituirsi, promettendo indulgenza. Addirittura sconcertante, poi, il comportamento del Consiglio dei dieci nei mesi che seguirono, lasciati scorrere nell'inerzia totale, verosimilmente a causa delle pressioni e dei maneggi ducali: quindi il 28 nov. 1446 venne la grazia; in tal modo l'esilio a Nauplia fu convertito nella ben più comoda sede del Trevigiano, dove i Foscari possedevano il feudo di Zelarino, si può dire ai limiti della laguna. Di lì a poco, infine (13 sett. 1447) i Dieci concedevano il perdono tanto a lungo invocato.
Appena qualche anno dopo, tuttavia, si rinnovarono le accuse e stavolta furono imputazioni assai più gravi. La sera del 5 nov. 1450 era stato ucciso per mano ignota Ermolao Donà, fratello del procuratore Andrea, che molti odi s'era attirato esercitando la carica di avogadore di Comun; del caso fu ovviamente investito il Consiglio dei dieci, che indagò in diverse direzioni, senza frutto. Finalmente, il 3 genn. 1451 si ordinò l'arresto del F., in seguito alla denuncia del nobile Antonio Venier di Gerolamo. Ora, che tra il F. e l'ucciso non corresse buon sangue era noto a tutti, tuttavia la figura morale del Venier - per quanto ne sappiamo - risulta quantomeno discutibile.
Il processo si trascinò per quasi tre mesi, poiché, nonostante il ricorso alla tortura, non si poté mai ottenere la confessione dell'imputato: nella sentenza del 26 marzo 1451 i Dieci, pur dichiarandosi convinti della sua colpevolezza, ammettevano la mancanza di una prova decisiva ("videatur non esse possibile extrahere de ore suo illam veritatem…, quoniam in fune nec vocem nec gemitum emittit"). Forse per tal motivo il Consiglio non pronunciò una condanna capitale contro il F., che la notte del 29 marzo venne fatto salpare alla volta di Candia, dove gli era stato assegnato l'esilio perpetuo a Canea.
Esilio, non prigionia; né dovette trattarsi di relegazione troppo severa. Senonché alcuni anni dopo, il 7 giugno 1456, i Dieci tornavano a occuparsi dello sventurato giovane, essendo giunte informazioni di come costui intrattenesse corrispondenza col duca di Milano, Francesco Sforza, e addirittura con il sultano Maometto II.
Sul da farsi, però, il Consiglio si divise: l'indomani alcuni si limitarono a proporre di infliggergli una severa ammonizione, ma la maggioranza guidata dai capi - tra i quali era un Loredan, Giacomo - deliberò di convocarlo a Venezia. Il 12 giugno fu inviato alla Canea il sopracomito Lorenzo Loredan, che riportò il F. a Venezia nello spazio di poco più di un mese. Anche il procedimento giudiziario fu rapido: il 24 luglio 1456 i Dieci comminavano al F. (che peraltro aveva ammesso ogni addebito) la pena più lieve, ossia il semplice ritorno all'esilio cretese; al doge e ai familiari fu anche consentito di visitare il congiunto in prigione.
La permanenza del F. nella sua città durò pochi giorni, ma quello che ritornava alla Canea era un uomo finito: qualche mese più tardi un dispaccio del rettore informava infatti che il F. era morto il 12 genn. 1457. Precedeva così nel sepolcro il padre, che sarebbe scomparso nell'autunno dello stesso anno dopo aver subito l'onta della deposizione.
Un giudizio sul F. non può essere altro, oggi, che il frutto di una scelta opinabile, risolvendosi in aporia gli argomenti a favore o contro una figura indissolubilmente legata alla forte personalità paterna. Sembra comunque che non si possa accettare l'ipotesi della "congiura", intesa come una lunga vendetta coltivata dai Loredan contro la famiglia rivale: essi, semmai, sfruttarono talune circostanze, ma certo non le crearono; così come è fuori discussione l'incoercibile leggerezza del F., la sua indole incline al lusso e agli onori e soprattutto la sua mancanza di senso dello Stato; d'altro canto neppure le colpe furono davvero gravi, a considerarle in assoluto: fu il rango sociale ch'egli ricopriva a renderle imperdonabili.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd., I, Storia veneta 19: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de' patrizi veneti…, III, c. 510; Ibid., Archivio Gradenigo rio Marin, b. 333: P. Gradenigo, Lavoro storico cronologico biografico sulla veneta famiglia Foscari, pp. 48-52; per la carriera politica: Ibid., Segretario alle Voci. Elez. Pregadi, reg. 4, cc. 107v-108r, 111r, 114r, 119r, 121r, 124r; sulle vicende giudiziarie: Ibid., Maggior Consiglio. Deliberazioni, reg. 12, c. 165v; Ibid., Consiglio dei dieci. Misti, regg. 12, cc. 172r-178v, 179v, 180v; 13, cc. 18rv, 36r, 51rv, 65r, 82v-83r, 154v; 14, cc. 23v-25r, 26r, 27r, 29v-30r, 31rv, 36r, 37v-41v; 15, cc. 10v, 96r-98v, 101v-103v, 119v; M. Sanuto, Vitae ducum Venetorum…, in L.A. Muratori, Rer. Ital. Script., XXII, Mediolani 1733, coll. 1138 s., 1162 s.; R. Sabbadini, Centotrenta lettere inedite di Francesco Barbaro…, Salerno 1884, pp. 25-28; E.A. Cicogna, Delle inscriz. veneziane, Venezia 1827-1834, II, p. 56; III, pp. 373, 389; IV, p. 260; F. Berlan, I due Foscari. Memorie storico-critiche con documenti inediti…, Torino 1852 (è tuttora la più organica ricostruzione delle vicende giudiziarie del F.); S. Romanin, Storia documentata di Venezia, IV, Venezia 1855, pp. 265-286; G.B. Picotti, La Dieta di Mantova e la politica de' Veneziani, Venezia 1912, pp. 302 s., 305; H. Kretschmayr, Geschichte von Venedig, II, Gotha 1920, pp. 364 s., 628; A. Da Mosto, I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Milano 1960, pp. 165, 167, 171 ss.; Lauro Quirini umanista, a cura di V. Branca, Firenze 1977, pp. 12, 28, 105, 167; M.L. King, Umanesimo e patriziato a Venezia nel Quattrocento, II, Roma 1989, pp. 541 ss.; Diz. biogr. degli Italiani, XL, p. 723; XLIII, p. 174.