Bracciolini, Jacopo
Umanista italiano (Firenze 1442 - ivi 1478), terzo figlio di Poggio, dedicò molte delle sue energie alla valorizzazione dell’eredità culturale del padre, tenendone viva la fama e diffondendone le opere (fra l’altro, volgarizzò le Historiae Florentini populi e la latinizzazione paterna della Ciropedia di Senofonte). Amico per lungo tempo di Lorenzo de’ Medici, ma sempre in cerca – a causa delle sue difficoltà economiche – di protettori influenti, si legò, verso la metà degli anni Settanta, all’arcivescovo di Pisa Francesco Salviati e al cardinale Raffaello Riario. Entrò così nella cerchia degli aderenti alla congiura dei Pazzi, dopo il fallimento della quale venne, nello stesso giorno, catturato e impiccato.
Fra i suoi scritti si annoverano anche la novella volgare De origine belli inter Gallos et Britannos, il trattatello latino Contra detractores, la latinizzazione della novella X viii del Decameron e un volgarizzamento parziale della Historia Augusta.
La sua opera maggiore è tuttavia il Commento al Trionfo della Fama di Francesco Petrarca, che prende in esame il capitolo “Nel cor pien d’amarissima dolcezza”, oggi ritenuto un primo abbozzo (e contrassegnato pertanto TF Ia), ma allora considerato il capitolo iniziale di quel ‘trionfo’. La galleria di personaggi elencati da Petrarca offre il destro a B. sia di mostrare le proprie conoscenze storiche sia di esporre i lineamenti della sua concezione politica; e la pressoché costante presenza, dietro i protagonisti e le vicende della storia antica, di precise coordinate ideologiche e di puntuali allusioni alla situazione politica fiorentina contemporanea avvicina il Commento a opere come il cosiddetto Trattato politico-morale di Giovanni Cavalcanti e i Discorsi machiavelliani.
La posizione di B. presenta caratteri di ambiguità, oscillando fra la celebrazione del ‘principe civile’ (il primus inter pares, garante delle istituzioni, amante della libertà, rispettoso delle leggi, incarnato da Scipione, con il cui elogio l’opera si apre, recuperando l’epistola di Poggio sul confronto Cesare-Scipione indirizzata a Scipione Mainenti nel 1435) e quella della Repubblica romana arcaica, ossia di uno Stato in cui leggi severissime impedivano a qualunque cittadino di acquistare una autorità eccessiva, tale da mettere in pericolo anche solo potenzialmente le libere istituzioni. Una tale ambiguità discende certo dalle vicende personali di B. (sempre in bilico tra i Medici e l’opposizione oligarchica) e forse anche dalla storia redazionale del Commento (che, probabilmente composto sul finire degli anni Sessanta, approdò alle stampe solo alcuni anni dopo), ma, riflettendo al tempo stesso l’ambiguità strutturale della Repubblica di Firenze tra Quattro e Cinquecento, si riscontra non di rado nella pubblicistica politica fiorentina dell’epoca, ed emerge talora anche negli scritti di Machiavelli.
Trattando di Gaio Duilio (nel commento a TF Ia, vv. 50-51), B. parla dell’ingratitudine di cui molti accusano Roma, allegando gli esempi di Scipione, Camillo e Coriolano; e, per dimostrare l’infondatezza di tale opinione, afferma che Roma più di ogni altra Repubblica concedeva premi alla virtù, e che l’aver essa mandato in esilio cittadini valorosi e meritevoli non è segno di ingratitudine, bensì di prudenza e saggezza, giacché i Romani ben sapevano – al pari degli Ateniesi – come i cittadini divenuti troppo potenti costituiscano una minaccia per la libertà. In quest’ottica, B. giunge perfino a giustificare il comportamento di Roma nei confronti di Scipione, attribuendolo non all’ingratitudine, ma al desiderio di «conservare» la repubblica e al «timor della tyrannide» (Commento, in Bausi 2011, p. 184). Una posizione di tal genere scaturisce, come è chiaro, da un’ideologia integralmente repubblicana, non disposta ad accettare l’autorità di un cittadino ‘eminente’, benché virtuoso, né dunque a riconoscere alcuna forma di criptoprincipato; non per nulla, concludendo questa parte, B. proclama
inconveniente grandissimo essere in quella [repubblica] tali huomini e tanto eminenti sopra gli altri che non possino stare sottoposti alle leggi, né maggior segno apparire della libertà d’una città che ogni huomo essere equale, né temere d’acusare e cittadini, per potenti che sieno, se paressi che havessino commesso mancamento (Commento, in Bausi 2011, p. 184).
Una pagina, questa, riecheggiata con quasi assoluta identità di esempi e di argomentazioni nei Discorsi I xxix 15-26, dove vengono riproposti i tre esempi di Scipione, Coriolano e Camillo (presenti anche in Valerio Massimo, Facta et dicta memorabilia, V iii 2), e dove parimenti si sostiene che solo nel caso del primo di essi Roma potrebbe essere accusata di vera e propria ingratitudine; e anche M. difende da quest’accusa la Repubblica romana, giustificandone il comportamento in nome di quell’amore per la libertà che indusse il senato a sospettare di un cittadino cui le sue grandi imprese e le sue «memorabili virtudi» avevano procurato un’autorità «straordinaria», ossia non compatibile con le istituzioni di una repubblica (Discorsi, a cura di F. Bausi, 2001, pp. 149-51).
Palesi sembrano soprattutto le analogie fra il Commento di B. e certi capitoli dei Discorsi di impostazione più marcatamente repubblicana (forse risalenti a una perduta opera sulle repubbliche composta da M. ante res perditas), se è vero che, come abbiamo appena visto, B. conclude la parte dedicata a Duilio accennando a quel tema delle «accuse» cui M. riserverà il cap. vii del primo libro (Quanto siano in una repubblica necessarie le accuse a mantenerla in libertade), impostandolo nella medesima chiave:
A coloro che in una città sono preposti per guardia della sua libertà, non si può dare autorità più utile e necessaria, quanto è quella di potere accusare i cittadini al popolo, o a qualunque magistrato o consiglio, quando peccassono in alcuna cosa contro allo stato libero (Discorsi, a cura di F. Bausi, 2001, p. 50).
Altrove, però, l’atteggiamento di B. appare meno intransigente, giacché egli si mostra disposto ad approvare figure semiprincipesche che esercitano il loro potere nell’ambito di istituzioni repubblicane almeno formalmente ancora in vigore: era questo, fra gli altri, il caso di Lorenzo il Magnifico, dedicatario del Commento, il cui profilo è ben riconoscibile dietro i ritratti di Scipione (esaltato, in tradizionale contrapposizione a Cesare, all’inizio dell’opera) e di alcuni imperatori romani «buoni» e «civili», dipinti come tali sulla scorta soprattutto dell’Historia Augusta.
Questa tradizione storiografica, tendente a raffigurare certi imperatori romani alla stregua di semplici cittadini ‘eminenti’, anziché con i tratti del vero e proprio monarca, sembra in qualche misura agire anche in Discorsi I x, dove i medesimi sei imperatori (Tito, Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio), elogiati da B. sulla scorta di Petrarca (TF I, vv. 121-26; TF Ia, vv. 98-110), vengono non solo esaltati come «principi buoni» che «vissero sotto le leggi», ma anche proposti come modelli a chi sia «principe in una republica» (§§ 16-18: Discorsi, a cura di F. Bausi, 2001, pp. 71-72).
Dal Commento di B., oltre che dal petrarchesco De viris illustribus volgarizzato da Donato Albanzani, potrebbe derivare inoltre la contrapposizione dei due esempi di Manlio Torquato e Valerio Corvino (l’uno duro, l’altro mite nei confronti dei propri soldati e dei nemici, ma entrambi vittoriosi e gloriosi) in Discorsi III xxii (Bausi 1987, pp. 160-63); e questa tendenza di M. a rievocare fatti e personaggi antichi anche ricorrendo alla mediazione di fonti volgari, soprattutto fiorentine e quattrocentesche, è confermata dagli echi del Commento reperibili nella narrazione di tre celebri episodi della vita di Scipione (quando salvò il padre durante la battaglia sul Ticino contro Annibale; quando, dopo la sconfitta di Canne, costrinse a giurare di non abbandonare Roma quei cittadini che avevano deciso di fuggire in Sicilia; quando, dopo l’espugnazione di Cartagine Nuova in Spagna, restituì intatta al marito e ai genitori una bellissima fanciulla catturata come ostaggio) in altrettanti capitoli dei Discorsi (I xi, III xx, III xxxiv; cfr. Bausi 1987, pp. 169-83). Un’altra coincidenza si registra a proposito dell’interpretazione evemeristica del combattimento fra Ercole e Anteo (Discorsi II xii 9-10: «Anteo re di Libia, assaltato da Ercole Egizio, fu insuperabile mentre che lo aspettò dentro a’ confini del suo regno; ma, come ei se ne discostò per astuzia di Ercole, perdé lo stato e la vita»; Discorsi, a cura di F. Bausi, 2001, pp. 376-77), che trova preciso riscontro nel Commento di B. (Bausi 2011, p. 192), ma che più plausibilmente M. desume dal commento dantesco di Cristoforo Landino (Inferno XXXI 100), il quale la ricava, come B., dalle boccacciane Genealogie deorum gentilium I xiii (Bausi 1998, pp. 89-90).
M. non cita mai alcuna opera di B., ma lo ricorda nelle Istorie fiorentine VIII iv-v e vii, ricostruendo le fasi salienti della sua partecipazione alla congiura dei Pazzi, della sua cattura e della sua esecuzione, e abbozzandone un rapido e fosco ritratto («giovane litterato, ma ambizioso e di cose nuove desiderosissimo»: VIII iv 15) che coincide nella sostanza con quello fornito da Angelo Poliziano (ob ingenitam quandam sibi vanitatem, rerum novarum cupidus erat, «per una certa sua naturale ambizione, delle cose nuove era grandemente ambizioso») nel suo Coniurationis commentarium (ed. a cura di A. Perosa, 1958, p. 17). Già Carlo Dionisotti, tuttavia, aveva supposto che M. conoscesse il Commento di B. (Dionisotti 1974, p. 91) e la sua intuizione è stata poi confermata (Bausi 1987; Bausi 2011, pp. 128-56). D’altronde, l’opera godette di notevole fortuna sul finire del 15° sec., certo anche in grazia della sua coloritura repubblicana e delle tragiche vicende biografiche del suo autore: lo dimostrano non solo le due stampe quattrocentesche (Roma, circa 1475-1476; Firenze, Francesco Bonaccorsi, genn. 1486), ma anche gli oltre venti manoscritti oggi noti (Bausi 2011, pp. 156-58; alle pp. 170-93, l’unica ed. moderna, benché parziale, dell’opera). La sua importanza per M. non risiede solo in certi contatti puntuali o in alcune specifiche analogie tematiche che essa rivela con i Discorsi, ma anche e soprattutto nel configurarsi come un «documento di fondamentale importanza […] per la storia della letteratura politica fiorentina d’ispirazione repubblicana» (Dionisotti 1974, pp. 90-91) e più precisamente come un testo chiave per la definizione sia di un caratteristico metodo di analisi politica (tendente a ricercare nei fatti della storia antica, soprattutto romana, analogie con la storia contemporanea, talora dissimulando i riferimenti all’attualità) sia di un’ideologia oscillante tra nostalgie repubblicane e teorizzazioni del «principato civile». Un metodo e un’ideologia che improntano, com’è noto, larghe parti della riflessione e della produzione di Machiavelli.
M. conosceva sicuramente, comunque, anche altre opere di B., e in particolare i già citati volgarizzamenti delle Historiae di Poggio e della Ciropedia; il che non stupisce, data la sua abitudine di leggere i testi latini nelle traduzioni volgari, ove disponibili.
La traduzione delle storie paterne condotta da B. fu pubblicata a Venezia nel 1476 e poi più volte ristampata; quella della latinizzazione poggiana della Ciropedia uscì a stampa a Firenze, presso i Giunti, nel 1521 (quattro mesi prima dell’Arte della guerra, a opera e con prefazione di quel Giovanni Gaddi che l’anno precedente aveva ricevuto da Biagio Buonaccorsi un manoscritto del Principe e che tanta parte avrebbe avuto nella prima pubblicazione delle opere maggiori di M. a Firenze e a Roma fra il 1531 e il 1532), ma circolava anche in copie manoscritte, una delle quali, l’attuale Magliabechiano XXIII 60 della BNCF, di mano dello stesso Buonaccorsi (Biasiori 2010-2011, pp. 28-29). La Ciropedia è più volte menzionata da M., sia nel Principe sia nei Discorsi, e sempre con il titolo (Vita di Ciro) del volgarizzamento di B.; inoltre, probabili affinità testuali si riscontrano in almeno due luoghi. Il primo nel Principe vi 13:
«Bisognava che Ciro trovasse e Persi malcontenti dello imperio de’ Medi, ed e Medi molli ed effeminati per la lunga pace»; per cui cfr. Vita di Ciro:
Cyro maravigliosamente si dolse con l’avolo, che sì tristamente lasciassino senza colpo di spada rubare e guastare il paese da nimici imbelli, effeminati e molli. […] Era adunque necessario, per vincere gli adversarii, che lui stando sempre in ordine con le gente, si sforzasse trovare loro sproveduti e disordinati (Senofonte, Vita di Ciro, volgarizzata da J. Bracciolini, 1521, ff. 18r e 28v; cfr. Biasiori 2010-2011, p. 53).
Il secondo, verso la fine dell’Arte della guerra VII 236, dove i moderni principi italiani, spazzati via da Carlo VIII, vengono implicitamente identificati con i corrotti sovrani orientali dell’antichità, sconfitti da Ciro (Senofonte, Vita di Ciro, cit., f. 23v; cfr. Bausi 2005, pp. 241-43).
Bibliografia: Commento al Trionfo della Fama, Roma circa 1475-1476, poi Firenze 1486, ed. parziale in F. Bausi, Umanesimo a Firenze nell’età di Lorenzo e Poliziano, Roma 2011, pp. 170-93. Si veda inoltre: N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, a cura di F. Bausi, Roma 2001.
Per gli studi critici si vedano: C. Dionisotti, Fortuna di Petrarca nel Quattrocento, «Italia medioevale e umanistica», 1974, 17, pp. 61-113; F. Bausi, Fonti classiche e mediazioni moderne nei Discorsi machiavelliani: gli episodi di Scipione, Torquato e Valerio, «Interpres », 1987, 7, pp. 159-90; F. Bausi, Machiavelli e la tradizione culturale toscana, in Cultura e scrittura di Machiavelli, Atti del Convegno, Firenze-Pisa 1997, Roma 1998, pp. 81-115; M. Simonetta, Rinascimento segreto. Il mondo del segretario da Petrarca a Machiavelli, Milano 2004, pp. 181-87; F. Bausi, Machiavelli, Roma 2005, pp. 241-43; D. Canfora, Prima di Machiavelli. Politica e cultura in età umanistica, Bari 2005, pp. 33, 87-89; L. Biasiori, Letture di Niccolò. Storia e fortuna di Machiavelli, tesi di perfezionamento discussa presso la Classe di Lettere della Scuola Normale Superiore di Pisa, a.a. 2010-2011, pp. 34-53 (consultabile sul sito della Biblioteca della Scuola Normale: http://biblio.sns.it); F. Bausi, Umanesimo a Firenze nell’età di Lorenzo e Poliziano, Roma 2011, pp. 3-167.